Leuternia

Leuternia: il mito rivisitato 

La historia de Leuternia scripta in esta pagina fue signata de ‘nna quistione prima facie strana. Dopu capii ca nu era pe’ nienti strana. ‘Nc’è vuluta tutta ‘nna vita pe’ capirla, ma alla fine a santa veritate vinne a galla et me mise sulla ritta via. Se fice canuscire ‘nnu picca alla fiata, propriu comu fice ‘ddhra lingua ianca de ‘nzurfu ca ‘nnu giurnu, ci sape comu, cuminciau a ‘ssire de a crutta da Feddhrica, ‘nna spaccatura de lu cute tostu subbra a cui era statu ‘mpizzatu u palazzu de lu signuru du paese. Nu era sulu lu culure iancu de lu mare et sua crassa cunsistentia ca ne fice ‘mpressione, quantu lu fetore ca te facia hommicare, come de ove ‘nfitisciute chiuse intra ‘nna capasa cu ‘nnu picca d’acqua. Pe’ ‘stu fattu i signuri chiamarene a crutta “Fetida”, allu postu de lu vecchiu nome ca in dialettu se dice “Feddhrica”, comu già dissi, ca in italicu idioma significa “Fessura”, percè pare propriu ‘nnu taju intra a lu munte e filu l’entrata de ‘nna caverna scavata cum pacentia da lu riu sutterraneu ca porta a mare l’acqua de tutta la cuntrada. 

Mai ciuveddhri, mancu li vecchi de li vecchi, se ricurdava ‘nna cosa cusì; nu l’iane scritta mancu i monici de lu cumentu, perciò era de sicuru rrobba de lu diaulu ca ‘mpestava l’acqua e l’aria de la schifezza ca esse de lu ‘nfiernu. Gesù Cristu Signuru nosciu s’haie scurdatu de nui et ne castica pe’ li piccati nosci.

Sacciu ce dicu percè quisti erane i pinzieri de li cristiani de Leuternia quannu ne ‘ccappau stu rafianellu, e cusì pinzau puru lu conte, patrunu de la terra, prutettore de la gente noscia, comu li piacia cu se ‘ntitula, ca facia l’intressi de tuttu lu feudu.

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Sembra iniziare così l’incompleto e frammentario manoscritto della seconda metà del XVIII secolo che inaspettatamente trovai in un inutile scartafaccio – come i tanti che avevo già scartabellato alla ricerca di documenti sull’opera di Vincenzo Balsamo, un agronomo e carbonaro salentino vissuto nell’Ottocento – nel solaio di una casa signorile durante le ricerche per la compilazione della mia tesi di laurea.

I fogli manoscritti, smembrati e maltrattati, erano stati utilizzati come contenitori di documenti vari e consegnati all’oblio, all’usura del tempo e all’appetito di inconsapevoli roditori.

Pagine poi rimaste silenti tra le mie carte per emergere dopo molti anni, in occasione di un lavoro di pulizia dell’archivio. Rileggendole con attenzione – e non con la semplice curiosità della prima distratta occhiata – mi resi conto che non si trattava di un banale racconto dialettale, bensì della cronaca di una tragica vicenda collettiva.

Ne rintracciai anche il titolo e proprio da lì, da quel

Leuternia

Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

ben calligrafato in caratteri gotici, che non lasciava molti dubbi circa l’ambientazione, l’impianto e la struttura della storia narrata, prese corpo l’idea di tradurre le carte manoscritte, di riscrivere l’intera cronaca e di proporla all’attenzione degli odierni abitanti di Leuternia, perché è a loro, in definitiva, che parla, al loro spirito e alla loro intelligenza.

Ma non solo ad essi.

 Mi colpì il titolo e il fatto che il testo fosse scritto in dialetto salentino e non nel volgare italico in genere utilizzato per la stesura di opere di un certo impegno letterario, o in greco come si usava in Salento ancora in quei tempi.

Conoscevo la relazione tra il mito della Gigantomachia e la costa Leuterna, rocciosa e impervia, che va dal capo di Leuca (capo Japigio) a Otranto (Hydrunte), che nelle sue grotte aveva trovato l’epilogo con la morte dei Giganti sconfitti da Heracle e sprofondati nelle viscere della terra. La si rintraccia nelle poche frasi dettate dal sommo Aristotele, successivamente riprese da Plinio e dal geografo Strabone nel suo imponente lavoro Γεωγραφικά (Geōgraphiká), che qui riporto per intero:

Quest’anchora è una piccola terra, nella quale si trova una fontana d’acqua puzzolente, di che si racconta questa favola: Che cacciando HAlcide i Giganti, ch’erano rimasi in Flegra di Campania, chiamati Leuternij, mentre fuggivano, quivi furono coperti, del cui sangue fracido la fontana scaturisce quell’acqua. Et per questo chiamano Leuternia quella marina.       (Traduzione di M. Alfonso Bonaccioli, Venezia, 1562)

 M’interrogò a lungo anche un’altra circostanza. Il manoscritto è databile intorno alla fine del XVIII secolo, mentre i fatti narrati risalgono alla seconda metà del XIV: la riscrittura di un fatto tramandato dalla memoria orale, o da altre carte poi andate distrutte o ancora sepolte in qualche archivio, si direbbe; un frammento di storia locale sopravvissuto al tempo. Ma in questo caso, il Cesario Polifemo estensore della “Cronica” si sarebbe dichiarato per il trascrittore che era, non per il figlio del protagonista della vicenda narrata[1].

O forse l’autore settecentesco, ricorrendo a tale “artifizio”, ha cercato semplicemente di sviare da sé le attenzioni dei suoi contemporanei rifugiandosi nel tempo storico mentre narrava del suo tempo?  Il manoscritto del Settecento potrebbe anche rivelarsi la semplice copia di un testo più antico trascritto fedelmente da un anonimo amanuense. Può essere, ma non possiamo saperlo con certezza… e, in fin dei conti, è questione secondaria che non svilisce il valore della vicenda narrata.

In un tempo in cui c’è bisogno del coraggio della testimonianza, la storia di Damiano Polifemo è emblematica e moderna, si rivolge a tutti e tutti sollecita a non voltarsi dall’altra parte mentre gli Dei e i Giganti moderni e contemporanei cooperano per erodere le libertà e i diritti di tutti, a diluirli in un mare di rassegnazione e d’indifferenza.

Il manoscritto, incompleto e lacunoso, ha richiesto numerosi ed estesi interventi integrativi per rendere la narrazione leggibile e organica.

Delle integrazioni e degli adattamenti linguistici necessari a stemperare nella traduzione le asperità e le espressioni idiomatiche del dialetto sono l’unico responsabile; della significatività della vicenda narrata, la cui responsabilità va attribuita all’autore della “Cronica”, giudicherà il lettore, spero con la magnanimità dovuta a chi, forse, per quegli avvenimenti ha sofferto e ha lottato.

 Sul nome dell’autore (e del protagonista) forse val la pena di ricordare una curiosa coincidenza, molto indiretta, labile e forse casuale, rintracciata nella memoria scritta dal Sindaco di Ortelle nel 1910 in occasione della controversia tra codesto Comune e quello di Minervino, allora approssimativamente confinanti proprio in prossimità della grotta “Fetida”[2].

L’estensore della memoria, il signor Edoardo Reho, in quel posto di confine insistente sulla grotta testimonia l’esistenza di un gruppo di “povere casette [proprietà] dei contadini Polifemo, stirpe di bagnini: di contro alla chiesetta”; dove l’espressione “stirpe di bagnini”, con palese riferimento agli inservienti delle terme, fa presumere una lunga consuetudine tra la stirpe dei Polifemo e le acque termali delle grotte Leuterne. Acque che costituiscono la ricchezza del luogo e il motivo reale della contesa narrata nella Gigantomachia, qualunque sia il tempo infelice al quale l’autore voleva riferirsi.

In ogni caso: che si tratti di vicende realmente accadute, raccontate per esorcizzarle e sollecitare una riflessione dei cittadini di Leuternia (e non solo) schiacciati da un potere oppressivo; oppure della versione laica e democratica – la terza, dopo la primigenia della Gigantomachia mitologica e quella posteriore della vergine cristiana Cisaria insidiata dal padre pagano – di una fabula legata alla “fonte di acqua puzzolente”, è cosa in sé secondaria.

Ciò che mi preme è l’indulgenza dei miei “venticinque lettori”, che spero di non annoiare, se il mio impegno non dovesse incontrarne il favore.

In ogni caso, auguro buona lettura a tutti, magari durante una lieta vacanza a Leuternia per godere delle sue benefiche acque sulfuree e degli splendidi scenari marini e silvestri di cui la costa è ricca, profumata di essenze e oramai esente dagli effluvi “puzzolenti” delle origini.

Antonio ELIA

 

 

 

 

 

 



[1]   La fine del XIV secolo…

C’è un richiamo interessante nella datazione del manoscritto. Nello stesso torno di tempo nel sentire popolare si era radicata la seconda leggenda sull’origine delle acque solfuree di Leuternia: quello della vergine cristiana Cisaria.

Del mito dei giganti Leuterni, la vicenda di Cisaria mantiene sia l’impianto narrativo sia l’ambientazione, cambiano i protagonisti e l’atteggiamento verso la fonte solfurea. Su di essa non mi dilungo e rimando chi ha interesse ad approfondirla alle numerose pubblicazioni disponibili che di seguito elenco:

  Nicola G. De Donno , Santa Cesarea Terme. Dal mito dei Giganti all'appalto delle sorgenti (Congedo, Galatina,1988);

  https://www.salogentis.it/2009/02/05/la-leggenda-di-santa-cesarea/; 

  https://culturasalentina.wordpress.com/2011/11/11/santa-cesarea-nostra-signora-un-po%E2%80%99-chic (e la bibliografia ivi riportata);

  https://www.comune.santacesareaterme.le.it/scesarea/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/20003;

  https://www.termesantacesarea.it/home-v1-2-2/la-storia/.

[2] Edoardo Reho, A quale Comune appartengono i bagni di S. Cesaria? (Tipografia editrice salentina, Lecce 1910).

 

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