09 giugno 2021 Ultimo episodio
Affido la conclusione di questa cavalcata in dieci episodi alla fidanzata di Adelfo e alle sue amare riflessioni sulle vicende che hanno consegnato alla speculazione il quartiere in cui è nata e cresciuta.
Il prossimo appuntamento, prevedo in autunno, sarà con la versione integrale.
La fidanzata
Lo avevamo temuto, era l’assillo che ognuno di noi si portava dentro, inespresso come un pensiero che non si riesce a formulare perché mancano le parole per rappresentarlo, non se ne ha l’animo. Un pensiero assillante, informe e chiaro come un sogno notturno dimenticato al risveglio, del quale si avverte acuta la sensazione di disagio, una sorta di inadeguatezza di cui non si sanno individuare le cause, incombente come il convitato di pietra.
Lo avevamo temuto: il quartiere ci avrebbe avvelenati a poco a poco.
Era il quartiere il convitato di pietra, ineffabilmente presente nelle nostre vite, testimone silenzioso delle nostre infanzie spensierate quando la vita era ancora un gioco e una scoperta e i giochi cementavano i sentimenti, le amicizie senza tempo, i destini comuni. Il tempo lo ha trasformato: era un testimone muto e amorevole, una presenza benevola e confortante, mentre nel tempo del nostro affacciarci alla vita adulta ha smesso di confortarci, ci giudicava, ci giudica, pronto ad alimentare la nostra angoscia per ciò che d’incompiuto c’era, c’è nelle nostre vite, quando le vite ci è dato di conservarle, di non perderle per strada come è successo ad Adelfo e a Luca e ai tanti altri smarriti sulle strade del loro destino.
Non è colpa sua, del quartiere, se il cambiamento s’è realizzato, la colpa è del tempo, di questo tempo impietoso che stravolge vite e coscienze, di questa modernità barbara che ci rende precari, comparse di una rappresentazione instabile in cui s’improvvisa e si recita a soggetto. Le nostre vite appese sul filo del caso. Con Adelfo e con Luca il caso non è stato benevolo, si sono persi in vicende più grandi loro e ne hanno scontato le conseguenze.
Qual è la colpa di Adelfo sanzionata col prezzo della vita? E la colpa di Luca? E la mia? E quella di Adele?
Adelfo ha pagato per la sua ingenuità. La pena se l’è scritta ed eseguita da sé, l’ha anticipata rispetto al processo ed è stata più dura di quanto previsto dalla legge per il suo reato… se lo avesse commesso. Ma non lo ha commesso. Non importa che non sia verità processuale; non è stato deciso neanche il contrario, assorbito nella pena totale che s’è inflitto da sé. Se nei suoi confronti il processo avesse avuto corso, Adelfo sarebbe stato condannato perché le circostanze lo accusavano, nonostante le rivelazioni di Luca.
È poi veramente il caso ad aver determinato gli esiti fatali che piangiamo? O la volontà perversa e criminale di soggetti privi di scrupoli che nell’ombra hanno inscenato un teatro di marionette?
Domanda retorica, rimasta senza riscontri ufficiali e quindi inutile in buona sostanza, buona solo per far lievitare la rabbia di chi quelle morti vuol piangere e avrebbe voluto onorarle nella verità.
Adelfo, alla luce dell’assoluzione per insufficienza di prove degli altri implicati nell’affare, sarebbe stato condannato come artefice materiale del ferimento di Hassan in concorso con ignoti. Nel processo il suo ruolo è stato evocato come organizzatore ed esecutore, il fantasma che sulla scena del delitto si materializza dal niente, in un crescendo drammatico spara, si eclissa e ne determina l’esito irreparabile.
La morte di Adelfo ha lasciato una scia di dolore inconsolato, ha isolato dal mondo la sua intera famiglia, chiusa in una disperazione cruda, senza scampo.
Consapevole ed espiatoria quella dei genitori, assorbiti da rituali evocatori per mantenere vivo un ricordo. Non è la vita infelice di Adelfo che ricordano, la fine prematura e cruenta di una giovane vita irrisolta; è la responsabilità di quella vita inutilmente sprecata che si attribuiscono senza riserve ad essere vivificata nel ricordo. Si sono riconosciuti colpevoli di inadeguatezza: genitori inadeguati, educatori inconsapevoli e disattenti, assorbiti dalla materialità di un’esistenza complicata alla quale sfuggivano le attese della vita in formazione di un figlio affidato alle cure inesperte della sorella. Era soprattutto il padre a sentire come una colpa il peso della carenza, a volerla espiare giorno dopo giorno confinato in esilio volontario ai margini del mondo. Il suo dolore si introfletteva nella commiserazione di sé (un’elaborazione del lutto, in fondo), si sovrapponeva al dolore della morte e lo declassava. La madre aveva assecondato il marito e ne condivideva la colpa, ma il suo dolore non era solo rimorso, andava oltre, era l’ingiustizia dell’assenza, lo strappo della separazione, come se quel figlio glielo avessero estratto dalle viscere con uno strappo violento. Per lei non c’era possibilità di elaborare il lutto nell’espiazione, e neanche nell’inesorabile scorrere del tempo; il dolore si rinnovava ogni giorno e la consumava alimentandosi del suo corpo, accompagnandola, consenziente, verso la fine di quell’insopportabile strazio.
Oramai inconsapevole la disperazione di Adele, ingabbiata nel gorgo della follia a malapena governato dalle immeritate cure del marito, invecchiato anzitempo e deluso per quanto gli era toccato vedere e sopportare.
Orlando ha sofferto molto, non solo per la morte di Adelfo, a causa di Adele che lo ha gravato di pesi e di colpe che non ha commesso. I maneggi di Adele lo hanno ferito nel profondo dell’animo, in ciò che gli era più caro e pregiato. Aveva costruito sull’onestà la sua identità di uomo probo e fu sospettato di corruzione e ingiustamente condannato per diffamazione; aveva creduto nell’amore e fu tradito per motivi venali dalla destinataria della sua passione amorosa; tuttavia nel momento del bisogno non l’ha abbandonata. Quale forza interiore lo abbia deciso ad assumersi incombenze sì gravose non mi è dato sapere, mi vien solo da dire che è un uomo ammirevole che nella tragedia ha confermato la sua dignità di uomo senza cesure. Lo testimonio perché l’ho conosciuto, ho parlato molto a lungo con lui nel periodo successivo alla morte di Luca, quando gli spiragli aperti dalle sue rivelazioni inaspettate avevano sollecitato speranze di una soluzione positiva dell’intera vicenda.
La morte di Luca è rimasta impunita. Invano mi sono battuta per dare un volto e un nome ai suoi carnefici; le mie parole, che poi erano le parole di Luca, non sono state sufficienti perché non bastano le parole e i timori per convincere i giudici, hanno prodotto solo l’apertura di un procedimento contro ignoti e l’avvio di inutili indagini carenti di riscontri. Per Luca non c’è stato alcun processo, la sua morte è stata rubricata come un semplice incidente stradale causato dalla concomitanza di numerose circostanze avverse. Tra le cause della morte è stato supposta anche l’ipotesi del suicidio provocato dalle sostanze stupefacenti e dall’elevato tasso alcolico rintracciati dall’autopsia.
Suicidio per quali motivi? ho chiesto al giudice inquirente.
Mi fu risposto: A causa del rimorso per il tradimento dell’amico suicidatosi in carcere.
Replicai: L’ipotesi è paradossale. Se la questione del tradimento può avere un valore probatorio dovrebbero averlo anche tutte le altre informazioni che ho raccolto da Luca.
Infatti, non ne ha alcuno. Era solo un’ipotesi non confermata dai fatti.
Solo ipotesi. Restano solo ipotesi. Circostanze alle quali gli inquirenti hanno dato credito, intorno alle quali hanno costruito uno scenario plausibile e hanno svolto una lunga e complessa attività d’indagine che non ha portato alcun risultato. Non si è aperta alcuna breccia in cui inserire il grimaldello della verità, lo scudo dell’omertà ha resistito alle pressioni e la lancia che lo accompagna ha colpito con decisione per cancellarne le tracce.
Di due morti che mi hanno costretta a guardare in faccia una realtà disperata restano solo inutili ipotesi e nessuna certezza sulla quale coltivare la speranza.
Quanto a me non mi faccio illusioni. Il quartiere in cui io, Luca e Adelfo siamo cresciuti non c’è più, ma è una crisi che viene da lontano, da quando il lavoro ha perso la centralità che si era conquistata con le lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, il secolo della modernità solida, spodestata dalla liquidità del moderno contemporaneo privo di identità. La mia generazione è cresciuta all’interno di questo contesto indefinito, era scritto che ne restasse schiacciata, priva di riferimenti e di bandiere, abbandonata a se stessa, come le periferie, come il nostro quartiere.
Con l’associazione Ostinate Presenze abbiamo cercato di contrastare il degrado, qualche risultato l’abbiamo ottenuto, palliativi rispetto alla gravità della malattia, era come cercare di svuotare il mare con un secchiello da spiaggia, come combattere a mani nude contro un esercito armato di tutto punto.
Dopo la nota vicenda della palazzina la situazione è peggiorata in modo irreversibile, in pochi anni si è modificata la geografia sociale, quel poco di comunità che resisteva per abitudine e per nostalgia o solo perché non aveva altra scelta è stata costretta a emigrare lasciando dietro sé il deserto: outlet, ipermercati e isole residenziali per piccolo borghesi in fuga dal centro cittadino congestionato e anonimo.
Io sono rimasta. Mi sono domandata più volte il perché, non mi son data risposte convincenti. Forse ha prevalso la forza dell’abitudine o forse la nostalgia. Sento forte un ancoraggio ai ricordi dell’infanzia quando mio padre mi teneva per mano e mi portava con sé nei cortei, ai comizi, nella sezione del partito a piegare volantini, a respirare quell’aria d’impegno sociale che m’è rimasta incollata alla pelle; e poi le feste de L’Unità, la casa del popolo, le osterie e le balere. È questo che mi lega e m’impedisce di andar via? O forse è la volontà di non darla vinta a chi ha tramato per distruggere anche le ultime vestigia del tempo eroico dei miei ricordi di bambina? Magra consolazione questo isolato desiderio di testimonianza che testimonia soltanto se stesso, perché non importa a nessuno che ci sia stato quel tempo se tutto congiura per cancellarne anche la memoria, non solo le conquiste.
Forse sono rimasta per lealtà nei confronti di Adelfo e di Luca, nonostante loro lo odiassero questo quartiere, vittime sacrificali di un potere tremendo che per conquistarlo e soffocarne l’anima in agonia ha dovuto sbarazzarsi delle loro vite, diventate loro malgrado ingombranti. Però non ne sono sicura.
31 maggio 2021 Nono episodio
Il responsabile di SOS-Rifugiati ricorda l’epilogo della vicenda della palazzina liberty e il destino dei giovani rifugiati.
Il responsabile di SOS-Rifugiati
Ha vinto la paura, ha perso la ragione; ha vinto il rancore contro l’accoglienza, la violenza ha offeso la mitezza, l’affarismo ha sconfitto l’umanità.
Sostenere che sia stata una partita truccata, giocata oltre i limiti del regolamento è evidente solo che si guardi la realtà senza le lenti sfocate del pregiudizio. Per non parlare dell’arbitro, spudoratamente prono agli interessi di parte.
Partiamo dalla conclusione. Gli offesi, colpiti da un’azione proditoria sono stati puniti con la diaspora; i mandanti della violenza sono stati premiati con l’acquisto della palazzina e l’approvazione del progetto di centro direzionale. Le belle parole del Sindaco pronunciate nel giorno dell’attentato sono state rinnegate; il sospetto è che lo siano state per un volgare e illecito interesse privato. Lo ha scritto, nero su bianco, il giudice che lo ha rinviato a giudizio per corruzione in concorso con l’Assessore al patrimonio e un paio di funzionari comunali.
La vicenda è nota ed è nota anche la sentenza che ha assolto tutti gli imputati, tra i quali il presunto corruttore ingegner Edoardo Casella, perché non avrebbero commesso il fatto.
A essere condannati sono stati i venti rifugiati ospitati nella palazzina dello scandalo. Una deportazione che ha avuto ragione dello spirito di accoglienza, che ha schierato la città contro il diritto dei rifugiati a un trattamento umanitario, che ha contraddetto l’impegno solenne del Sindaco assunto di fronte ai cittadini che condannavano il vile attentato alla palazzina.
Dove sarebbero stati ricollocati i rifugiati non ci fu comunicato: destinazione segreta. La segretezza ci sembrò fuori luogo. Che pericolo c’era? Da quali minacce li si voleva proteggere?
Qualche informazione ci giunse, qualche contatto lo mantenemmo, si riuscì a ricostruire il quadro della diaspora e a raccoglierne le sofferenze prima di perderne le tracce, come accade spesso in questi casi.
Molti, i più giovani e quelli che avevano parenti in altri Stati, soprattutto del Nord Europa, hanno tentato di attraversare le frontiere che ancora li separavano dalla meta. Ma le frontiere nell’Unione Europea, nonostante l’assenza di guardie armate e di muri o di fili spinati, non sono facili da attraversare per chi porta segnata nel corpo la sua condizione. Per chi ci riesce la probabilità di essere rispedito sui suoi stanchi passi è elevata, ma questo non lo scoraggia perché non c’è ostacolo al mondo che possa fermare la marcia di chi ha niente da perdere e una vita da ricostruire lontano dalla disperazione che lo ha fatto partire lungo i percorsi incerti del deserto e del mare infestati di predoni e pirati. Soltanto la morte può fermarli. Ma la morte è un fatto individuale, colpisce chi colpisce mentre gli altri continuano il loro cammino. Ogni morto fermato sulla strada del proprio riscatto non è monito e freno alla corsa degli altri, non ferma le partenze, non scema la determinazione delle colonne marcianti perché l’impulso alla vita non teme la morte, l’affronta.
Alcuni, non avendo ottenuto l’agognato permesso di soggiorno, sono stati rimpatriati o forse si sono immersi nelle acque pericolose della clandestinità, sono diventati invisibili: soldati irregolari di un nuovo esercito di riserva in cui pescano a piene mani imprenditori senza scrupoli alla ricerca di manodopera a basso costo e alta produttività, caporali che ne taglieggiano i già miserevoli salari, organizzazioni malavitose per farne carne da macello da immolare sul fronte dello spaccio di droga, del controllo della prostituzione, dei vari racket in cui si esercita la galassia del crimine.
Gli altri hanno cercato di integrarsi o almeno di sopravvivere nei luoghi in cui li ha portati la speranza, hanno accumulato frustrazioni e rancori verso il nostro mondo poco o per nulla accogliente. I più fortunati sono riusciti a trovare un lavoro stabile, ma solo uno su mille ce la fa, come recita una vecchia canzone, ma quanto è dura la salita, in gioco c’è la vita. Ecco, la vita, la speranza di una vita dignitosa per la quale hanno rischiato di morire tante volte, con la quale ha giocato chi ha organizzato l’attentato alla palazzina e chi li ha cacciati proditoriamente con una menzogna.
Ciò che resta di loro è qualche foto che col tempo sbiadisce, qualche storia raccolta da chi ha avuto la forza di raccontarsi, qualche ricordo e, immancabile, il senso di sconforto e di sconfitta per non essere stati all’altezza dell’impegno.
Un ricordo familiare è riemerso ripensando quei fatti: situazioni diversi, esiti diversi, gli stessi ricordi: una fotografia in bianco e nero di fronte a casa mia, i mesi successivi alla fine della seconda guerra mondiale. Vi è ritratta una giovane donna bionda con un bambino di due, tre anni in braccio; il bambino è mio fratello maggiore, la giovane donna un’ebrea slava scampata ai campi di concentramento nazisti. Era stata accolta nel mio paese d’origine, in Salento, insieme a molti altri ebrei nei centri di raccolta gestiti dalle Nazioni Unite ed era in attesa di fare il grande balzo verso la loro terra promessa. Una fotografia che custodisce la memoria e mi fa ricordare, a me che non c’ero, che quel periodo non l’ho vissuto e quella donna non l’ho conosciuta, come fosse una pagina della mia storia personale, che quanto è successo a lei, così vicina a mio fratello, ai miei genitori, nel mio paese che l’ha accolta, è accaduto davvero e non può più essere rimosso. E resta anche come un monito scolpito nella pietra per quanti quella povera donna l’hanno offesa e accusata prima del campo di concentramento e anche dopo. Altrettanto accadrà alle fotografie che testimoniano la presenza degli ospiti della palazzina, ricordo e monito della loro odissea, altrettante pagine di storia per figli e nipoti dei prossimi decenni.
Ciò che resta è anche la palazzina della discordia. Dopo la profonda ristrutturazione è diventata il portale d’ingresso del centro direzionale costruito dal noto immobiliarista. La realizzazione del progetto, al momento attuato solo parzialmente, ha modificato la struttura del quartiere, ne ha ristrutturato alcune aree, altre lo saranno nel prossimo futuro. A beneficiare del cambiamento non sono e non saranno i vecchi residenti, quelli che con le loro proteste contro gli immigrati hanno fatto il gioco dell’immobiliarista e favorito i suoi affari poco chiari in combutta con il mondo di mezzo che ha scatenato la violenza cieca del mondo di sotto e addomesticato la politica piegandola ai propri interessi. Nel quartiere sta cambiando, e ancor più cambierà nel prossimo futuro, la composizione sociale. I vecchi residenti, come i giovani rifugiati, sono stati dispersi in quartieri ancora più periferici e più disagiati di quello di provenienza. Qualcuno a posteriori se n’è rammaricato, molti non ci hanno fatto caso, continuano a vivere un’esistenza inconsapevole, scaricano le difficoltà di organizzare la loro vita raggirata sul bersaglio sbagliato, su nemici immaginari additati dai consapevoli e interessati mestatori di turno.
Noi di SOS-Rifugiati continuiamo il nostro lavoro di assistenza e integrazione a favore di rifugiati e migranti. Lo facciamo con le poche forze che abbiamo, motivati da un immutato sentimento di giustizia. Sappiamo che è insufficiente, una goccia nel mare del bisogno, ma sappiamo altrettanto bene che c’è bisogno di testimonianza, di esempi che smuovano l’apatia dei cuori intorpiditi dalla paura e dal rancore; c’è bisogno di mantenere accesa la fiaccola della giustizia sociale e dei diritti universali conculcati per dare anche a queste povere vite, indifese e vilipese, l’opportunità di raggiungere la loro terra promessa, trasportati in sicurezza da moderne Exodus e non da incerti gommoni alla deriva.
18 maggio 2021 Ottavo episodio
Adelfo è incriminato per il ferimento di Hassan e tradotto in carcere.
Adelfo
Le mani che coprivano il viso, un inane e ambiguo baluardo per oscurare visioni osannanti che non mi spettavano, rifiutate perché immeritate, aborrite per l’implicita inconsapevole accusa pronunciata contro di me, le sciolsi lasciandole andare sul grembo quando l’auto partì e delle futili ali di folla non ci fu più la traccia; col medesimo gesto riattivai il sottofondo sonoro escluso dalla forte pressione dei pollici sui condotti uditivi. Il panorama che scorreva sullo schermo dell’auto lanciata a velocità sostenuta ritornò ad essere quello consueto: i palazzi e i viali, gli alberi e le auto e i rari passanti appiedati si rincorrevano agili ai fianchi dell’auto, mi sembrava il percorso tante volte guidato alla consolle di una playstation… mi sembrava, ma era il percorso di un triste accidente le cui implicazioni si riversavano in rapida convergenza sulla mia vita.
Il mattino prometteva bel tempo, il cielo intravisto agli incroci dei viali era azzurro, in un’altra occasione mi avrebbe donato allegria e buonumore, come il verde degli alberi e i colori vivaci dei fiori sui balconi delle case, quella gioia di vivere che, costretto sul sedile posteriore di una “pantera” della polizia tra due agenti seri e impettiti, non potevo afferrare, era esclusa dalla mia condizione mentale. Il mio umore stazionava rassegnato su modulazioni disperanti. Un disagio crescente, accentuato dall’impassibilità degli agenti che mi avevano escluso dal loro orizzonte quasi fossi un oggetto ingombrante a cui non vale la pena di dedicare neanche uno sguardo o una sola parola, mi serrava il petto, m’impediva di rivolgere loro lo sguardo e la voce, anche solo per chiedere dove andavamo, per stabilire un contatto che non fosse il toccarsi dei corpi sballottati dai movimenti dell’auto. Isolato nell’auto con l’angoscia che mi attanagliava, isolato dal mondo assolato e gioioso, incurante della mia condizione, immaginavo i futuri scenari di questa incredibile storia che mi sovrastava. Fluttuavo tra due sensazioni diverse, un’altalena oscillante tra il bene ed il male, libertà e reclusione, coscienza dell’innocenza e timore di non riuscire a provarla.
Dov’eri la sera del tentato omicidio tra le 21,00 e le 23,00?
Signor giudice, quella sera ero sconvolto, ho girato in auto senza meta cercando il mio amore perduto.
L’altalena inclinava al timore, il cervello esplodeva in un grido furioso d’innocenza. Un grido impotente, cupo come il rintocco di una campana: dooonn… dooonn… dooonn…, grave e lento, incessante, presagio di eventi funesti.
M’imponevo di non pensarci, non volevo pensarci, ma quell’impotente grido d’innocenza, consapevole della sua stessa fragilità, continuava a martellarmi le tempie erodendo i baluardi della mia consapevolezza, la speranza di poter tornare a casa dopo l’interrogatorio.
Colpevole di tentato omicidio.
Signor giudice sono innocente, pur non essendo uno stinco di santo. Non sono uno stinco di santo, ho avuto, come tutti, pensieri di cui vergognarmi, comportamenti discutibili e anche deplorevoli; ho peccato in pensieri parole opere e omissioni, sono stato un peccatore seriale. Sa che le dico, non sono neanche pentito di quello che ho fatto o che ho detto, qualche volta me ne vergogno. Sono stato vile e arrogante, bugiardo come tutti, e oggi me ne vergogno. So di essere un uomo mediocre, è la mia vita, ma non ho commesso il reato di cui vuole incolparmi, né altri reati. Sono innocente.
La volante con uno scossone attraversò il passo carraio della questura, il portone si chiuse oscurando i pensieri. Si fermò. Fui portato in una cella di sicurezza in attesa dell’interrogatorio di garanzia.
Quella sera non eri da solo…
Signor giudice, non ho incontrato nessuno. Neanche il mio amore perduto ha voluto vedermi. E i miei amici non li avrei sopportati.
Adele avrebbe voluto aiutarmi, si era offerta di testimoniare che ero stato con lei quella sera, che ero in crisi profonda per la storia finita con Giulia. Ne parlammo il giorno successivo al fattaccio, quando sembrò inevitabile, lo sapevamo ambedue, che sarei stato coinvolto. E non avevo uno straccio di alibi. Rifiutai. Non volevo coinvolgerla in quella faccenda perché le prevedibili accuse a suo carico di falsa testimonianza e di complicità avrebbero aggravato la mia posizione e azzoppato il sicuro sostegno che mi avrebbe sorretto nel corso del procedimento.
Chi erano i tuoi guardaspalle?
In città i condomini della periferia, in collina il bosco ed il buio che faceva paura.
Devo essere leale e collaborativo. Gli racconterò che col Grifo e altri amici del CAR avevamo discusso se attuare la minaccia rivolta ad Hassan, che l’idea ci era parsa balzana per l’evidente ragione che l’aggressione avrebbe avuto una firma e un mandante impacchettato a priori. Io avevo paura, ho paura della violenza, mi ritraggo, sto in disparte ed incasso i sarcasmi degli amici del bar. Lo può chiedere al Grifo o anche agli altri, le diranno che a confronto del loro coraggio, dei muscoli agili e potenti che coltivano nelle palestre, io sono un fuscello che anche Hassan avrebbe spazzato via senza sforzo.
Chi ha sparato ad Hassan?
Non ho percepito rumori, solo il rombo dell’auto e il respiro del bosco che faceva tremare le foglie.
Dovrei dirgli di chiederlo al palazzinaro, è lui che mi ha messo in questo pasticcio. Che gli chieda dell’attentato alla palazzina. Lui può saperne qualcosa. Non lo accuso, non dico che lui sia il mandante; può essere informato dei fatti, come dicono i conduttori dei telegiornali. Io in quelle ore pensavo al mio amore perduto, mi son perso sulle strade della stessa collina dove lei mi ha abbandonato in un bar. Gli chieda il perché, signor giudice, glielo chieda e vedrà che ne avrà la conferma. Posso dirle che da quel giorno non sono più io e se la sera di cui vuol sapere son rimasto da solo è perché Giulia non ha voluto parlarmi, il telefono è rimasto in silenzio.
Sul palazzinaro forse è meglio tacere.
Il giudice non mi ha creduto. Gli ho raccontato di Giulia e del bosco, del Grifo e delle mie paure, eppure non mi ha creduto, mi ha spedito a trascorrere i miei giorni in una cella d’isolamento, su una branda sfondata dove anche il riposo è faticoso, ti schianta la schiena e t’intorpidisce non solo le membra, soprattutto il pensare che vaga monotono e lento su un unico tema: questa mia condizione infelice prigioniera di un’apparenza. Il flusso roteante delle immagini vere, che non sono apparenza come il giudice crede, non si arresta neanche se abbandono la branda sfondata, se percorro i tre metri per tre della cella sul sentiero obbligato tra porta e finestra, se mi fermo a osservare il riquadro di cielo a quadretti che sembra irreale a guardarlo da lì. Non si arresta neanche se mi accosto al tavolino sciancato e mi siedo con la faticosa intenzione di scrivere una lettera. Vorrei scrivere a mia madre, a Giulia, ad Adele (le donne della mia vita) per dire loro quanto mi pesa il dolore seminato a man salva, eppure che del dolore più grande, l’ignominia che mi prostra su questo tavolino sciancato, non ho colpa alcuna. Però non ci riesco. Non ho mai scritto una lettera, non so come iniziare, dopo le prime parole mi perdo in banalità che non dicono niente, che mortificano il mio sentimento e farebbero irritare chi legge.
Leggi, Adelfo.
L’insegnante di lettere delle scuole superiori me lo ripeteva a ogni quattro rifilato nei compiti in classe. In effetti aveva ragione, non ricordo di aver letto un libro che non fossero quelli di testo. Dovevo leggerne almeno uno al mese, lo prevedeva il contratto didattico: formalmente lo rispettavo, al posto del libro leggevo il riassunto sui siti, a far copia e incolla ero bravo, la sfangavo così, e se in rete non trovavo l’aiuto cercato c’era Adele che leggeva per me.
Questa è l’ultima volta, diceva.
Scriverei anche al giudice se ne fossi capace.
Signor giudice, sono innocente.
Così non va bene. L’ho ripetuto a ogni interrogatorio, come un mantra. Ci vorrebbero prove…
Ho bisogno di prove, ripeteva il mantra del magistrato.
O almeno espressioni efficaci, per convincerlo che il mio dire è sincero, che il tuo insegnamento, mamma, non l’ho dimenticato.
Le bugie hanno le gambe corte.
Non tanto per la lunghezza delle gambe, che comunque non ci puoi andare lontano, perché sono fragili e instabili, possono crollare a ogni soffio di vento esponendoti nudo e indifeso alla verità e ai suoi rigori.
Me lo ricordavi tutte le volte che m’inventavo una storia per coprire le piccole marachelle infantili e io mi vergognavo,
Scusa, mamma, non lo farò mai più.
ti abbracciavo, nascondevo la testa nel tuo grembo per non vedere il tuo sguardo severo. Quando poi ti guardavo il tuo sguardo non era severo, sorridevi e mi arruffavi i capelli: era il segnale del perdono che mi consegnava purificato ai miei giochi, confermato nel proposito della sincerità. Che da piccolo ho ancora tradito, ma da adulto non più. Non ti ho mai mentito, madre; non ho più ascoltato la frase ammonitrice e non mi sono rifugiato sul tuo grembo dopo averti chiesto scusa, né tu mi hai arruffato i capelli stringendomi a te. Avrei dovuto farlo, inginocchiandomi, per chiederti perdono per la mia sventatezza, quando tu ripetevi sconsolata, solo quando non c’era papà,
Non sei più un ragazzino…
e ti fermavi lì, sospendendo il rimprovero. Non c’era bisogno di aggiungere altro per farmi comprendere il tuo dolore di fronte ai miei giorni sprecati. Ti sono grato per la sospensione, di più forse non avrei sopportato, perché avevo anche buone ragioni per sprecare il mio tempo.
Sono figlio di un tempo terribile, madre, che non lascia scampo, non mi concede neanche la possibilità di provare, mi esclude e mi annienta, non vuole saperne di me perché di corpi da spremere, strizzare e scaricare ai margini della vita ne dispone in quantità illimitata.
Cercati un lavoro.
Quale lavoro, padre, se il lavoro non c’è. Se anche tu che lo avevi, garantito e protetto, lo hai perso e ora vaghi smarrito senza avere una meta, hai perso le certezze di un tempo e la forza che ti dava l’esser parte di una storia vissuta con orgoglio.
Ora uguali, padre, lo stesso destino. Insieme, a questo bivio dell’esistenza che non cammineremo insieme perché tu hai la tua storia e io non ho niente, tu sei stato e io non sono mai stato; potremmo camminare insieme ma non lo faremo perché non so come si cammina insieme, non l’ho mai imparato e tu continui a guardarmi con commiserazione.
Cercati un lavoro.
Se tu mi chiamassi, padre, se tu mi dicessi: camminiamo insieme, figliolo, e mi mettessi la mano sulla spalla, io sarei contento, come ero contento in quella foto che mamma tiene sul comodino, in cui mi tenevi la mano sulla spalla. Avevo sedici anni.
In quegli anni: Studia.
Il lavoro era ancora una promessa che il tempo avrebbe onorato scambiando studio con lavoro ben remunerato. Un lavoro pulito, niente mani spesse di fatica, sporche e stanche; tu orgoglioso di me. Sarei contento, padre, anche se niente lavoro, se il tempo non ha mantenuto la promessa. Mi basterebbe sentire il peso del tuo braccio sulla mia spalla e ti accompagnerei, orgoglioso anch’io, sulla strada del nostro comune riscatto.
Il peso che ora mi opprime, padre, non è quello lieve del tuo braccio, è il groviglio d’incertezza che mi ha rinchiuso in questa cella di sofferenza, il sospetto che mi marchia indelebilmente, che dubita della mia parola.
Le bugie hanno le gambe corte.
Lo pensa anche il giudice, mi spinge su percorsi impervi e scoscesi dove spera di vedermi inciampare e cadere: smascherato sulla strada della menzogna. Mi guardi negli occhi, signor giudice, si convincerà che non mento, perché la lingua può nascondere la verità ma gli occhi mai.
Non ho detto bugie, madre, ho raccontato il calvario della mia solitudine notturna alla ricerca di Giulia sulle colline dell’abbandono.
Adelfo è finita, fattene una ragione.
Non ero riuscito a trovare alcuna ragione convincente. Io volevo Giulia e lei non mi voleva più, il perché mi stordiva, perché nessuna ragione. Io volevo cambiare, le avrei raccontato tutto, del palazzinaro e del resto e del passo che avevo fatto, da solo, con la decisione di lasciar perdere lo spacciatore che aveva litigato con mio padre.
Non ti ho trovata, Giulia, però ho dato un senso ai fantasmi che si agitavano nel bicchiere dell’oblio, cani randagi e un corpo straziato. Quel corpo era il mio, dilaniato dai vizi che ne avevano corrotto l’anima infelice. Adesso l’ho capito, Giulia, ti avevo telefonato per dirtelo. Se quella sera fossi venuta con me sulla collina o in qualunque altro posto in cui avessi voluto portarmi, ti avrei detto le parole che non dissi quando sei uscita dal bar, avrei riavvolto il nastro del tempo riprendendo dalla tua ultima frase lapidaria: Adelfo è finita, fattene una ragione.
Alla quale non avrei risposto, come infelicemente feci allora, mentre la tua silhouette si stagliava nel chiarore accecante della porta d’ingresso del bar: Vai pure per la tua strada, io resto qui.
Mi sarei alzato da quella sedia disperata, ti sarei venuto incontro e guardandoti negli occhi ti avrei fermata dicendo semplicemente, forse con un tono malinconico, però fermo e deciso: Giulia non te ne andare, aiutami ad affrontare i cani randagi che straziano la mia anima.
Invece non ti ho trovata, il nastro del tempo si è riavvolto solo nella mia testa e lì è rimasto.
10 maggio 2021 Settimo episodio
I pensieri della figlioletta di Hassan di fronte alla sua condizione di piccola immigrata di colore e alla tragedia del padre ferito.
La figlia di Hassan
Se sorridi e non accigli lo sguardo sei più bella mi diceva papà quando ero triste e mi arruffava i capelli. Mi arruffava sempre i capelli quando ero accigliata e voleva farmi dimenticare la tristezza, se non ridevo mi prendeva in braccio e mi faceva volare. Quando ero più piccola, però. Volavola Nabilah, volavola, diceva. Mentre ero sospesa in aria non avevo paura di cadere, immaginavo di essere un uccello, guardavo la stanza dall’alto e mi sembrava di vedere un panorama sconfinato dove ogni oggetto: il lampadario, le sedie, il tavolo, il divano, il lavello e la cucina, la credenza e il frigorifero, le piccole stampe appese alle pareti si trasformavano in un panorama variopinto, come quello che avevo visto dall’aereo quando io e mamma siamo venute a trovare papà che non ci ha più lasciate andar via. Ero molto contenta di stare con papà e con mamma in questo paese nuovo che mi sembrava così bello e accogliente. Mi mancavano i miei cugini e i nonni, i colori della nostra piccola città, gli spazi aperti dove potevamo correre e giocare senza stancarci mai, però qui stavo bene e poi c’era papà che mi faceva volare e mi arruffava i capelli.
Ancora volavola, papà, dicevo quando mi posava per terra dopo avermi recuperata prima dell’atterraggio. Ancora volavola, papà. E lui paziente mi tirava su: volavola Nabilah, volavola, e prima di posarmi per terra mi abbracciava tenendomi stretta stretta, mi faceva il solletico per farmi ridere e poi mi arruffava i capelli.
Quando ero in Africa nessuno mi arruffava i capelli o mi faceva volare. Non voglio dire che lì non stessi bene; ci stavo bene ed ero anche allegra e poi c’erano i miei cugini a cui voglio molto bene e i nonni che ci raccontavano tante storie. Qui ho meno occasioni per essere allegra perché sto molto tempo da sola, chiusa in casa, perché se esci di casa non ci sono gli spazi aperti dove correvo con i miei cugini e non ci sono neanche i cugini, ci sono le auto che vanno veloci e se non stai attenta rischi di farti investire. Non si può correre dietro il cerchione di una vecchia bicicletta per la strada intasata di automobili. Gioco da sola con le bambole o con qualche amichetta quando la mamma va a lavorare e mi porta a casa di una nostra conoscente. A casa delle compagne di scuola non ci vado quasi mai, loro non vengono mai a casa nostra neanche quando mia mamma le invita, trovano sempre qualche scusa. Io quando mi invitano sono contenta di andarci perché le mie compagne hanno tanti giochi, una stanza tutta per loro. Anch’io ho tanti giochi, ma i miei non sono belli come quelli delle mie compagne che a scuola ne portano sempre di nuovi e un po’ mi fanno invidia perché io non ce li ho e se chiedo a mia mamma o a mio papà di comprarmeli mi rispondono che me li compreranno quando diventeremo ricchi. Se lo chiedo a mio papà lui per non farmi pensare al giocattolo nuovo mi prende per la vita e cerca di farmi volare come quando ero più piccola e leggera. Volavola Nabilah, dice mentre mi solleva, però non riesce a farmi volare in alto come quando ero più piccola e leggera. Adesso però mi tiene stretta più a lungo. Adesso il suo abbraccio mi sembra più tenero, meno giocoso, più profondo, forse perché è dispiaciuto di non potermi comprare il giocattolo nuovo e vuole farsi perdonare. Io lo perdono volentieri perché il suo abbraccio mi rende felice e anche se non ho il giocattolo nuovo ho un papà che mi vuole bene e mi abbraccia in quel modo tenero che solo lui conosce. E poi mi arruffa i capelli che è un gesto che mi piace sempre tanto e non m’importa se me li scompiglia. Anche perché i miei capelli sono crespi e non si scompigliano quando me li arruffa.
Anche mia mamma mi abbraccia e mi fa le coccole quando è seduta sul divano o sulla sedia, il suo però è un abbraccio diverso da quello di papà, è un abbraccio protettivo che in fondo mi dà un po’ di tristezza. Io non le dico che il suo abbraccio mi mette tristezza, ma è proprio così perché mi fa pensare alle cose brutte che i miei compagni di scuola ripetono come una cantilena. Non tutti, ce ne sono anche di bravi che mi vogliono bene e giocano con me e mi aiutano quando facciamo le attività in classe. Io cerco di stare sempre con loro per evitare che gli altri, quelli cattivi, mi prendano in giro perché sono nera. Non le dico neanche che i miei compagni cattivi mi prendono in giro e mi fanno la cantilena perché sono nera. Se glielo dicessi il suo abbraccio diventerebbe ancora più triste e non so se riuscirei a sopportarlo e magari le direi di non abbracciarmi così stretta e lei, ne sono sicura, ci resterebbe male e si metterebbe a piangere come fa qualche volta che mi fa arrabbiare e mi abbraccia per farsi perdonare.
Mi abbracciò forte forte, in quel modo triste che ho detto prima, il giorno in cui mi disse di papà, che papà era in ospedale.
Di quella giornata non ci avevo capito niente. Quando al mattino mi sono svegliata non c’era la mamma vicino al letto e neanche papà. C’era l’amica di mamma che veniva a tenermi compagnia quando lei era impegnata.
Oggi non c’è scuola, resti a casa con me fino a quando non torna tua madre, disse come se fosse una bella notizia.
Io avrei preferito andare a scuola ma non feci domande, non ero abituata a fare domande agli estranei, anche se erano amici di mamma e papà, perché mio nonno mi aveva insegnato a non fare domande.
Se i grandi vogliono dirti qualcosa te lo dicono anche se non glielo chiedi. Se non ti dicono niente è solo perché credono che sia meglio evitarlo, per non farti soffrire o per non metterti paura.
Ai miei genitori facevo tutte le domande che mi passavano per la testa, ma se loro mi dicevano di non potermi rispondere pensavo alla raccomandazione di mio nonno e me ne stavo tranquilla.
Restai in casa tutto il giorno. Mamma tornò all’ora di cena. Mi disse che papà era in ospedale perché era caduto e si era ferito a una gamba e fu proprio dopo quelle parole, pronunciate quando siamo rimaste sole, che mi abbracciò stretta stretta per nascondere la sua tristezza e il suo pianto. Da quell’abbraccio compresi che non mi aveva detto la verità. L’abbracciai forte forte anch’io, non le dissi come le altre volte: Mamma lasciami andare che mi stai soffocando. Piansi anch’io e le dissi con rabbia: Mamma dimmi la verità.
La mia intuizione era corretta. Avevo immediatamente pensato a quell’uomo che aveva minacciato papà perché voleva che ci trasferissimo in un altro quartiere. Papà non voleva trasferirsi in un altro quartiere, aveva il suo lavoro a due passi da casa e qui stava bene, conosceva tante persone, c’erano tanti neri come noi. Mamma sarebbe stata disposta a cambiare casa. Lei voleva andare in una casa più grande e più comoda, ma papà diceva che dalle altre parti gli affitti delle case erano più alti e noi non potevamo permettercelo. Qualche volta hanno anche litigato per questo e quando litigavano papà si alzava e usciva di casa. Mamma non diceva niente, però si metteva a piangere e se io la guardavo faceva finta di mettere a posto qualcosa. Io mi accorgevo che piangeva perché tirava su col naso e si asciugava le lacrime sulla manica o col grembiule e allora me ne stavo zitta zitta facendo anch’io finta di fare qualcosa. Forse mamma piangeva perché pensava che papà non sarebbe tornato a casa ed era preoccupata per questo. Senza papà e senza i nonni che erano tanto lontani come avremmo fatto a tirare avanti. Forse pensava a questo. Poi papà ritornava e mamma era contenta, non ricordava più di aver pianto. A me quando mamma piangeva perché papà era uscito di casa dopo un litigio veniva voglia di consolarla ricordandole che lui faceva sempre così, che dopo un po’ sarebbe ritornato, che non era il caso di piangere. Però non le dicevo niente perché ricordavo un altro insegnamento di mio nonno che ci ha insegnato tante cose a me e ai miei cuginetti. Mio nonno diceva che quando una donna piange bisogna lasciarla sfogare senza interromperla, se non si sfogasse il pianto trattenuto si sarebbe trasformato in veleno e l’avrebbe uccisa.
Io non piangerò mai quando sarà grande, farò come te che non ti ho mai visto piangere, gli dissi una volta.
Mio nonno rispose che piangono anche gli uomini, solo che piangono senza lacrime e per non essere avvelenati dalle lacrime trattenute fumano il tabacco o qualche altra sostanza o bevono fino a ubriacarsi perché l’alcol e il fumo neutralizzano il veleno.
Io credevo alle parole del nonno perché lui era un vecchio saggio che sapeva tante cose, e poi avevo constatato che papà si accendeva sempre una sigaretta quando usciva di casa dopo aver litigato con mamma.
Quando mamma confermò quello che avevo intuito non piansi. Avrei voluto fumare una sigaretta e andare per strada come faceva papà per sfogare la sua tristezza. Ero triste. Tanto più triste di prima perché a quella causata dall’aggressione a papà si aggiungeva una consapevolezza nuova che mi angosciava. Prima di allora avevo creduto che il mio papà fosse invincibile, che avrebbe protetto me e la mamma dalle cattiverie dei compagni di scuola e dell’altra gente che ci guardava di storto quando andavamo in giro e che qualche volta ci insultava dicendoci di tornarcene in Africa. Dopo quella notizia non riuscii più a pensare che papà fosse invincibile e ci avrebbe protette, desiderai di essere in Africa con papà e mamma, con i nonni e con i miei cuginetti per correre insieme a loro nelle grandi distese dove mi sarei divertita correndo a perdifiato dietro il cerchione di una vecchia bicicletta affrancata dalla paura di essere investita dalle automobili, per ascoltare i saggi consigli di mio nonno e le lunghe storie che ci raccontava seduti all’ombra di un albero frondoso.
09 giugno 2021 Ultimo episodio
Affido la conclusione di questa cavalcata in dieci episodi alla fidanzata di Adelfo e alle sue amare riflessioni sulle vicende che hanno consegnato alla speculazione il quartiere in cui è nata e cresciuta.
Il prossimo appuntamento, prevedo in autunno, sarà con la versione integrale.
La fidanzata
Lo avevamo temuto, era l’assillo che ognuno di noi si portava dentro, inespresso come un pensiero che non si riesce a formulare perché mancano le parole per rappresentarlo, non se ne ha l’animo. Un pensiero assillante, informe e chiaro come un sogno notturno dimenticato al risveglio, del quale si avverte acuta la sensazione di disagio, una sorta di inadeguatezza di cui non si sanno individuare le cause, incombente come il convitato di pietra.
Lo avevamo temuto: il quartiere ci avrebbe avvelenati a poco a poco.
Era il quartiere il convitato di pietra, ineffabilmente presente nelle nostre vite, testimone silenzioso delle nostre infanzie spensierate quando la vita era ancora un gioco e una scoperta e i giochi cementavano i sentimenti, le amicizie senza tempo, i destini comuni. Il tempo lo ha trasformato: era un testimone muto e amorevole, una presenza benevola e confortante, mentre nel tempo del nostro affacciarci alla vita adulta ha smesso di confortarci, ci giudicava, ci giudica, pronto ad alimentare la nostra angoscia per ciò che d’incompiuto c’era, c’è nelle nostre vite, quando le vite ci è dato di conservarle, di non perderle per strada come è successo ad Adelfo e a Luca e ai tanti altri smarriti sulle strade del loro destino.
Non è colpa sua, del quartiere, se il cambiamento s’è realizzato, la colpa è del tempo, di questo tempo impietoso che stravolge vite e coscienze, di questa modernità barbara che ci rende precari, comparse di una rappresentazione instabile in cui s’improvvisa e si recita a soggetto. Le nostre vite appese sul filo del caso. Con Adelfo e con Luca il caso non è stato benevolo, si sono persi in vicende più grandi loro e ne hanno scontato le conseguenze.
Qual è la colpa di Adelfo sanzionata col prezzo della vita? E la colpa di Luca? E la mia? E quella di Adele?
Adelfo ha pagato per la sua ingenuità. La pena se l’è scritta ed eseguita da sé, l’ha anticipata rispetto al processo ed è stata più dura di quanto previsto dalla legge per il suo reato… se lo avesse commesso. Ma non lo ha commesso. Non importa che non sia verità processuale; non è stato deciso neanche il contrario, assorbito nella pena totale che s’è inflitto da sé. Se nei suoi confronti il processo avesse avuto corso, Adelfo sarebbe stato condannato perché le circostanze lo accusavano, nonostante le rivelazioni di Luca.
È poi veramente il caso ad aver determinato gli esiti fatali che piangiamo? O la volontà perversa e criminale di soggetti privi di scrupoli che nell’ombra hanno inscenato un teatro di marionette?
Domanda retorica, rimasta senza riscontri ufficiali e quindi inutile in buona sostanza, buona solo per far lievitare la rabbia di chi quelle morti vuol piangere e avrebbe voluto onorarle nella verità.
Adelfo, alla luce dell’assoluzione per insufficienza di prove degli altri implicati nell’affare, sarebbe stato condannato come artefice materiale del ferimento di Hassan in concorso con ignoti. Nel processo il suo ruolo è stato evocato come organizzatore ed esecutore, il fantasma che sulla scena del delitto si materializza dal niente, in un crescendo drammatico spara, si eclissa e ne determina l’esito irreparabile.
La morte di Adelfo ha lasciato una scia di dolore inconsolato, ha isolato dal mondo la sua intera famiglia, chiusa in una disperazione cruda, senza scampo.
Consapevole ed espiatoria quella dei genitori, assorbiti da rituali evocatori per mantenere vivo un ricordo. Non è la vita infelice di Adelfo che ricordano, la fine prematura e cruenta di una giovane vita irrisolta; è la responsabilità di quella vita inutilmente sprecata che si attribuiscono senza riserve ad essere vivificata nel ricordo. Si sono riconosciuti colpevoli di inadeguatezza: genitori inadeguati, educatori inconsapevoli e disattenti, assorbiti dalla materialità di un’esistenza complicata alla quale sfuggivano le attese della vita in formazione di un figlio affidato alle cure inesperte della sorella. Era soprattutto il padre a sentire come una colpa il peso della carenza, a volerla espiare giorno dopo giorno confinato in esilio volontario ai margini del mondo. Il suo dolore si introfletteva nella commiserazione di sé (un’elaborazione del lutto, in fondo), si sovrapponeva al dolore della morte e lo declassava. La madre aveva assecondato il marito e ne condivideva la colpa, ma il suo dolore non era solo rimorso, andava oltre, era l’ingiustizia dell’assenza, lo strappo della separazione, come se quel figlio glielo avessero estratto dalle viscere con uno strappo violento. Per lei non c’era possibilità di elaborare il lutto nell’espiazione, e neanche nell’inesorabile scorrere del tempo; il dolore si rinnovava ogni giorno e la consumava alimentandosi del suo corpo, accompagnandola, consenziente, verso la fine di quell’insopportabile strazio.
Oramai inconsapevole la disperazione di Adele, ingabbiata nel gorgo della follia a malapena governato dalle immeritate cure del marito, invecchiato anzitempo e deluso per quanto gli era toccato vedere e sopportare.
Orlando ha sofferto molto, non solo per la morte di Adelfo, a causa di Adele che lo ha gravato di pesi e di colpe che non ha commesso. I maneggi di Adele lo hanno ferito nel profondo dell’animo, in ciò che gli era più caro e pregiato. Aveva costruito sull’onestà la sua identità di uomo probo e fu sospettato di corruzione e ingiustamente condannato per diffamazione; aveva creduto nell’amore e fu tradito per motivi venali dalla destinataria della sua passione amorosa; tuttavia nel momento del bisogno non l’ha abbandonata. Quale forza interiore lo abbia deciso ad assumersi incombenze sì gravose non mi è dato sapere, mi vien solo da dire che è un uomo ammirevole che nella tragedia ha confermato la sua dignità di uomo senza cesure. Lo testimonio perché l’ho conosciuto, ho parlato molto a lungo con lui nel periodo successivo alla morte di Luca, quando gli spiragli aperti dalle sue rivelazioni inaspettate avevano sollecitato speranze di una soluzione positiva dell’intera vicenda.
La morte di Luca è rimasta impunita. Invano mi sono battuta per dare un volto e un nome ai suoi carnefici; le mie parole, che poi erano le parole di Luca, non sono state sufficienti perché non bastano le parole e i timori per convincere i giudici, hanno prodotto solo l’apertura di un procedimento contro ignoti e l’avvio di inutili indagini carenti di riscontri. Per Luca non c’è stato alcun processo, la sua morte è stata rubricata come un semplice incidente stradale causato dalla concomitanza di numerose circostanze avverse. Tra le cause della morte è stato supposta anche l’ipotesi del suicidio provocato dalle sostanze stupefacenti e dall’elevato tasso alcolico rintracciati dall’autopsia.
Suicidio per quali motivi? ho chiesto al giudice inquirente.
Mi fu risposto: A causa del rimorso per il tradimento dell’amico suicidatosi in carcere.
Replicai: L’ipotesi è paradossale. Se la questione del tradimento può avere un valore probatorio dovrebbero averlo anche tutte le altre informazioni che ho raccolto da Luca.
Infatti, non ne ha alcuno. Era solo un’ipotesi non confermata dai fatti.
Solo ipotesi. Restano solo ipotesi. Circostanze alle quali gli inquirenti hanno dato credito, intorno alle quali hanno costruito uno scenario plausibile e hanno svolto una lunga e complessa attività d’indagine che non ha portato alcun risultato. Non si è aperta alcuna breccia in cui inserire il grimaldello della verità, lo scudo dell’omertà ha resistito alle pressioni e la lancia che lo accompagna ha colpito con decisione per cancellarne le tracce.
Di due morti che mi hanno costretta a guardare in faccia una realtà disperata restano solo inutili ipotesi e nessuna certezza sulla quale coltivare la speranza.
Quanto a me non mi faccio illusioni. Il quartiere in cui io, Luca e Adelfo siamo cresciuti non c’è più, ma è una crisi che viene da lontano, da quando il lavoro ha perso la centralità che si era conquistata con le lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, il secolo della modernità solida, spodestata dalla liquidità del moderno contemporaneo privo di identità. La mia generazione è cresciuta all’interno di questo contesto indefinito, era scritto che ne restasse schiacciata, priva di riferimenti e di bandiere, abbandonata a se stessa, come le periferie, come il nostro quartiere.
Con l’associazione Ostinate Presenze abbiamo cercato di contrastare il degrado, qualche risultato l’abbiamo ottenuto, palliativi rispetto alla gravità della malattia, era come cercare di svuotare il mare con un secchiello da spiaggia, come combattere a mani nude contro un esercito armato di tutto punto.
Dopo la nota vicenda della palazzina la situazione è peggiorata in modo irreversibile, in pochi anni si è modificata la geografia sociale, quel poco di comunità che resisteva per abitudine e per nostalgia o solo perché non aveva altra scelta è stata costretta a emigrare lasciando dietro sé il deserto: outlet, ipermercati e isole residenziali per piccolo borghesi in fuga dal centro cittadino congestionato e anonimo.
Io sono rimasta. Mi sono domandata più volte il perché, non mi son data risposte convincenti. Forse ha prevalso la forza dell’abitudine o forse la nostalgia. Sento forte un ancoraggio ai ricordi dell’infanzia quando mio padre mi teneva per mano e mi portava con sé nei cortei, ai comizi, nella sezione del partito a piegare volantini, a respirare quell’aria d’impegno sociale che m’è rimasta incollata alla pelle; e poi le feste de L’Unità, la casa del popolo, le osterie e le balere. È questo che mi lega e m’impedisce di andar via? O forse è la volontà di non darla vinta a chi ha tramato per distruggere anche le ultime vestigia del tempo eroico dei miei ricordi di bambina? Magra consolazione questo isolato desiderio di testimonianza che testimonia soltanto se stesso, perché non importa a nessuno che ci sia stato quel tempo se tutto congiura per cancellarne anche la memoria, non solo le conquiste.
Forse sono rimasta per lealtà nei confronti di Adelfo e di Luca, nonostante loro lo odiassero questo quartiere, vittime sacrificali di un potere tremendo che per conquistarlo e soffocarne l’anima in agonia ha dovuto sbarazzarsi delle loro vite, diventate loro malgrado ingombranti. Però non ne sono sicura.
31 maggio 2021 Nono episodio
Il responsabile di SOS-Rifugiati ricorda l’epilogo della vicenda della palazzina liberty e il destino dei giovani rifugiati.
Il responsabile di SOS-Rifugiati
Ha vinto la paura, ha perso la ragione; ha vinto il rancore contro l’accoglienza, la violenza ha offeso la mitezza, l’affarismo ha sconfitto l’umanità.
Sostenere che sia stata una partita truccata, giocata oltre i limiti del regolamento è evidente solo che si guardi la realtà senza le lenti sfocate del pregiudizio. Per non parlare dell’arbitro, spudoratamente prono agli interessi di parte.
Partiamo dalla conclusione. Gli offesi, colpiti da un’azione proditoria sono stati puniti con la diaspora; i mandanti della violenza sono stati premiati con l’acquisto della palazzina e l’approvazione del progetto di centro direzionale. Le belle parole del Sindaco pronunciate nel giorno dell’attentato sono state rinnegate; il sospetto è che lo siano state per un volgare e illecito interesse privato. Lo ha scritto, nero su bianco, il giudice che lo ha rinviato a giudizio per corruzione in concorso con l’Assessore al patrimonio e un paio di funzionari comunali.
La vicenda è nota ed è nota anche la sentenza che ha assolto tutti gli imputati, tra i quali il presunto corruttore ingegner Edoardo Casella, perché non avrebbero commesso il fatto.
A essere condannati sono stati i venti rifugiati ospitati nella palazzina dello scandalo. Una deportazione che ha avuto ragione dello spirito di accoglienza, che ha schierato la città contro il diritto dei rifugiati a un trattamento umanitario, che ha contraddetto l’impegno solenne del Sindaco assunto di fronte ai cittadini che condannavano il vile attentato alla palazzina.
Dove sarebbero stati ricollocati i rifugiati non ci fu comunicato: destinazione segreta. La segretezza ci sembrò fuori luogo. Che pericolo c’era? Da quali minacce li si voleva proteggere?
Qualche informazione ci giunse, qualche contatto lo mantenemmo, si riuscì a ricostruire il quadro della diaspora e a raccoglierne le sofferenze prima di perderne le tracce, come accade spesso in questi casi.
Molti, i più giovani e quelli che avevano parenti in altri Stati, soprattutto del Nord Europa, hanno tentato di attraversare le frontiere che ancora li separavano dalla meta. Ma le frontiere nell’Unione Europea, nonostante l’assenza di guardie armate e di muri o di fili spinati, non sono facili da attraversare per chi porta segnata nel corpo la sua condizione. Per chi ci riesce la probabilità di essere rispedito sui suoi stanchi passi è elevata, ma questo non lo scoraggia perché non c’è ostacolo al mondo che possa fermare la marcia di chi ha niente da perdere e una vita da ricostruire lontano dalla disperazione che lo ha fatto partire lungo i percorsi incerti del deserto e del mare infestati di predoni e pirati. Soltanto la morte può fermarli. Ma la morte è un fatto individuale, colpisce chi colpisce mentre gli altri continuano il loro cammino. Ogni morto fermato sulla strada del proprio riscatto non è monito e freno alla corsa degli altri, non ferma le partenze, non scema la determinazione delle colonne marcianti perché l’impulso alla vita non teme la morte, l’affronta.
Alcuni, non avendo ottenuto l’agognato permesso di soggiorno, sono stati rimpatriati o forse si sono immersi nelle acque pericolose della clandestinità, sono diventati invisibili: soldati irregolari di un nuovo esercito di riserva in cui pescano a piene mani imprenditori senza scrupoli alla ricerca di manodopera a basso costo e alta produttività, caporali che ne taglieggiano i già miserevoli salari, organizzazioni malavitose per farne carne da macello da immolare sul fronte dello spaccio di droga, del controllo della prostituzione, dei vari racket in cui si esercita la galassia del crimine.
Gli altri hanno cercato di integrarsi o almeno di sopravvivere nei luoghi in cui li ha portati la speranza, hanno accumulato frustrazioni e rancori verso il nostro mondo poco o per nulla accogliente. I più fortunati sono riusciti a trovare un lavoro stabile, ma solo uno su mille ce la fa, come recita una vecchia canzone, ma quanto è dura la salita, in gioco c’è la vita. Ecco, la vita, la speranza di una vita dignitosa per la quale hanno rischiato di morire tante volte, con la quale ha giocato chi ha organizzato l’attentato alla palazzina e chi li ha cacciati proditoriamente con una menzogna.
Ciò che resta di loro è qualche foto che col tempo sbiadisce, qualche storia raccolta da chi ha avuto la forza di raccontarsi, qualche ricordo e, immancabile, il senso di sconforto e di sconfitta per non essere stati all’altezza dell’impegno.
Un ricordo familiare è riemerso ripensando quei fatti: situazioni diversi, esiti diversi, gli stessi ricordi: una fotografia in bianco e nero di fronte a casa mia, i mesi successivi alla fine della seconda guerra mondiale. Vi è ritratta una giovane donna bionda con un bambino di due, tre anni in braccio; il bambino è mio fratello maggiore, la giovane donna un’ebrea slava scampata ai campi di concentramento nazisti. Era stata accolta nel mio paese d’origine, in Salento, insieme a molti altri ebrei nei centri di raccolta gestiti dalle Nazioni Unite ed era in attesa di fare il grande balzo verso la loro terra promessa. Una fotografia che custodisce la memoria e mi fa ricordare, a me che non c’ero, che quel periodo non l’ho vissuto e quella donna non l’ho conosciuta, come fosse una pagina della mia storia personale, che quanto è successo a lei, così vicina a mio fratello, ai miei genitori, nel mio paese che l’ha accolta, è accaduto davvero e non può più essere rimosso. E resta anche come un monito scolpito nella pietra per quanti quella povera donna l’hanno offesa e accusata prima del campo di concentramento e anche dopo. Altrettanto accadrà alle fotografie che testimoniano la presenza degli ospiti della palazzina, ricordo e monito della loro odissea, altrettante pagine di storia per figli e nipoti dei prossimi decenni.
Ciò che resta è anche la palazzina della discordia. Dopo la profonda ristrutturazione è diventata il portale d’ingresso del centro direzionale costruito dal noto immobiliarista. La realizzazione del progetto, al momento attuato solo parzialmente, ha modificato la struttura del quartiere, ne ha ristrutturato alcune aree, altre lo saranno nel prossimo futuro. A beneficiare del cambiamento non sono e non saranno i vecchi residenti, quelli che con le loro proteste contro gli immigrati hanno fatto il gioco dell’immobiliarista e favorito i suoi affari poco chiari in combutta con il mondo di mezzo che ha scatenato la violenza cieca del mondo di sotto e addomesticato la politica piegandola ai propri interessi. Nel quartiere sta cambiando, e ancor più cambierà nel prossimo futuro, la composizione sociale. I vecchi residenti, come i giovani rifugiati, sono stati dispersi in quartieri ancora più periferici e più disagiati di quello di provenienza. Qualcuno a posteriori se n’è rammaricato, molti non ci hanno fatto caso, continuano a vivere un’esistenza inconsapevole, scaricano le difficoltà di organizzare la loro vita raggirata sul bersaglio sbagliato, su nemici immaginari additati dai consapevoli e interessati mestatori di turno.
Noi di SOS-Rifugiati continuiamo il nostro lavoro di assistenza e integrazione a favore di rifugiati e migranti. Lo facciamo con le poche forze che abbiamo, motivati da un immutato sentimento di giustizia. Sappiamo che è insufficiente, una goccia nel mare del bisogno, ma sappiamo altrettanto bene che c’è bisogno di testimonianza, di esempi che smuovano l’apatia dei cuori intorpiditi dalla paura e dal rancore; c’è bisogno di mantenere accesa la fiaccola della giustizia sociale e dei diritti universali conculcati per dare anche a queste povere vite, indifese e vilipese, l’opportunità di raggiungere la loro terra promessa, trasportati in sicurezza da moderne Exodus e non da incerti gommoni alla deriva.
18 maggio 2021 Ottavo episodio
Adelfo è incriminato per il ferimento di Hassan e tradotto in carcere.
Adelfo
Il mattino prometteva bel tempo, il cielo intravisto agli incroci dei viali era azzurro, in un’altra occasione mi avrebbe donato allegria e buonumore, come il verde degli alberi e i colori vivaci dei fiori sui balconi delle case, quella gioia di vivere che, costretto sul sedile posteriore di una “pantera” della polizia tra due agenti seri e impettiti, non potevo afferrare, era esclusa dalla mia condizione mentale. Il mio umore stazionava rassegnato su modulazioni disperanti. Un disagio crescente, accentuato dall’impassibilità degli agenti che mi avevano escluso dal loro orizzonte quasi fossi un oggetto ingombrante a cui non vale la pena di dedicare neanche uno sguardo o una sola parola, mi serrava il petto, m’impediva di rivolgere loro lo sguardo e la voce, anche solo per chiedere dove andavamo, per stabilire un contatto che non fosse il toccarsi dei corpi sballottati dai movimenti dell’auto. Isolato nell’auto con l’angoscia che mi attanagliava, isolato dal mondo assolato e gioioso, incurante della mia condizione, immaginavo i futuri scenari di questa incredibile storia che mi sovrastava. Fluttuavo tra due sensazioni diverse, un’altalena oscillante tra il bene ed il male, libertà e reclusione, coscienza dell’innocenza e timore di non riuscire a provarla.
Dov’eri la sera del tentato omicidio tra le 21,00 e le 23,00?
Signor giudice, quella sera ero sconvolto, ho girato in auto senza meta cercando il mio amore perduto.
L’altalena inclinava al timore, il cervello esplodeva in un grido furioso d’innocenza. Un grido impotente, cupo come il rintocco di una campana: dooonn… dooonn… dooonn…, grave e lento, incessante, presagio di eventi funesti.
M’imponevo di non pensarci, non volevo pensarci, ma quell’impotente grido d’innocenza, consapevole della sua stessa fragilità, continuava a martellarmi le tempie erodendo i baluardi della mia consapevolezza, la speranza di poter tornare a casa dopo l’interrogatorio.
Colpevole di tentato omicidio.
Signor giudice sono innocente, pur non essendo uno stinco di santo. Non sono uno stinco di santo, ho avuto, come tutti, pensieri di cui vergognarmi, comportamenti discutibili e anche deplorevoli; ho peccato in pensieri parole opere e omissioni, sono stato un peccatore seriale. Sa che le dico, non sono neanche pentito di quello che ho fatto o che ho detto, qualche volta me ne vergogno. Sono stato vile e arrogante, bugiardo come tutti, e oggi me ne vergogno. So di essere un uomo mediocre, è la mia vita, ma non ho commesso il reato di cui vuole incolparmi, né altri reati. Sono innocente.
La volante con uno scossone attraversò il passo carraio della questura, il portone si chiuse oscurando i pensieri. Si fermò. Fui portato in una cella di sicurezza in attesa dell’interrogatorio di garanzia.
Quella sera non eri da solo…
Signor giudice, non ho incontrato nessuno. Neanche il mio amore perduto ha voluto vedermi. E i miei amici non li avrei sopportati.
Adele avrebbe voluto aiutarmi, si era offerta di testimoniare che ero stato con lei quella sera, che ero in crisi profonda per la storia finita con Giulia. Ne parlammo il giorno successivo al fattaccio, quando sembrò inevitabile, lo sapevamo ambedue, che sarei stato coinvolto. E non avevo uno straccio di alibi. Rifiutai. Non volevo coinvolgerla in quella faccenda perché le prevedibili accuse a suo carico di falsa testimonianza e di complicità avrebbero aggravato la mia posizione e azzoppato il sicuro sostegno che mi avrebbe sorretto nel corso del procedimento.
Chi erano i tuoi guardaspalle?
In città i condomini della periferia, in collina il bosco ed il buio che faceva paura.
Devo essere leale e collaborativo. Gli racconterò che col Grifo e altri amici del CAR avevamo discusso se attuare la minaccia rivolta ad Hassan, che l’idea ci era parsa balzana per l’evidente ragione che l’aggressione avrebbe avuto una firma e un mandante impacchettato a priori. Io avevo paura, ho paura della violenza, mi ritraggo, sto in disparte ed incasso i sarcasmi degli amici del bar. Lo può chiedere al Grifo o anche agli altri, le diranno che a confronto del loro coraggio, dei muscoli agili e potenti che coltivano nelle palestre, io sono un fuscello che anche Hassan avrebbe spazzato via senza sforzo.
Chi ha sparato ad Hassan?
Non ho percepito rumori, solo il rombo dell’auto e il respiro del bosco che faceva tremare le foglie.
Dovrei dirgli di chiederlo al palazzinaro, è lui che mi ha messo in questo pasticcio. Che gli chieda dell’attentato alla palazzina. Lui può saperne qualcosa. Non lo accuso, non dico che lui sia il mandante; può essere informato dei fatti, come dicono i conduttori dei telegiornali. Io in quelle ore pensavo al mio amore perduto, mi son perso sulle strade della stessa collina dove lei mi ha abbandonato in un bar. Gli chieda il perché, signor giudice, glielo chieda e vedrà che ne avrà la conferma. Posso dirle che da quel giorno non sono più io e se la sera di cui vuol sapere son rimasto da solo è perché Giulia non ha voluto parlarmi, il telefono è rimasto in silenzio.
Sul palazzinaro forse è meglio tacere.
Il giudice non mi ha creduto. Gli ho raccontato di Giulia e del bosco, del Grifo e delle mie paure, eppure non mi ha creduto, mi ha spedito a trascorrere i miei giorni in una cella d’isolamento, su una branda sfondata dove anche il riposo è faticoso, ti schianta la schiena e t’intorpidisce non solo le membra, soprattutto il pensare che vaga monotono e lento su un unico tema: questa mia condizione infelice prigioniera di un’apparenza. Il flusso roteante delle immagini vere, che non sono apparenza come il giudice crede, non si arresta neanche se abbandono la branda sfondata, se percorro i tre metri per tre della cella sul sentiero obbligato tra porta e finestra, se mi fermo a osservare il riquadro di cielo a quadretti che sembra irreale a guardarlo da lì. Non si arresta neanche se mi accosto al tavolino sciancato e mi siedo con la faticosa intenzione di scrivere una lettera. Vorrei scrivere a mia madre, a Giulia, ad Adele (le donne della mia vita) per dire loro quanto mi pesa il dolore seminato a man salva, eppure che del dolore più grande, l’ignominia che mi prostra su questo tavolino sciancato, non ho colpa alcuna. Però non ci riesco. Non ho mai scritto una lettera, non so come iniziare, dopo le prime parole mi perdo in banalità che non dicono niente, che mortificano il mio sentimento e farebbero irritare chi legge.
Leggi, Adelfo.
L’insegnante di lettere delle scuole superiori me lo ripeteva a ogni quattro rifilato nei compiti in classe. In effetti aveva ragione, non ricordo di aver letto un libro che non fossero quelli di testo. Dovevo leggerne almeno uno al mese, lo prevedeva il contratto didattico: formalmente lo rispettavo, al posto del libro leggevo il riassunto sui siti, a far copia e incolla ero bravo, la sfangavo così, e se in rete non trovavo l’aiuto cercato c’era Adele che leggeva per me.
Questa è l’ultima volta, diceva.
Scriverei anche al giudice se ne fossi capace.
Signor giudice, sono innocente.
Così non va bene. L’ho ripetuto a ogni interrogatorio, come un mantra. Ci vorrebbero prove…
Ho bisogno di prove, ripeteva il mantra del magistrato.
O almeno espressioni efficaci, per convincerlo che il mio dire è sincero, che il tuo insegnamento, mamma, non l’ho dimenticato.
Le bugie hanno le gambe corte.
Non tanto per la lunghezza delle gambe, che comunque non ci puoi andare lontano, perché sono fragili e instabili, possono crollare a ogni soffio di vento esponendoti nudo e indifeso alla verità e ai suoi rigori.
Me lo ricordavi tutte le volte che m’inventavo una storia per coprire le piccole marachelle infantili e io mi vergognavo,
Scusa, mamma, non lo farò mai più.
ti abbracciavo, nascondevo la testa nel tuo grembo per non vedere il tuo sguardo severo. Quando poi ti guardavo il tuo sguardo non era severo, sorridevi e mi arruffavi i capelli: era il segnale del perdono che mi consegnava purificato ai miei giochi, confermato nel proposito della sincerità. Che da piccolo ho ancora tradito, ma da adulto non più. Non ti ho mai mentito, madre; non ho più ascoltato la frase ammonitrice e non mi sono rifugiato sul tuo grembo dopo averti chiesto scusa, né tu mi hai arruffato i capelli stringendomi a te. Avrei dovuto farlo, inginocchiandomi, per chiederti perdono per la mia sventatezza, quando tu ripetevi sconsolata, solo quando non c’era papà,
Non sei più un ragazzino…
e ti fermavi lì, sospendendo il rimprovero. Non c’era bisogno di aggiungere altro per farmi comprendere il tuo dolore di fronte ai miei giorni sprecati. Ti sono grato per la sospensione, di più forse non avrei sopportato, perché avevo anche buone ragioni per sprecare il mio tempo.
Sono figlio di un tempo terribile, madre, che non lascia scampo, non mi concede neanche la possibilità di provare, mi esclude e mi annienta, non vuole saperne di me perché di corpi da spremere, strizzare e scaricare ai margini della vita ne dispone in quantità illimitata.
Cercati un lavoro.
Quale lavoro, padre, se il lavoro non c’è. Se anche tu che lo avevi, garantito e protetto, lo hai perso e ora vaghi smarrito senza avere una meta, hai perso le certezze di un tempo e la forza che ti dava l’esser parte di una storia vissuta con orgoglio.
Ora uguali, padre, lo stesso destino. Insieme, a questo bivio dell’esistenza che non cammineremo insieme perché tu hai la tua storia e io non ho niente, tu sei stato e io non sono mai stato; potremmo camminare insieme ma non lo faremo perché non so come si cammina insieme, non l’ho mai imparato e tu continui a guardarmi con commiserazione.
Cercati un lavoro.
Se tu mi chiamassi, padre, se tu mi dicessi: camminiamo insieme, figliolo, e mi mettessi la mano sulla spalla, io sarei contento, come ero contento in quella foto che mamma tiene sul comodino, in cui mi tenevi la mano sulla spalla. Avevo sedici anni.
In quegli anni: Studia.
Il lavoro era ancora una promessa che il tempo avrebbe onorato scambiando studio con lavoro ben remunerato. Un lavoro pulito, niente mani spesse di fatica, sporche e stanche; tu orgoglioso di me. Sarei contento, padre, anche se niente lavoro, se il tempo non ha mantenuto la promessa. Mi basterebbe sentire il peso del tuo braccio sulla mia spalla e ti accompagnerei, orgoglioso anch’io, sulla strada del nostro comune riscatto.
Il peso che ora mi opprime, padre, non è quello lieve del tuo braccio, è il groviglio d’incertezza che mi ha rinchiuso in questa cella di sofferenza, il sospetto che mi marchia indelebilmente, che dubita della mia parola.
Le bugie hanno le gambe corte.
Lo pensa anche il giudice, mi spinge su percorsi impervi e scoscesi dove spera di vedermi inciampare e cadere: smascherato sulla strada della menzogna. Mi guardi negli occhi, signor giudice, si convincerà che non mento, perché la lingua può nascondere la verità ma gli occhi mai.
Non ho detto bugie, madre, ho raccontato il calvario della mia solitudine notturna alla ricerca di Giulia sulle colline dell’abbandono.
Adelfo è finita, fattene una ragione.
Non ero riuscito a trovare alcuna ragione convincente. Io volevo Giulia e lei non mi voleva più, il perché mi stordiva, perché nessuna ragione. Io volevo cambiare, le avrei raccontato tutto, del palazzinaro e del resto e del passo che avevo fatto, da solo, con la decisione di lasciar perdere lo spacciatore che aveva litigato con mio padre.
Non ti ho trovata, Giulia, però ho dato un senso ai fantasmi che si agitavano nel bicchiere dell’oblio, cani randagi e un corpo straziato. Quel corpo era il mio, dilaniato dai vizi che ne avevano corrotto l’anima infelice. Adesso l’ho capito, Giulia, ti avevo telefonato per dirtelo. Se quella sera fossi venuta con me sulla collina o in qualunque altro posto in cui avessi voluto portarmi, ti avrei detto le parole che non dissi quando sei uscita dal bar, avrei riavvolto il nastro del tempo riprendendo dalla tua ultima frase lapidaria: Adelfo è finita, fattene una ragione.
Alla quale non avrei risposto, come infelicemente feci allora, mentre la tua silhouette si stagliava nel chiarore accecante della porta d’ingresso del bar: Vai pure per la tua strada, io resto qui.
Mi sarei alzato da quella sedia disperata, ti sarei venuto incontro e guardandoti negli occhi ti avrei fermata dicendo semplicemente, forse con un tono malinconico, però fermo e deciso: Giulia non te ne andare, aiutami ad affrontare i cani randagi che straziano la mia anima.
Invece non ti ho trovata, il nastro del tempo si è riavvolto solo nella mia testa e lì è rimasto.
I pensieri della figlioletta di Hassan di fronte alla sua condizione di piccola immigrata di colore e alla tragedia del padre ferito.
La figlia di Hassan
Ancora volavola, papà, dicevo quando mi posava per terra dopo avermi recuperata prima dell’atterraggio. Ancora volavola, papà. E lui paziente mi tirava su: volavola Nabilah, volavola, e prima di posarmi per terra mi abbracciava tenendomi stretta stretta, mi faceva il solletico per farmi ridere e poi mi arruffava i capelli.
Quando ero in Africa nessuno mi arruffava i capelli o mi faceva volare. Non voglio dire che lì non stessi bene; ci stavo bene ed ero anche allegra e poi c’erano i miei cugini a cui voglio molto bene e i nonni che ci raccontavano tante storie. Qui ho meno occasioni per essere allegra perché sto molto tempo da sola, chiusa in casa, perché se esci di casa non ci sono gli spazi aperti dove correvo con i miei cugini e non ci sono neanche i cugini, ci sono le auto che vanno veloci e se non stai attenta rischi di farti investire. Non si può correre dietro il cerchione di una vecchia bicicletta per la strada intasata di automobili. Gioco da sola con le bambole o con qualche amichetta quando la mamma va a lavorare e mi porta a casa di una nostra conoscente. A casa delle compagne di scuola non ci vado quasi mai, loro non vengono mai a casa nostra neanche quando mia mamma le invita, trovano sempre qualche scusa. Io quando mi invitano sono contenta di andarci perché le mie compagne hanno tanti giochi, una stanza tutta per loro. Anch’io ho tanti giochi, ma i miei non sono belli come quelli delle mie compagne che a scuola ne portano sempre di nuovi e un po’ mi fanno invidia perché io non ce li ho e se chiedo a mia mamma o a mio papà di comprarmeli mi rispondono che me li compreranno quando diventeremo ricchi. Se lo chiedo a mio papà lui per non farmi pensare al giocattolo nuovo mi prende per la vita e cerca di farmi volare come quando ero più piccola e leggera. Volavola Nabilah, dice mentre mi solleva, però non riesce a farmi volare in alto come quando ero più piccola e leggera. Adesso però mi tiene stretta più a lungo. Adesso il suo abbraccio mi sembra più tenero, meno giocoso, più profondo, forse perché è dispiaciuto di non potermi comprare il giocattolo nuovo e vuole farsi perdonare. Io lo perdono volentieri perché il suo abbraccio mi rende felice e anche se non ho il giocattolo nuovo ho un papà che mi vuole bene e mi abbraccia in quel modo tenero che solo lui conosce. E poi mi arruffa i capelli che è un gesto che mi piace sempre tanto e non m’importa se me li scompiglia. Anche perché i miei capelli sono crespi e non si scompigliano quando me li arruffa.
Anche mia mamma mi abbraccia e mi fa le coccole quando è seduta sul divano o sulla sedia, il suo però è un abbraccio diverso da quello di papà, è un abbraccio protettivo che in fondo mi dà un po’ di tristezza. Io non le dico che il suo abbraccio mi mette tristezza, ma è proprio così perché mi fa pensare alle cose brutte che i miei compagni di scuola ripetono come una cantilena. Non tutti, ce ne sono anche di bravi che mi vogliono bene e giocano con me e mi aiutano quando facciamo le attività in classe. Io cerco di stare sempre con loro per evitare che gli altri, quelli cattivi, mi prendano in giro perché sono nera. Non le dico neanche che i miei compagni cattivi mi prendono in giro e mi fanno la cantilena perché sono nera. Se glielo dicessi il suo abbraccio diventerebbe ancora più triste e non so se riuscirei a sopportarlo e magari le direi di non abbracciarmi così stretta e lei, ne sono sicura, ci resterebbe male e si metterebbe a piangere come fa qualche volta che mi fa arrabbiare e mi abbraccia per farsi perdonare.
Mi abbracciò forte forte, in quel modo triste che ho detto prima, il giorno in cui mi disse di papà, che papà era in ospedale.
Di quella giornata non ci avevo capito niente. Quando al mattino mi sono svegliata non c’era la mamma vicino al letto e neanche papà. C’era l’amica di mamma che veniva a tenermi compagnia quando lei era impegnata.
Oggi non c’è scuola, resti a casa con me fino a quando non torna tua madre, disse come se fosse una bella notizia.
Io avrei preferito andare a scuola ma non feci domande, non ero abituata a fare domande agli estranei, anche se erano amici di mamma e papà, perché mio nonno mi aveva insegnato a non fare domande.
Se i grandi vogliono dirti qualcosa te lo dicono anche se non glielo chiedi. Se non ti dicono niente è solo perché credono che sia meglio evitarlo, per non farti soffrire o per non metterti paura.
Ai miei genitori facevo tutte le domande che mi passavano per la testa, ma se loro mi dicevano di non potermi rispondere pensavo alla raccomandazione di mio nonno e me ne stavo tranquilla.
Restai in casa tutto il giorno. Mamma tornò all’ora di cena. Mi disse che papà era in ospedale perché era caduto e si era ferito a una gamba e fu proprio dopo quelle parole, pronunciate quando siamo rimaste sole, che mi abbracciò stretta stretta per nascondere la sua tristezza e il suo pianto. Da quell’abbraccio compresi che non mi aveva detto la verità. L’abbracciai forte forte anch’io, non le dissi come le altre volte: Mamma lasciami andare che mi stai soffocando. Piansi anch’io e le dissi con rabbia: Mamma dimmi la verità.
La mia intuizione era corretta. Avevo immediatamente pensato a quell’uomo che aveva minacciato papà perché voleva che ci trasferissimo in un altro quartiere. Papà non voleva trasferirsi in un altro quartiere, aveva il suo lavoro a due passi da casa e qui stava bene, conosceva tante persone, c’erano tanti neri come noi. Mamma sarebbe stata disposta a cambiare casa. Lei voleva andare in una casa più grande e più comoda, ma papà diceva che dalle altre parti gli affitti delle case erano più alti e noi non potevamo permettercelo. Qualche volta hanno anche litigato per questo e quando litigavano papà si alzava e usciva di casa. Mamma non diceva niente, però si metteva a piangere e se io la guardavo faceva finta di mettere a posto qualcosa. Io mi accorgevo che piangeva perché tirava su col naso e si asciugava le lacrime sulla manica o col grembiule e allora me ne stavo zitta zitta facendo anch’io finta di fare qualcosa. Forse mamma piangeva perché pensava che papà non sarebbe tornato a casa ed era preoccupata per questo. Senza papà e senza i nonni che erano tanto lontani come avremmo fatto a tirare avanti. Forse pensava a questo. Poi papà ritornava e mamma era contenta, non ricordava più di aver pianto. A me quando mamma piangeva perché papà era uscito di casa dopo un litigio veniva voglia di consolarla ricordandole che lui faceva sempre così, che dopo un po’ sarebbe ritornato, che non era il caso di piangere. Però non le dicevo niente perché ricordavo un altro insegnamento di mio nonno che ci ha insegnato tante cose a me e ai miei cuginetti. Mio nonno diceva che quando una donna piange bisogna lasciarla sfogare senza interromperla, se non si sfogasse il pianto trattenuto si sarebbe trasformato in veleno e l’avrebbe uccisa.
Io non piangerò mai quando sarà grande, farò come te che non ti ho mai visto piangere, gli dissi una volta.
Mio nonno rispose che piangono anche gli uomini, solo che piangono senza lacrime e per non essere avvelenati dalle lacrime trattenute fumano il tabacco o qualche altra sostanza o bevono fino a ubriacarsi perché l’alcol e il fumo neutralizzano il veleno.
Io credevo alle parole del nonno perché lui era un vecchio saggio che sapeva tante cose, e poi avevo constatato che papà si accendeva sempre una sigaretta quando usciva di casa dopo aver litigato con mamma.
Quando mamma confermò quello che avevo intuito non piansi. Avrei voluto fumare una sigaretta e andare per strada come faceva papà per sfogare la sua tristezza. Ero triste. Tanto più triste di prima perché a quella causata dall’aggressione a papà si aggiungeva una consapevolezza nuova che mi angosciava. Prima di allora avevo creduto che il mio papà fosse invincibile, che avrebbe protetto me e la mamma dalle cattiverie dei compagni di scuola e dell’altra gente che ci guardava di storto quando andavamo in giro e che qualche volta ci insultava dicendoci di tornarcene in Africa. Dopo quella notizia non riuscii più a pensare che papà fosse invincibile e ci avrebbe protette, desiderai di essere in Africa con papà e mamma, con i nonni e con i miei cuginetti per correre insieme a loro nelle grandi distese dove mi sarei divertita correndo a perdifiato dietro il cerchione di una vecchia bicicletta affrancata dalla paura di essere investita dalle automobili, per ascoltare i saggi consigli di mio nonno e le lunghe storie che ci raccontava seduti all’ombra di un albero frondoso.
Ancora Hassan ferito da due colpi di pistola, pensa alla sua bambina e al dolore della moglie.
Hassan
Intorno a me non c’era nessuno, il silenzio si era fatto irreale, poi un accorrere indistinto di voci. Non sentivo dolore, sentivo il fluire del sangue che svuotava il mio corpo, mi lasciava spossato, incapace di alzarmi, di darmi da fare. Il suono di una sirena in avvicinamento mi ha dato coraggio: Sono salvo, ho pensato, e quel riposante pensiero ha inibito la mia vigilanza sospingendo il mio stanco pensare verso luoghi remoti, lontano dal buio, opprimente recesso in cui il mio corpo era stato cacciato. Riverso sulla rada erba di una piccola aiuola, il braccio impigliato in un basso cespuglio, non riuscivo a vedere le stelle; la pallida luce di un vecchio lampione filtrava tra i rami degli alberi stenti che iniziarono a muoversi, a ruotare in un vortice lento… e fu l’ultima immagine sfocata di quel luogo di angoscia in cui sfiorirono le speranze di un futuro più chiaro. Mi sognai giovinetto che correvo veloce in una vasta distesa pianeggiante; correvo veloce inseguito da alcuni compagni con i quali simulavo un conflitto, come fanno i ragazzi, per gioco, per sentirsi più grandi. Nel pugno stringevo un lungo bastone appuntito, lo usavo per pungolare le capre al pascolo e con quello inscenavo duelli con i compagni di gioco, armati anche loro di altrettanti bastoni. Mi fermai assumendo una posa guerresca, gambe larghe e arma al piede, aspettando a piè fermo l’arrivo dei compagni-nemici. Ci schierammo in battaglia e armati dei lunghi bastoni iniziammo una danza rituale manovrando l’attrezzo a due mani, incrociando le aste, spingendole forte per atterrare il rivale. In quel turbinante roteare l’imperizia del mio concorrente, per scansare il mio assalto, m’inferse un gran colpo di punta sulla coscia sinistra.
Avvertii un dolore sordo, improvviso. Ero steso per terra ma non più circondato dai compagni di giochi, non c’era l’assolata distesa pianeggiante, né le pacifiche capre transumanti da un arbusto ad un altro in un ondivago andare senza meta o direzione prefissa. Mi circondava uno stuolo di facce sconosciute, di cui distinguevo a mala pena i contorni, piegate su di me.
Non fatemi male, implorai con un filo di voce, pensando che fossero ancora i miei assalitori.
Stia tranquillo, abbiam quasi finito, rispose una voce di donna, la portiamo in ospedale.
Mi girava la testa, il dolore alla gamba cresceva e fui assalito dal terrore che mi fosse stata strappata con forza un po’ sopra il ginocchio.
Stia tranquillo è in buone mani, disse ancora la voce di prima, mentre una mano delicata mi accarezzava i capelli, mi asciugava il sudore copioso che bagnava il mio viso, forse misto alle lacrime calde che in silenzio piangevo come fossi il ragazzo del sogno. Il sudore era freddo, lo asciugava la brezza che soffiava leggera, o forse quei brividi freddi che facevano battere i denti erano solo paura o la febbre e la debolezza causate dal sangue fuoriuscito abbondante dalle ferite.
Chiusi gli occhi, li strinsi per scacciare il dolore, strinsi i pugni e quei moti vitali mi restituirono chiaro uno scorcio di vita che gli eventi e il dolore avevano fino ad allora velato.
Che ne sarà di mia figlia – pensai – e di mia moglie lasciate in balia di chi le disprezza, prive di sostentamento. Sarò un povero storpio incapace di badare a me stesso, un peso per loro e per me. Mi assalì un moto feroce di rabbia, gridai con tutta la voce che la mia debolezza crescente concesse. Non fu un grido straziante, fu tale per me; i soccorritori non ci fecero caso, pensarono che fosse un lamento dovuto a una fitta più acuta per il movimento che mi avevano impresso spostandomi sulla barella.
Mia figlia non ha ancora dieci anni, vorrei che vivesse il suo tempo con spensieratezza, giocasse con le bambole bionde e le nere, corresse insieme ad altri bambini di tutti i colori che vederli insieme è come un bel quadro dipinto da un allegro pittore che ha voluto far sorridere il mondo. Non sempre sorride. Qualche volta rimane in silenzio, si vede che soffre e riascolta le parole cattive scagliatele contro con maldestra incoscienza dai suoi stessi compagni di giochi.
Papà vorrei essere bianca – disse un giorno che sembrava un po’ triste – voglio essere bianca e pulita come gli altri bambini.
Mi lasciò senza fiato. I contorni delle povere cose che ci circondavano si sfrangiarono in forme incoerenti, il suo volto svanì dietro un velo di nebbia e fui solo capace di accarezzarle i crespi capelli africani con la stessa dolcezza che sentivo sui miei. Non ricordo se l’abbracciai. Sì forse abbracciai, senza dire parole, quel suo corpo minuto di bambina infelice e nel caldo abbracciarsi non so se si sciolse quel grumo di dolore rappreso, se il suo pianto convulso lo espulse con le lacrime calde e copiose che le solcarono il viso disegnando una lucida scia luccicante alla debole luce incolore della lampadina. Piangeva anche sua madre affaccendata ai fornelli. Fu scossa da un tremore spastico, non si accorse di pianti ed abbracci, rimase aggrappata ai fornelli, per sfogarsi spostava il suo corpo ora a destra ora a manca simulando attenzioni ed impegni che non adempiva. Vedevo sfrangiata anche lei, un disegno cubista smembrato in riquadri scomposti, spostarsi al rallentatore in dissolvenze incrociate, fino a quando una frase innocente, sfuggita al suo pianto silente non ci spinse a guardarci e a sorridere piano, poi con sempre maggiore vigore per scacciare l’angoscia opprimente che gelava la stanza e l’umore.
Il nero è più elegante e più bello, disse mamma col pianto nel cuore.
In quelle parole di rabbia rappresa, contenuta con sforzo, gli oggetti si ricomposero nella forma consueta, si diradò la nebbia che li avvolgeva e il mondo occhieggiante fuori dalla finestra mi apparve di nuovo amichevole: le luci dei lampioni si rincorrevano briose per strade e viali giocando a rimpiattino con gli alberi che le schermavano, la luna giocava a rimpiattino con le nuvole, il vento burlone cullando le nuvole in cielo componeva e ricomponeva le immagini buffe che fanno sorridere i bambini.
Guarda quella nuvola in cielo, sembra un grande ippopotamo, dissi a mia figlia.
Lei sorridendo, asciugando una lacrima che ancora indugiava sul viso rinfrancato:
Non è un ippopotamo – disse – è un rinoceronte. Non vedi che ha un corno sul muso?
Aveva ragione, come spesso ce l’hanno i bimbi quando guardano in cielo, e arruffandole i crespi capelli africani le dissi: Hai ragione, è un rinoceronte ed è nero.
Per favore, informate mia moglie, dissi ancora con le deboli forze residue che mi sorreggevano.
Le guardavo la schiena mentre lei se ne stava aggrappata ai fornelli soffocando i pensieri bianchissimi che la torturavano. Era stata contenta di raggiungermi nella terra promessa. Era giovane e bella quando mi venne incontro all’aeroporto con la bimba tenuta per mano, il vestito dai colori vivaci, col suo incedere lento e sicuro come sulla passerella di un défilé, esposta agli sguardi ammirati e curiosi dei viaggiatori frettolosi che alla vista dell’esotica bellezza rallentavano il passo. È bella anche adesso dopo quasi cinque anni di stenti e fatiche nella terra promessa, ma il suo limpido sguardo di allora è offuscato dalla perdita delle illusioni causata dai tanti soprusi, dalle offese, dagli sguardi arroganti cresciuti in questi cinque anni come una pianta infestante, refrattaria a ogni contromisura, che si radica proterva e sfacciata dove c’erano piante gentili sopraffatte ed arrese al suo inarrestabile passo.
Le guardavo la schiena mentre lei se ne stava aggrappata ai fornelli. Quando le fui vicino e da dietro la strinsi in silenzio baciandole il collo orgoglioso non voltò il viso sofferente per guardarmi negli occhi, per specchiarsi nei miei e cercare conferme a domande inespresse alle quali da tempo cercava risposte. L’avevo intravista più volte, più spesso negli ultimi tempi, fuggire il mio sguardo quando attratto da una forza magnetica che mi richiamava la cercavo e cercavo i suoi occhi. Fuggiva lo sguardo ed il viso che aveva fissato cercando che cosa? Non avevo capito che cosa volesse sapere, credevo misurasse in silenzio il peso delle difficoltà che gravavano la nostra esistenza, ed invece voleva soltanto proporre la convinzione maturata nel segreto delle sue riflessioni notturne che le toglievano il sonno: Andiamocene via, Hassan – disse senza guardarmi – non sopporto più questo strazio.
Quando mi risvegliai in ospedale intontito dai postumi dell’operazione alla gamba, la stessa frase gliela lessi negli occhi e ne sentii il suono, lo stesso tono sofferto di quella prima volta.
Hassan
Avvertii un dolore sordo, improvviso. Ero steso per terra ma non più circondato dai compagni di giochi, non c’era l’assolata distesa pianeggiante, né le pacifiche capre transumanti da un arbusto ad un altro in un ondivago andare senza meta o direzione prefissa. Mi circondava uno stuolo di facce sconosciute, di cui distinguevo a mala pena i contorni, piegate su di me.
Non fatemi male, implorai con un filo di voce, pensando che fossero ancora i miei assalitori.
Stia tranquillo, abbiam quasi finito, rispose una voce di donna, la portiamo in ospedale.
Mi girava la testa, il dolore alla gamba cresceva e fui assalito dal terrore che mi fosse stata strappata con forza un po’ sopra il ginocchio.
Stia tranquillo è in buone mani, disse ancora la voce di prima, mentre una mano delicata mi accarezzava i capelli, mi asciugava il sudore copioso che bagnava il mio viso, forse misto alle lacrime calde che in silenzio piangevo come fossi il ragazzo del sogno. Il sudore era freddo, lo asciugava la brezza che soffiava leggera, o forse quei brividi freddi che facevano battere i denti erano solo paura o la febbre e la debolezza causate dal sangue fuoriuscito abbondante dalle ferite.
Chiusi gli occhi, li strinsi per scacciare il dolore, strinsi i pugni e quei moti vitali mi restituirono chiaro uno scorcio di vita che gli eventi e il dolore avevano fino ad allora velato.
Che ne sarà di mia figlia – pensai – e di mia moglie lasciate in balia di chi le disprezza, prive di sostentamento. Sarò un povero storpio incapace di badare a me stesso, un peso per loro e per me. Mi assalì un moto feroce di rabbia, gridai con tutta la voce che la mia debolezza crescente concesse. Non fu un grido straziante, fu tale per me; i soccorritori non ci fecero caso, pensarono che fosse un lamento dovuto a una fitta più acuta per il movimento che mi avevano impresso spostandomi sulla barella.
Mia figlia non ha ancora dieci anni, vorrei che vivesse il suo tempo con spensieratezza, giocasse con le bambole bionde e le nere, corresse insieme ad altri bambini di tutti i colori che vederli insieme è come un bel quadro dipinto da un allegro pittore che ha voluto far sorridere il mondo. Non sempre sorride. Qualche volta rimane in silenzio, si vede che soffre e riascolta le parole cattive scagliatele contro con maldestra incoscienza dai suoi stessi compagni di giochi.
Papà vorrei essere bianca – disse un giorno che sembrava un po’ triste – voglio essere bianca e pulita come gli altri bambini.
Mi lasciò senza fiato. I contorni delle povere cose che ci circondavano si sfrangiarono in forme incoerenti, il suo volto svanì dietro un velo di nebbia e fui solo capace di accarezzarle i crespi capelli africani con la stessa dolcezza che sentivo sui miei. Non ricordo se l’abbracciai. Sì forse abbracciai, senza dire parole, quel suo corpo minuto di bambina infelice e nel caldo abbracciarsi non so se si sciolse quel grumo di dolore rappreso, se il suo pianto convulso lo espulse con le lacrime calde e copiose che le solcarono il viso disegnando una lucida scia luccicante alla debole luce incolore della lampadina. Piangeva anche sua madre affaccendata ai fornelli. Fu scossa da un tremore spastico, non si accorse di pianti ed abbracci, rimase aggrappata ai fornelli, per sfogarsi spostava il suo corpo ora a destra ora a manca simulando attenzioni ed impegni che non adempiva. Vedevo sfrangiata anche lei, un disegno cubista smembrato in riquadri scomposti, spostarsi al rallentatore in dissolvenze incrociate, fino a quando una frase innocente, sfuggita al suo pianto silente non ci spinse a guardarci e a sorridere piano, poi con sempre maggiore vigore per scacciare l’angoscia opprimente che gelava la stanza e l’umore.
Il nero è più elegante e più bello, disse mamma col pianto nel cuore.
In quelle parole di rabbia rappresa, contenuta con sforzo, gli oggetti si ricomposero nella forma consueta, si diradò la nebbia che li avvolgeva e il mondo occhieggiante fuori dalla finestra mi apparve di nuovo amichevole: le luci dei lampioni si rincorrevano briose per strade e viali giocando a rimpiattino con gli alberi che le schermavano, la luna giocava a rimpiattino con le nuvole, il vento burlone cullando le nuvole in cielo componeva e ricomponeva le immagini buffe che fanno sorridere i bambini.
Guarda quella nuvola in cielo, sembra un grande ippopotamo, dissi a mia figlia.
Lei sorridendo, asciugando una lacrima che ancora indugiava sul viso rinfrancato:
Non è un ippopotamo – disse – è un rinoceronte. Non vedi che ha un corno sul muso?
Aveva ragione, come spesso ce l’hanno i bimbi quando guardano in cielo, e arruffandole i crespi capelli africani le dissi: Hai ragione, è un rinoceronte ed è nero.
Per favore, informate mia moglie, dissi ancora con le deboli forze residue che mi sorreggevano.
Le guardavo la schiena mentre lei se ne stava aggrappata ai fornelli soffocando i pensieri bianchissimi che la torturavano. Era stata contenta di raggiungermi nella terra promessa. Era giovane e bella quando mi venne incontro all’aeroporto con la bimba tenuta per mano, il vestito dai colori vivaci, col suo incedere lento e sicuro come sulla passerella di un défilé, esposta agli sguardi ammirati e curiosi dei viaggiatori frettolosi che alla vista dell’esotica bellezza rallentavano il passo. È bella anche adesso dopo quasi cinque anni di stenti e fatiche nella terra promessa, ma il suo limpido sguardo di allora è offuscato dalla perdita delle illusioni causata dai tanti soprusi, dalle offese, dagli sguardi arroganti cresciuti in questi cinque anni come una pianta infestante, refrattaria a ogni contromisura, che si radica proterva e sfacciata dove c’erano piante gentili sopraffatte ed arrese al suo inarrestabile passo.
Le guardavo la schiena mentre lei se ne stava aggrappata ai fornelli. Quando le fui vicino e da dietro la strinsi in silenzio baciandole il collo orgoglioso non voltò il viso sofferente per guardarmi negli occhi, per specchiarsi nei miei e cercare conferme a domande inespresse alle quali da tempo cercava risposte. L’avevo intravista più volte, più spesso negli ultimi tempi, fuggire il mio sguardo quando attratto da una forza magnetica che mi richiamava la cercavo e cercavo i suoi occhi. Fuggiva lo sguardo ed il viso che aveva fissato cercando che cosa? Non avevo capito che cosa volesse sapere, credevo misurasse in silenzio il peso delle difficoltà che gravavano la nostra esistenza, ed invece voleva soltanto proporre la convinzione maturata nel segreto delle sue riflessioni notturne che le toglievano il sonno: Andiamocene via, Hassan – disse senza guardarmi – non sopporto più questo strazio.
Quando mi risvegliai in ospedale intontito dai postumi dell’operazione alla gamba, la stessa frase gliela lessi negli occhi e ne sentii il suono, lo stesso tono sofferto di quella prima volta.
Hassan, lo spacciatore che aveva avuto un alterco con il padre di Adelfo, è minacciato dal giovane.
Hassan
Il cane randagio morde sempre il viandante lacero e lo tormenta con i denti aguzzi fino a lacerargli le carni oltre ai poveri stracci che si porta addosso. Lui cerca di scacciarlo col bastone che sostiene il suo incerto cammino e quello gli gira intorno e azzanna il bastone e ringhia forte, mostra i denti e le gengive assumono un’espressione diabolica, gli occhi di brace lo guardano fisso, sembrano odiarlo per chissà quali precedenti brutalità consumate nei suoi confronti. Ma lui non lo conosce quel cane, non lo ha mai visto e non lo ha mai maltrattato, perché non è un tipo che maltratta gli animali. Crede che ogni essere vivente abbia diritto al suo posto nel mondo, abbia la sua funzione scritta nel libro della vita e lui crede alla vita e la onora.
Per onorare la vita ho attraversato il deserto infuocato, ho navigato il mare infido e agitato, sono approdato sulla terra promessa dove scorrono fiumi di latte e di miele, dove crescono alberi carichi di frutti dorati e ciminiere fumanti come sigari accesi. Non ho assaggiato né il latte né il miele, ho ricevuto un piatto di minestra mentre mi dicevano: Non c’è posto per te su questa terra, devi andare più in là, qui non c’è lavoro. Il lavoro sta sempre da un’altra parte, te lo devi andare a cercare sempre da un’altra parte. Ho fatto su e giù per andare a cercarlo, ho raccolto i frutti dorati degli alberi e dopo qualche settimana ero di nuovo per strada. Ti dobbiamo mandare via, mi dicevano, il lavoro adesso sta da un’altra parte e io mi mettevo per strada e andavo a cercarlo. Ho imparato che il lavoro sta sempre da un’altra parte e te lo devi andare a cercare e appena lo hai trovato non c’è già più, devi raccogliere i tuoi quattro stracci e andare da un’altra parte perché lì dov’eri non ti puoi più fermare perché non ti vogliono più. Sono entrato anche nelle fabbriche, all’ombra delle ciminiere fumanti, due giorni di lavoro e poi a casa; dopo una settimana un altro giorno e di nuovo a casa. Li chiamano lavori interinali, che poi significa che lavori quando servi e quando non lavori devi sparire. A un certo punto ho deciso. Mi sono detto: Non mi sposto più, sto qui e se il lavoro non c’è rimango lo stesso e se non mi vogliono resto lo stesso, anche se poi mi sparano addosso.
Anche il vecchio che mi ha ripreso per quell’infausta pisciata vuole che vada da un’altra parte. E pure suo figlio che è venuto a parlarmi qualche giorno dopo l’alterco con il padre.
Ero seduto su una panchina nel giardino di fronte a casa sua, le mie solite lunghe attese che qualcuno venisse a cercarmi per un po’ di fumo. Era di sera, ma non c’era ancora il via vai degli acquirenti; la strada e il giardinetto erano ancora deserti. Ero assorto nei pensieri tristi che accompagnano ininterrottamente i miei giorni e le notti. Gli unici momenti sgombri dai pensieri tristi sono quelli che passo con mia figlia, il resto sono tristezza e preoccupazioni. La mia vita è colorata di nero e al buio dei giardinetti mi mimetizzavo per garantire la vita di mia figlia.
Il primo che venne a cercarmi era un giovane sui trent’anni, bella presenza, non molto alto, vestiti casual, come si usa dire adesso quando non si ha la giacca e la cravatta, un’aria di finta indifferenza sul volto in contrasto col fare circospetto che lo agitava. Non mi sembrava a suo agio. Pensavo che volesse comprare un po’ di roba, che non fosse un habitué del mercato di strada e non sapesse come comportarsi. Non voleva farsi notare, questo era evidente. Come spesso accade in situazioni di quel tipo, fui io a prendere l’iniziativa. Senza mezzi termini, che non era proprio il caso di inscenare finzioni o pantomime, gli elencai le merci disponibili:
T’interessa dell’hashish, pasticche di ecstasy, marijuana? Una bustina di neve?
Il giovane visitatore si avvicinò come se fosse interessato. Quando mi fu di fronte, disse: Devo parlarti di quello che è successo l’altro giorno con mio padre.
Capii immediatamente chi era e che cosa cercava. Mi preparai a reggere l’urto delle sue rimostranze. Dissi: Non è successo niente, solo uno scambio di vedute un po’ alterato.
Continuò con un tono conciliante: Vedi, mio padre è una persona anziana e non pensa che non sia successo niente. Al contrario è rimasto scosso dal tuo comportamento.
Risposi anch’io in modo conciliante: Mi dispiace di aver reagito alle accuse di tuo padre, avrei dovuto controllarmi. Però le sue parole sono state pesanti, mi hanno offeso come persona e come africano.
Fece un gesto con la mano come per minimizzare e disse: Se ti dispiace allora non avrai difficoltà a fare le tue scuse a mio padre. Lui se le aspetta.
Mi era sembrato un giovane ragionevole che cercava di dare una piccola soddisfazione all’anziano padre per tranquillizzarlo. Non ebbi alcuna difficoltà ad assecondarlo pronunciando sincere parole di conciliazione.
Dissi: Ne sarei davvero sollevato se me ne fosse data l’occasione. Per noi africani gli anziani sono importanti e vanno venerati, mi dispiace davvero di aver trasgredito questo comandamento.
Dopo quel primo scambio di battute pensavo davvero che fossero state poste le basi della riconciliazione e mi apprestavo a intavolare un discorso di amicizia che comunicasse al mio interlocutore un’immagine positiva di me. Perché io non sono per vocazione uno spacciatore, sono alla costante ricerca di un’opportunità di lavoro regolare e onesto; se spaccio, rischiando di finire in prigione, è solo perché non mi sono date altre possibilità. Questo avrei voluto dirgli se non mi avesse preceduto avanzando un’altra richiesta per conto di suo padre, una richiesta che soffocava sul nascere il mio desiderio di comprensione e di amicizia. Il giovane ragionevole disse: A mio padre, però, non sono sufficienti le scuse, anche se sono sincere e sentite. Mio padre per metterci una pietra sopra esige che tu vada a spacciare da un’altra parte, fuori dal nostro quartiere. Non ti dà alternative.
Risposi ancora con tutta la calma di cui ero capace.
Dissi: È una richiesta crudele e inutile che non guarda in faccia la realtà. Se io assecondassi la tua richiesta per voi non cambierebbe nulla. Via io, il mio posto verrebbe occupato da un altro. Qui quelli che controllano il mercato tollerano la mia presenza perché è una piazza poco redditizia, da un’altra parte non mi farebbero stare. Per me la tua pretesa è come una condanna a morte.
Il giovane che sembrava ragionevole non era poi tanto ragionevole. Alle mie parole non diede alcuna importanza, forse non le ascoltò. Rispose con sufficienza, senza un briciolo di umanità.
Disse: A me non interessa quello che farai, né dove andrai. Devi sloggiare da qui, questo è tutto. Per me puoi anche ritornartene in Africa e provare a spacciare lì.
Cos’altro avrei potuto dire per farlo desistere dal suo proposito? Non avevo più parole di pace da dire, né potevo accettare il suo diktat. Non potevo perché non c’erano alternative praticabili. Che fare? Mi feci forza e per cercare di rabbonirlo tentai un bluff.
Dissi: Non credo che i miei fornitori sarebbero contenti. Loro non tollerano interferenze e, come probabilmente saprai, sono disposti a tutto…
Lasciai la frase volontariamente sospesa per darle un tono credibile, per indurlo a credere che dietro di me c’era chi mi proteggeva e che quel qualcuno era più forte di lui e di suo padre.
Non credo che la mia allusione produsse qualche effetto sul giovane non più comprensivo. Se lo produsse non lo diede a vedere. Rispose con disinvoltura: A me non interessa chi ti protegge. La situazione sta cambiando e per voi si preparano tempi difficili.
Probabilmente si riferiva alla serpeggiante protesta organizzata dal comitato contro i rifugiati ospitati nel quartiere. Ignorai la minaccia e continuai anch’io con disinvoltura: Se vuoi andare allo scontro rischi di romperti la testa…
Era soltanto una frase di circostanza, un’ovvietà, per insinuargli il dubbio, per fiaccare la sua sicurezza. Fui involontario profeta di sventura, di una sventura di cui fummo vittime ambedue. Il giovane irragionevole non si preoccupò delle mie parole. Chiuso nella sua irragionevolezza tornò a minacciami pronunciando una sentenza definitiva.
Disse, con tono perentorio e un po’ alterato: Adesso basta! Con te non perdo altro tempo. Se nei prossimi giorni ti vedrò ancora qui avrai quello che ti meriti.E se ne andò, lasciandomi con le mie incertezze. I pensieri che prima del suo arrivo avevano accompagnato la mia solitudine ritornarono imperiosi, più foschi e gravi, aggravati da quelle insensate minacce che non sapevo come affrontare.
Hassan
19 aprile 2021 Quarto episodio
L’assemblea del quartiere indetta per riflettere sul progetto di accoglienza dei rifugiati nella palazzina liberty è interrotta da un manipolo di uomini mascherati. Ne riferisce allibito il parroco.
Il parroco
Il corteo contro l’accoglienza dei rifugiati aveva sollevato un clamore assordante. Nel quartiere non si parlava d’altro, mentre si criticava anche il ruolo della Chiesa, nella persona del nostro Vescovo che in diverse occasioni si era espresso a favore dell’impegno delle parrocchie nell’assistenza materiale ai rifugiati.
Cercammo di correre ai ripari. Con l’accordo dello stesso Ve-scovo e in collaborazione con le associazioni di volontariato impegnate nel sociale fu organizzata un’assemblea a cui furono invitati tutti gli abitanti del quartiere.
Gesummaria, chi avrebbe mai immaginato quello che è successo?
Alla presenza del Vescovo, poi. Stento a crederci ancora adesso, dopo tanto tempo.
Si arrivò al fatidico venerdì dell’assemblea convocata nel salone parrocchiale in un clima di consapevole fiducia e di speranza. La partecipazione dei cittadini superò ogni più rosea aspettativa, ma forse, a pensarci con il senno di poi, non era un buon segnale. Quando arrivò il Vescovo nella sala si fece un silenzio rispettoso che mi aprì il cuore. Se questa è l’accoglienza, pensai, vuol dire che c’è disponibilità all’ascolto, voglia di sapere e di comprendere. Invece mi sbagliavo di grosso. C’era tensione, questo sì, credevo fosse una tensione positiva, volta a costruire ponti, non immaginavo – ahi quanto sono lontano dalla verità, Signore, com’è difficile da penetrare l’animo umano quando nei cuori non alberga l’amore né la comprensione dell’altro – no, non lo immaginavo davvero che quella tensione prefigurasse la volontà di erigere muri, di scavare fossati per isolare e dividere, per disconoscersi e non per conoscersi.
L’intervento del Vescovo partì proprio da questo punto per invitare tutti i presenti alla riflessione:
L’iniziativa di accoglienza gestita dall’associazione SOS-Rifugiati, in collaborazione con la nostra diocesi e altri enti umanitari che operano sul territorio, intende promuovere i principi dell’accoglienza e dell’integrazione sociale in favore dei richiedenti protezione internazionale. I principi dell’accoglienza non possono limitarsi ad offrire cibo e alloggio ma devono tradursi in azioni volte alla riconquista della dignità e dell’autonomia personale, grazie a un’azione “integrata e formativa”, resa possibile dalla collaborazione con la comunità locale, gli Enti e i Servizi preposti.
Non aveva ancora terminato di esporre l’incipit del proprio pensiero che una voce si alzò dal pubblico gridando con veemenza:
Qui si è tramato alle spalle del nostro quartiere. Perché l’operazione non è stata fatta alla luce del sole? Perché ne siamo venuti a conoscenza solo a cose fatte? Quali interessi economici si celano dietro questa sordida operazione?
L’interruzione fu accompagnata da un coro crescente e rumo-roso di consensi che impedirono per un buon tratto di continuare l’esposizione introduttiva. Quando si acquietò la buriana, il Vescovo, disorientato dall’impulsiva e irragionevole interruzione, riprese il filo del discorso lasciandosi trascinare nella polemica. Disse: Conosco bene la SOS-Rifugiati che gestisce il progetto di accoglienza. È un’associazione di promo-zione sociale, senza fini di lucro, che ha garantito l’impiego di tutte le risorse a favore dei migranti, senza alcun guadagno per l’associazione o per altri.
A quel punto ritenne ragionevole chiamare in causa lo stesso presidente della SOS-Rifugiati per esporne le linee di condotta. Fu interrotto sgarbatamente anche lui. Da un consistente settore della platea si alzò all’unisono un coro che gridava ritmicamente: Non li vogliamo, i negri non li vogliamo, evidenziando brutalmente una palese indisponibilità al dialogo, una palese volontà di sopraffazione che se ne fregava del confronto pacato e ragionato, che non voleva essere contraddetta.
Timidamente, a quel punto, forse spinta dalla visibile sofferenza del Vescovo, una voce fuori dal coro dei contrari, quella di una giovane mamma, provò a chiedere:
Dove li mettiamo, allora, i valori cristiani che insegniamo ai nostri figli? Come possiamo aver paura dei migranti?
La risposta di buona parte del pubblico fu di nuovo volgare e insolente: Portali tutti a casa tua, dissero in coro, e molti accompagnarono quella frase sprezzante con una risata irriverente.
Quando il Vescovo riprese la parola fu quasi conclusivo sia nel tono sfiduciato sia nel messaggio.
Mi dispiace tanto che la pensiate così. – disse il Vescovo visibilmente provato e amareggiato – Io credo, come ci suggerisce la signora che ha appena parlato, che di fronte a problemi come quello di cui stiamo discutendo sia importante e necessario porsi in modo evangelico. Io, come ci ha insegnato Gesù, considero ogni uomo mio fratello, altrimenti non sarei qui…
A quel punto si manifestò l’impensabile. All’interno del salone si materializzò dal niente, senza alcun preavviso, senza darci la possibilità d’interrogarci e di comprendere, un gruppo mascherato. Cosa ci faceva un gruppo mascherato in quel contesto? Una goliardata, anche se fuori luogo, ci poteva stare se fosse stato carnevale, ma non lo era, eravamo in Quaresima. Ci guardammo sorpresi, stupiti da quella apparizione incongruente. Sulla sala scese un silenzio preoccupato, un interrogativo angoscioso era visibilmente dipinto sulle facce di tutti i presenti. E adesso cosa succederà, sembravano dire quelle facce sorprese, mentre l’iniziale turbamento tendeva a trasformarsi in paura. Di cosa dovevamo aver paura? – pensai – mentre gli uomini mascherati, una ventina all’incirca, come soldati di un commando addestrato ed efficiente, si disponevano ai lati della sala, ne controllavano gli ingressi ed imponevano a tutti i presenti di restare ai propri posti, mentre quello che sembrava il capo si portò vicino al tavolo degli oratori e si dispose a parlare tirando fuori dalla tasca alcuni fogli dattiloscritti.
Un altro particolare dell’improvvisato carnevale fuori stagione mi colpì e mi interrogò senza riuscire a darmi una risposta. Tutti gli uomini mascherati indossavano la stessa maschera raffigurante la faccia di un personaggio familiare, poteva sembrare la faccia di Buffalo Bill, ma non era la faccia di Buffalo Bill, aveva qualcosa di diverso. Dell’enigma si riuscì a venirne a capo il giorno dopo. Scoprimmo che la maschera rappresentava le fattezze terrene del generale Nathan B. Forrest, comandante di un battaglione di cavalleria confederato durante la guerra di secessione americana e primo grand wizard (cioè il capo supremo) del Ku Klux Klan alla sua fondazione nel 1867. Scoprirlo fu raccapricciante. Ecco di cosa dovevamo avere paura. Era stata una rappresentazione lampante di un’idea aberrante. Non ci sarebbe stato bisogno di nient’altro per capire il messaggio, ma fummo costretti ad assistere all’intera rappresentazione. Assistemmo in silenzio, ammutoliti dalla sorpresa, storditi dalla vista e dall’udito, sottoposti a sollecitazioni insopportabili.
Mi accorgo di parlare per tutti i presenti, mentre, nei fatti, fu soltanto una piccola parte dei presenti a condividere il mio stato d’animo. Gli altri, la maggioranza, dopo i primi momenti di smarrimento, quando si resero conto che la rappresentazione mascherata sosteneva la loro posizione oltranzista, si rilassarono e al termine dell’orazione del capomaschera ne approvarono il messaggio con applausi e rumorosi commenti entusiastici.
Quando, imposto il silenzio, prima che il capomaschera iniziasse a profferire il suo farneticante proclama, le altre maschere srotolarono striscioni, alzarono vessilli e scandirono slogan inequivocabili che atterrirono solo una parte dell’uditorio. Subito dopo l’oratore mascherato iniziò a par-lare. Potrei riferire per filo e per segno il contenuto di quei fogli. Non che mi fosse rimasto impresso nella memoria, tutt’altro, la mia mente lo rifiutava nel momento stesso in cui lo ascoltavo. Potrei riferirvene perché al termine della rappresentazione, quando gli attori abbandonarono la sala, seguiti subito dopo dai rappresentanti del CAR e da tutti, o quasi, gli spettatori che ne avevano condiviso il proclama, i fogli, con un gesto arrogante di degnazione, erano stati abbandonati sul tavolo degli oratori e lì rimasero fino a quando, al termine della serata, sgomberata la sala, li ritrovai e non fu possibile ignorarli oltre. Il loro contenuto, in ogni caso, non ho animo di riferirlo, mi offende troppo e troppo offenderebbe anche chi, condividendo il pensiero evangelico del Vescovo, avesse la ventura di ascoltarlo.
Il video dell’intera rappresentazione fu postato dagli stessi simpatizzanti del KKK su facebook e su youtube, subito commentato, così mi fu riferito, da centinaia di follower aggressivi, volgari, entusiasti. I pochi coraggiosi che osarono andare contro corrente furono sommersi da una valanga di contumelie, da un linguaggio tendenzialmente coprolalico finalizzato a sminuirne la virilità se maschi, se femmine a disprezzarne la femminilità e i costumi sessuali.
12 aprile 2021 Terzo episodio
La fidanzata parla del rapporto con Adelfo e del perché lo ha lasciato.
Adelfo ripensa a Giulia con nostalgia e senso di colpa.
La fidanzata
Ho incontrato la madre di Adelfo. Non ero sicura di volerle parlare, ero combattuta tra un sentimento di di solidarietà per la tragedia di quel figlio sbagliato e un moto di rabbia nei suoi confronti, proprio nei suoi confronti che lo ha cresciuto e non ha saputo indirizzarlo e seguirlo su un sentiero di responsabilità. E anche verso sua figlia, la protettrice diseducante che avrebbe avuto, più della madre, la possibilità di incidere sul carattere del fratello. Mi ha chiamata dall’altro lato della strada: Ciao Giulia – mi ha detto – se vai nella mia direzione ti accompagno, poi mi ha baciata sulle guance come era solita fare tutte le volte che ci si vedeva.
Non sapevo cosa rispondere e ho finito per dirle: Ho saputo della vicenda di Adelfo…
Ho ricambiato il suo abbraccio mentre mi ripetevo quella frase detta senza pensarci. Non avrei voluto introdurre quel discorso, né avrei voluto ascoltare le giustificazioni e le recriminazioni di una madre addolorata e certamente risentita nei miei confronti. Mi diedi dell’imbecille e attesi mentre ci incamminavamo verso la fermata dell’autobus che l’avrebbe portata in centro.
L’ha combinata proprio grossa. – disse dopo qualche istante di silenzio – Ma lui è sempre stato così, è un impulsivo e uno sconsiderato, non pensa alle conseguenze delle sue azioni, agisce e poi si pente, anche se non vuol darlo a vedere con quell’aria da impenitente che lo fa sembrare deciso e sicuro di sé. In realtà è insicuro e indeciso, tutto il contrario di quello che sembra, probabilmente lo hai capito anche tu. Ti capisco, Giulia; se lo hai lasciato avrai avuto le tue buone ragioni, non voglio colpevolizzarti. Una cosa però ci tengo a dirtela: Adelfo ha giurato e spergiurato di non essere coinvolto in quella rissa, e io gli credo…
L’ascoltavo in silenzio, non sapevo cosa rispondere e me ne uscii con un’altra frase imperdonabile:
Se c’è qualcosa che posso fare per lui…
Dopo qualche centinaio di metri e un po’ di parole che mi scaricarono addosso tutto il dolore e la tristezza di quella madre per la compromessa condizione del figlio sbagliato che avrebbe voluto diverso, che aveva sperato che io cambiassi con la mia presenza e il mio esempio, ci salutammo.
Nel silenzio della mia solitudine mi ritornò alla memoria l’ultima frase pronunciata: Se c’è qualcosa che posso fare per lui…
Cosa potevo fare per Adelfo che non avessi già tentato di fare? Gli avevo voluto bene, all’inizio del nostro rapporto mi ero presa bene, mi piaceva la sua gentilezza e la timidezza nell’affrontare il rapporto amoroso. Sua madre aveva ragione, dietro la facciata dell’uomo sicuro e deciso si nasconde un ragazzo insicuro, desideroso di comprensione e di affetto. Avevo cercato di capirlo, avevo cercato di allontanarlo dalle sue frequentazioni abituali chiuse in un limitato orizzonte di maschi molesti e arroganti uniti da una passione malsana per il calcio, esaltato come scontro violento tra tifoserie, sublimato come unica fede. C’era dell’altro in quel culto della violenza e dello scontro, un qualcosa di non detto, tenuto sotto traccia, che mi faceva ancora più paura, che andava oltre il gioco del calcio, oltre la loro stessa comprensione, qualcosa che a loro poteva sembrare un corollario simbolico della fede primaria. Che tuttavia emergeva nei segni esteriori della loro passione: nei tatuaggi, nei cori cantati allo stadio, nei simboli sulle bandiere. Adelfo in quell’ambiente circolare si comportava come un avventizio, una presenza occasionale e precaria, restia a lasciarsi intrappolare nella logica dell’identificazione totalizzante. Lo frequentava soprattutto per amicizia con alcuni compagni d’infanzia, tipi del quartiere che conosceva da sempre, con i quali aveva trascorso il suo tempo nel campetto dell’oratorio, sulle panchine dei giardinetti sotto casa, nelle scorribande esaltate lungo le strade del quartiere, in quella nostra periferia dimenticata e abbrutita dal progressivo, inarrestabile degrado urbano e sociale che l’affliggeva e la rinsecchiva come un cancro mordace. Conosceva anche me fin dai tempi della scuola, lui più grande di due anni, ambedue, come tutti, figli della precarietà e del bisogno, stretti tra le evidenze della nostra condizione e le suggestioni di un mondo opulento, vicino ma inarrivabile e per questo ancora più ostile e desiderato.
A differenza di Adelfo io ero stata fortunata, mi ero sottratta alla fatalistica condizione di vittima senza scampo che affliggeva la nostra generazione. Era stato un cammino difficile, insieme ad altri, stretti intorno a un’associazione di volontariato. C’impegnavamo a combattere il clima di rassegnazione e di sfiducia dominante, per favorire la rinascita del nostro quartiere e darci, a noi tutti che lì volevamo vivere, una speranza e un’occasione di riscatto, perché lì affondavano le radici della nostra storia comune che non volevamo disperdere.
Lo avevo lasciato, infine. Avevo deciso di interrompere quel rapporto faticoso, precario, inconcludente, vinta dalla refrattarietà di Adelfo a qualsiasi sollecitazione che lo smuovesse dalla sua apatia. Avevo tergiversato a lungo, lo avevo minacciato più volte ed ogni volta avevo ceduto alle sue promesse, alle sue inespresse invocazioni di aiuto. Non erano le sue promesse a indurmi a desistere, quanto una sorta di implicazione morale: mi sembrava di abbandonare un naufrago alla deriva, nel turbinio dei marosi della vita; non lo avrei sopportato. Mi decisi quando non udii più le mute invocazioni di aiuto, sostituite da un vociare arrogante, non muto, reale e insistente, che richiedeva di abbandonare ai feroci flutti di un mediterraneo non immaginario i migranti che chiedevano asilo nella nostra terra, nel nostro quartiere, nella palazzina abbandonata all’oblio della rassegnazione. Adelfo, quando si diffuse la voce che un gruppo di venti migranti sarebbe stato ospitato nel quartiere, inopinatamente decise di uscire dal suo letargo, ma vi uscì dalla porta sbagliata. Fu tra i promotori del Comitato Anti Rifugiati (CAR) che ha sollecitato e animato la protesta nel quartiere e forse anche promosso l’attentato alla palazzina. Non l’ho lasciato per la sua scelta, o forse sì, anche per quello, perché non avrei più sopportato di averlo al mio fianco, perché per lui non avrei potuto fare più niente e forse nessuno, a quel punto, avrebbe potuto aiutarlo. L’ho lasciato perché non lo amavo più e nelle more della mia incertezza mi aveva costretto a una scelta di campo. Non ho più avuto incertezze, ho scelto di stare al fianco dei miei amici dell’associazione SOS-Rifugiati impegnata nell’accoglienza di quelle venti anime indifese, diseredate e offese, la cui unica speranza di costruirsi la vita dignitosa a cui tutti gli esseri umani hanno diritto era affidata alla solidarietà e alla generosità del loro prossimo. Ci trovammo in campi opposti, lo eravamo già, mentre la fine del nostro rapporto ne era solo la certificazione esplicita.
Adelfo
Steso su questa branda di costrizione sento i chiodi della paura conficcarsi nella mia carne, mi costringono a ripercorrere le stazioni del calvario che mi ha sprofondato in questo limbo di assenze, in questa inutile attesa senza speranza che mi brucia dentro come un magma indomabile prima di riversarsi in colate incandescenti sulle malsane distese del mio pensiero oltraggiato dall’apatia. Non dall’apatia di questa inattività forzosa; ché mai come nelle pianure deserte e silenziose del mio limbo, nella solitudine forzosa del mio vagare ho potuto riconoscere brandelli di pensiero che pur nella loro incompletezza, quasi deboli vaticini di una sibilla scanzonata che qui e là, per il suo divertimento, li affida al vento, hanno saputo orientare la comprensione dei fatti che mi inchiodano a questo tavolaccio di tortura. L’apatia vera è quella di prima, quella che mi ha consumato giorno dopo giorno nei venti anni della mia vita cosciente, in cui di cosciente c’era solo l’arroganza di pretese ingiustificate, il ritenermi investito per diritto di nascita di un destino privilegiato, privo di ostacoli e obblighi, ricco di successi e di ricchezze, di gloria e di onori.
La prima stazione è il ricordo dei giorni precedenti la manifestazione del CAR, quando il desiderio di compiacere mia sorella e le attese del suo palazzinaro mi aveva proiettato in una dimensione che non mi riconoscevo, che non m’interessava. Nell’inoltrarmi lungo i sentieri melmosi di quell’impegno non mi accorgevo di allontanarmi dall’unica oasi di consapevolezza che sapeva arginare la mia arrogante inesperienza del mondo e ridimensionare i miei comportamenti irresponsabili che spesso mi esponevano nudo alle imboscate degli eventi.
Giulia è stata importante per me, una presenza nel tempo, fin dai giorni lontani della nostra esuberante adolescenza. Lo è diventata di più, il centro gravitazionale intorno al quale la mia esistenza cercava un’orbita stabile, quando la sua tranquilla bellezza e il suo fare pacato di donna assennata e decisa, incurante delle difficoltà del nostro vivere ai margini, decisa a superarli e annullarli, ha iniziato a schiarire il mio tempo e a lanciarmi segnali inequivocabili che il mio essere torpido stentava a tradurre, che il tempo s’incaricò di decifrare mostrandoli per quello che erano, se al solo vederla le mie gambe s’infiacchivano e il cuore iniziava a battermi forte. Lei continuava a dire che il mio centro di gravitazione è mia sorella, mi rimproverava per la mia dipendenza, per la mia incapacità di emanciparmi.
È successo cinque anni fa. Sono cinque anni che ci siamo innamorati. Che me ne sono innamorato io, per lo meno, perché lei non mi vedeva. Le ho fatto una corte spietata, alla fine è caduta, ma ha sempre mantenuto nei miei confronti una dose di scetticismo, come se non ci credesse. Le piacevo, però; amava il ragazzo dolce e affettuoso delle nostre serate solitarie, lontani dalle volgarità e dai riti delle movide, delle discoteche, dei gruppi di amici caciaroni e arroganti. Soprattutto non sopportava i miei amici e ha tentato di tutto per staccarmene. Ma come facevo a rinnegare le amicizie di una vita nate sui banchi della scuola elementare, sui campetti dell’oratorio, continuate nelle strade della nostra adolescenza disastrata, approdate ai trent’anni con la pesantezza di un male di vivere incompreso? Dopo i vent’anni non ne avevo più condiviso le scelte. Erano scelte radicali, estreme, dissonanti con la storia del nostro quartiere e delle nostre famiglie, che non condividevo. Non ritenevo vitali, adeguate al nostro tempo, neanche le idee della nostra tradizione di famiglie proletarie. Ci avevano deluso le idee e coloro che le impersonavano a livello politico, al centro e nelle nostre periferie abbandonate. Avevano deluso anche i nostri genitori che lo vivevano come un tradimento e ne avevano nostalgia e speravano. Avevano sperato e intanto sperimentavano la protesta e l’infedeltà. I miei amici no; loro erano stati inconsapevolmente radicali, una torsione di centottanta gradi, passando direttamente dalla nebulosità adolescenziale ai riti organizzati dello stadio alle guerriglie urbane delle domeniche pomeriggio fino, come se ne fosse lo sbocco naturale e inevitabile, alla militanza politica dalla parte che mai i loro genitori avrebbero pensato, che non seppero mai come contrastare.
La seconda stazione mi ferma nei pressi della palazzina liberty. Pensai di indirizzare l’attenzione dei miei amici ultras sulla palazzina e sugli immigrati, ma non me la sentivo di espormi e di coinvolgermi fino all’identificazione. Feci un errore, questo sì, confidando all’amico più caro, la ragione del mio interessamento, ma era evidente, lo avevo dichiarato, che il mio interesse guardava ai futuri destini del quartiere, non agli interessi del palazzinaro. In ogni caso mi sono defilato lasciando ai frequentatori del circolo ultras il compito di organizzare e mobilitare il quartiere sulle parole d’ordine a loro più congeniali.
La terza stazione m’inchioda all’ineluttabile. Ho cercato di restare nell’ombra anche perché sapevo che non ci sarebbe stata possibilità di conciliazione su quel terreno, che Giulia non avrebbe mai approvato, né condiviso la mia scelta. Perché lei era tra quelli – con l’associazione di cui faceva parte: le Ostinate Presenze – che non rinunciavano a credere nella possibile rinascita del quartiere, che erano stati in prima fila nel portare soccorso e amicizia a quei “poveri ragazzi segnati da un destino avverso”. Questo lo diceva lei, non io. Ne avevamo discusso a lungo, scontrandoci, scontando la distanza che ci separava, che tendeva ad approfondirsi nonostante i miei goffi tentativi di minimizzare; quando era evidente che minimizzare non sarebbe servito a niente, che eravamo destinati ad allontanarci come due barche alla deriva nella tempesta, dapprima sballottolate dalla forza dei marosi l’una contro l’altra, per poi prendere abbrivi diversi, traiettorie divergenti che le avrebbero allontanate.
Diceva Giulia con convinzione e trasporto perfino esagerati: Se non comprendi che le migrazioni sono un processo inarrestabile la cui forza propulsiva si alimenta di condizioni oggettive che non temono ostacoli, vivi fuori dal mondo; ti illudi che sia un problema di polizia e di controllo delle frontiere, quando è una questione di civiltà, di rapporti, di soprusi, di modelli di sviluppo, di responsabilità dell’occidente accumulate in secoli di spoliazioni, di sperequazione nella divisione internazionale del lavoro e nella definizione delle ragioni di scambio.
Ed io: Ma Giulia, non capisco neanche quello che dici. Cosa vuoi che ne sappia di ragioni di scambio, di sperequazioni e di modelli di sviluppo. Quello che so è che non possiamo accogliere tutti, che non possiamo accoglierli qui da noi che siamo sommersi dai problemi, ne abbiamo più di loro e non riusciamo a risolverli.
Stump! L’urto delle barche.
Di nuovo Giulia: Pensa quello che vuoi, ma non puoi nasconderti dietro l’ignoranza per non vedere la realtà. Se fai come lo struzzo rinunci a comprendere e ti adagi nelle convinzioni sbagliate, diffuse da una propaganda interessata che dei problemi di giustizia e diritti se ne fa un baffo.
E ancora io, scettico e disincantato, volutamente evasivo:
Sono problemi più grandi di noi, Giulia. Viviamo la nostra vita meglio che possiamo, e i neri facciano altrettanto a casa loro.
Stump! Un altro urto, mentre sentivo i lamenti sinistri del fasciame della mia barca che si allontanava dall’altra.
E poi altri urti ancora e altri, fino a quando, per il movimento di un’onda capricciosa l’urto fu mancato e le barche presero abbrivi diversi, traiettorie divergenti che le allontanarono.
Beh, quando al circolo, la sera prima della manifestazione contro i rifugiati, hanno scherzato su Giulia mi sono proprio incazzato. Che non volessi andare alla manifestazione e non avessi partecipato all’assemblea di quartiere per via di Giulia era vero. L’avevo negato con gli altri e lo negavo a me stesso ma devo riconoscere che era vero. Me lo nascondevo dicendomi di voler evitare che per il mio tramite si potesse risalire a mia sorella e al suo amico, ma in cuor mio sapevo, oh se lo sapevo, che la ragione era Giulia. Tuttavia me ne adontai quando il mio amico mise a nudo la mia ipocrisia con quella semplice frase: Per la tua fidanzata?
La sonora risata collettiva che risuonò nella sala mi fece male. Non tanto perché esprimeva un giudizio di disapprovazione nei confronti di Giulia considerata una nemica da combattere e annullare, e neanche perché quella disapprovazione riguardava me e il nostro rapporto; quanto perché sapevo che era vero e che in quel modo cercavo ingenuamente di tutelare il nostro rapporto, di tenerlo al riparo di una possibile causa di dissidio, come se bastassero le apparenze o i sotterfugi a nascondere la realtà.
Alla manifestazione non ci andai, passai il pomeriggio in compagnia di Giulia, ma non fu sufficiente – come poteva esserlo? – a scongiurare l’inevitabile allontanamento delle nostre due barche alla deriva.
5 aprile 2021 Secondo episodio
Il padre di Adelfo racconta il diverbio con uno spacciatore nero, causa prima delle disgrazie del figlio.
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Il padre
Tornavo a casa con mia moglie, un tardo pomeriggio come tanti, dopo aver fatto il solito giro per commissioni. Le strade del quartiere erano insolitamente tranquille in quell’ora incerta sul far della sera quando la luce del giorno si affievolisce; si sentiva chiaro il cinguettio degli uccelli tra le chiome degli alberi, non c’erano bambini per strada. Da alcuni giorni, sul far della sera, il quartiere non era più lo stesso, ma neanche di mattina e neanche di pomeriggio. Di sera, al buio, nelle strade poco illuminate, già da tempo si faceva il deserto, da quando strade e piazze e giardini erano diventati gli store dello spaccio di droghe. Ma da quando nella palazzina liberty era stato ospitato un gruppo di rifugiati, nel quartiere si respirava un’aria pesante anche di giorno e malcontento e rabbia e paura. Erano ancora latenti e inespresse, sufficienti in ogni caso a suggerire alle madri di tenere in casa i ragazzi, a suggerire alle giovani donne di non circolare da sole per le strade poco frequentate. Osservavo e ne parlavo con mia moglie quando nel mio campo visivo entrò una figura che si allontanava dal marciapiede antistante i giardinetti pubblici, diretto verso il muro laterale del condominio che al terzo e ultimo piano ospita la nostra modesta casa popolare. La seguii senza farci caso, come succede quando in uno scenario immobile qualcosa incomincia a muoversi, fino al momento in cui si fermò contro il muro in una zona d’ombra, le spalle alla strada quasi fosse intento a leggere un messaggio scritto sul muro. A quel punto iniziai a farci caso. Guardai con attenzione e notai che l’interesse dell’uomo non era rivolto al muro, qualunque ne fosse la ragione, era concentrato su di sé, intento a tirare giù la cerniera dei pantaloni per liberarsi dall’urgenza urinaria. Perché proprio lì? mi dissi, mentre un moto di disappunto mi pervadeva costringendomi a chiarire la questione. Mia moglie non si era accorta di nulla, guardava verso il portone d’ingresso del condominio, concentrata sulle riflessioni che stavamo facendo.
Vai pure a casa senza fermarti – le dissi – devo chiarire una questione.
Lei intuendo la direzione verso cui era diretto il mio interesse si avvide della figura urinante e senza darle soverchia importanza, rispose: Rinaldo lascia perdere, andiamo via.
Non l’ascoltai, non potevo lasciar perdere, tanto più quando accertai che l’indistinta figura di prima era quella di un immigrato di colore, forse uno di quelli della palazzina che tanto in apprensione avevano messo l’intero quartiere. Lo raggiunsi quando stava per ricomporsi. Un rivolo di piscio schiumante si era raccolto ai piedi del muro e si inoltrava sul marciapiede esalandone un tanfo pungente.
Perché la stai facendo proprio qui, sotto gli sguardi di chi passa o di chi ti può vedere dalle finestre? gli dissi con la voce alterata dall’indignazione lievitata nel tempo breve impiegato per raggiungerlo.
Mi rispose con calma, mentre tirava su la cerniera dei pantaloni e mi guardava dritto in faccia con un’espressione quasi divertita. Disse: E tu che cazzo vuoi? Me la stavo facendo addosso e non sapevo dove andare.
Cercai di contenere l’irritazione. Dissi: Si dà il caso che io abiti proprio in questo palazzo e non mi va che il muro sia usato come una latrina.
La seconda risposta dell’extracomunitario impenitente fu ancora più irriguardosa della prima. Disse: Lasciami perdere, nonnetto. Torna a casa che tua moglie t’aspetta e se tardi si preoccupa.
Al sentirmi chiamare “nonnetto” m’indispettii ancora di più, probabilmente diventai rosso di rabbia e mi lasciai andare a parole che non avrei voluto dire, che non riuscii a reprimere perché venivano su dal profondo.
Dissi: Non sono tuo nonno e non permetterti di chiamarmi così. Se vuoi trovare il tuo “nonnetto” tornatene in Africa che qui facciamo volentieri a meno di te e di tutti i neri che insudiciano il quartiere e la città.
Hai qualche problema con gli africani, nonnetto? continuò con un tono di scherno che non sopportai e allora gli riversai addosso tutta la rabbia e il risentimento accumulati in tanti anni di esasperazione per la merda che avevo mangiato in fabbrica, fino all’attuale condizione di esodato in cui mi dibatto senza speranza.
Dissi: Ce ne create fin troppi di problemi. Rubate il lavoro ai nostri figli, li avvelenate con le droghe. Ti conosco, sai. Sei quello che spaccia nel giardino di fronte e se non ti comporti come si deve non ci metto niente a denunciarti alla polizia.
A quelle parole lo spacciatore, punto sul vivo, passò repentinamente dal precedente atteggiamento calmo e condiscendente a uno più torbido e arrogante. Eravamo a meno di un metro uno dall’altro, divisi come da una frontiera dal rivolo di piscio. Con uno scatto inaspettato fece un passo verso di me, varcò il rubicone della sua collera montante, mi spintonò facendomi arretrare e disse: Cos’hai detto, nonnetto?
L’accenno di violenza mi lasciò senza parole, un groppo alla gola m’impediva di ribattere come avrei voluto. Avrei voluto dire che non avevo paura di lui, che doveva smetterla di spacciare sotto le finestre di casa mia, invece non riuscii a dire niente. Feci solo un debole e incompleto movimento con le braccia, come un riflesso condizionato di risposta al suo precedente spintone. Non lo toccai. Fu lui a impedirmelo con un rapido movimento di una mano, spostata velocemente da destra verso sinistra, che intercettò le mie braccia deviandole verso il basso. In rapida successione allungò per la seconda volta le braccia tese verso il mio petto, mi prese per il bavero della giacca e strattonandomi mentre continuava a guardarmi dritto negli occhi, continuò: Non ti azzardare a fare una cosa del genere, nonnetto. Se mi succede qualcosa e metti in pericolo la mia famiglia, te la farò pagare. Io non ho niente da perdere, quindi stai attento se non vuoi prenderti una coltellata nella pancia.
Ciò detto mi lasciò andare e si allontanò continuando a masticare soffocate minacce nelle quali cercava di stemperare il proprio risentimento.
Scosso dalla rapida successione degli eventi, restai immobile sul marciapiede incapace di qualsiasi reazione. Non so per quanto tempo, ma non credo che sia stato il tempo brevissimo della sorpresa. Quando mi ripresi lo spacciatore era uscito dal mio campo visivo, né lo cercai con lo sguardo. Intorno a me non c’era alcun movimento: in lontananza si sentiva il rumore delle auto, sulle facciate dei condomini incominciavano a illuminarsi le finestre, gli uccelli appollaiati nei dormitori continuavano a cinguettare, i lampioni lungo le strade proiettavano i loro coni di luce alternati a chiazze d’ombra. I lampioni del giardinetto dove lo spacciatore era solito condurre i suoi mortiferi commerci non erano accesi, solo uno era stato risparmiato dalla furia vandalica che li aveva accecati.
Appena fui in grado di muovermi diressi i miei passi incerti verso casa e girai l’angolo. Il cambio di prospettiva non fu sufficiente a tranquillizzarmi. Non riuscivo a capacitarmi per quello che era accaduto. Sarebbe stato sufficiente farfugliare una scusa, riconoscere che aveva sbagliato e tutto si sarebbe accomodato. Visto com’erano andate le cose non potevo di certo far finta di niente: meditavo sentimenti di risarcimento e di vendetta. Quando entrai in casa il pensiero del risarcimento e della vendetta era il chiodo che rimase infisso nella mia mente. Non pensai a cosa né a come, mi preoccupai solo di non allarmare mia moglie che mi aspettava con trepidazione.
30 marzo 2021 Primo episodio (pagg. 1-3)
L’assemblea del quartiere indetta per riflettere sul progetto di accoglienza dei rifugiati nella palazzina liberty è interrotta da un manipolo di uomini mascherati. Ne riferisce allibito il parroco.
Il parroco
Cercammo di correre ai ripari. Con l’accordo dello stesso Ve-scovo e in collaborazione con le associazioni di volontariato impegnate nel sociale fu organizzata un’assemblea a cui furono invitati tutti gli abitanti del quartiere.
Gesummaria, chi avrebbe mai immaginato quello che è successo?
Alla presenza del Vescovo, poi. Stento a crederci ancora adesso, dopo tanto tempo.
Si arrivò al fatidico venerdì dell’assemblea convocata nel salone parrocchiale in un clima di consapevole fiducia e di speranza. La partecipazione dei cittadini superò ogni più rosea aspettativa, ma forse, a pensarci con il senno di poi, non era un buon segnale. Quando arrivò il Vescovo nella sala si fece un silenzio rispettoso che mi aprì il cuore. Se questa è l’accoglienza, pensai, vuol dire che c’è disponibilità all’ascolto, voglia di sapere e di comprendere. Invece mi sbagliavo di grosso. C’era tensione, questo sì, credevo fosse una tensione positiva, volta a costruire ponti, non immaginavo – ahi quanto sono lontano dalla verità, Signore, com’è difficile da penetrare l’animo umano quando nei cuori non alberga l’amore né la comprensione dell’altro – no, non lo immaginavo davvero che quella tensione prefigurasse la volontà di erigere muri, di scavare fossati per isolare e dividere, per disconoscersi e non per conoscersi.
L’intervento del Vescovo partì proprio da questo punto per invitare tutti i presenti alla riflessione:
L’iniziativa di accoglienza gestita dall’associazione SOS-Rifugiati, in collaborazione con la nostra diocesi e altri enti umanitari che operano sul territorio, intende promuovere i principi dell’accoglienza e dell’integrazione sociale in favore dei richiedenti protezione internazionale. I principi dell’accoglienza non possono limitarsi ad offrire cibo e alloggio ma devono tradursi in azioni volte alla riconquista della dignità e dell’autonomia personale, grazie a un’azione “integrata e formativa”, resa possibile dalla collaborazione con la comunità locale, gli Enti e i Servizi preposti.
Non aveva ancora terminato di esporre l’incipit del proprio pensiero che una voce si alzò dal pubblico gridando con veemenza:
Qui si è tramato alle spalle del nostro quartiere. Perché l’operazione non è stata fatta alla luce del sole? Perché ne siamo venuti a conoscenza solo a cose fatte? Quali interessi economici si celano dietro questa sordida operazione?
L’interruzione fu accompagnata da un coro crescente e rumo-roso di consensi che impedirono per un buon tratto di continuare l’esposizione introduttiva. Quando si acquietò la buriana, il Vescovo, disorientato dall’impulsiva e irragionevole interruzione, riprese il filo del discorso lasciandosi trascinare nella polemica. Disse: Conosco bene la SOS-Rifugiati che gestisce il progetto di accoglienza. È un’associazione di promo-zione sociale, senza fini di lucro, che ha garantito l’impiego di tutte le risorse a favore dei migranti, senza alcun guadagno per l’associazione o per altri.
A quel punto ritenne ragionevole chiamare in causa lo stesso presidente della SOS-Rifugiati per esporne le linee di condotta. Fu interrotto sgarbatamente anche lui. Da un consistente settore della platea si alzò all’unisono un coro che gridava ritmicamente: Non li vogliamo, i negri non li vogliamo, evidenziando brutalmente una palese indisponibilità al dialogo, una palese volontà di sopraffazione che se ne fregava del confronto pacato e ragionato, che non voleva essere contraddetta.
Timidamente, a quel punto, forse spinta dalla visibile sofferenza del Vescovo, una voce fuori dal coro dei contrari, quella di una giovane mamma, provò a chiedere:
Dove li mettiamo, allora, i valori cristiani che insegniamo ai nostri figli? Come possiamo aver paura dei migranti?
La risposta di buona parte del pubblico fu di nuovo volgare e insolente: Portali tutti a casa tua, dissero in coro, e molti accompagnarono quella frase sprezzante con una risata irriverente.
Quando il Vescovo riprese la parola fu quasi conclusivo sia nel tono sfiduciato sia nel messaggio.
Mi dispiace tanto che la pensiate così. – disse il Vescovo visibilmente provato e amareggiato – Io credo, come ci suggerisce la signora che ha appena parlato, che di fronte a problemi come quello di cui stiamo discutendo sia importante e necessario porsi in modo evangelico. Io, come ci ha insegnato Gesù, considero ogni uomo mio fratello, altrimenti non sarei qui…
A quel punto si manifestò l’impensabile. All’interno del salone si materializzò dal niente, senza alcun preavviso, senza darci la possibilità d’interrogarci e di comprendere, un gruppo mascherato. Cosa ci faceva un gruppo mascherato in quel contesto? Una goliardata, anche se fuori luogo, ci poteva stare se fosse stato carnevale, ma non lo era, eravamo in Quaresima. Ci guardammo sorpresi, stupiti da quella apparizione incongruente. Sulla sala scese un silenzio preoccupato, un interrogativo angoscioso era visibilmente dipinto sulle facce di tutti i presenti. E adesso cosa succederà, sembravano dire quelle facce sorprese, mentre l’iniziale turbamento tendeva a trasformarsi in paura. Di cosa dovevamo aver paura? – pensai – mentre gli uomini mascherati, una ventina all’incirca, come soldati di un commando addestrato ed efficiente, si disponevano ai lati della sala, ne controllavano gli ingressi ed imponevano a tutti i presenti di restare ai propri posti, mentre quello che sembrava il capo si portò vicino al tavolo degli oratori e si dispose a parlare tirando fuori dalla tasca alcuni fogli dattiloscritti.
Un altro particolare dell’improvvisato carnevale fuori stagione mi colpì e mi interrogò senza riuscire a darmi una risposta. Tutti gli uomini mascherati indossavano la stessa maschera raffigurante la faccia di un personaggio familiare, poteva sembrare la faccia di Buffalo Bill, ma non era la faccia di Buffalo Bill, aveva qualcosa di diverso. Dell’enigma si riuscì a venirne a capo il giorno dopo. Scoprimmo che la maschera rappresentava le fattezze terrene del generale Nathan B. Forrest, comandante di un battaglione di cavalleria confederato durante la guerra di secessione americana e primo grand wizard (cioè il capo supremo) del Ku Klux Klan alla sua fondazione nel 1867. Scoprirlo fu raccapricciante. Ecco di cosa dovevamo avere paura. Era stata una rappresentazione lampante di un’idea aberrante. Non ci sarebbe stato bisogno di nient’altro per capire il messaggio, ma fummo costretti ad assistere all’intera rappresentazione. Assistemmo in silenzio, ammutoliti dalla sorpresa, storditi dalla vista e dall’udito, sottoposti a sollecitazioni insopportabili.
Mi accorgo di parlare per tutti i presenti, mentre, nei fatti, fu soltanto una piccola parte dei presenti a condividere il mio stato d’animo. Gli altri, la maggioranza, dopo i primi momenti di smarrimento, quando si resero conto che la rappresentazione mascherata sosteneva la loro posizione oltranzista, si rilassarono e al termine dell’orazione del capomaschera ne approvarono il messaggio con applausi e rumorosi commenti entusiastici.
Quando, imposto il silenzio, prima che il capomaschera iniziasse a profferire il suo farneticante proclama, le altre maschere srotolarono striscioni, alzarono vessilli e scandirono slogan inequivocabili che atterrirono solo una parte dell’uditorio. Subito dopo l’oratore mascherato iniziò a par-lare. Potrei riferire per filo e per segno il contenuto di quei fogli. Non che mi fosse rimasto impresso nella memoria, tutt’altro, la mia mente lo rifiutava nel momento stesso in cui lo ascoltavo. Potrei riferirvene perché al termine della rappresentazione, quando gli attori abbandonarono la sala, seguiti subito dopo dai rappresentanti del CAR e da tutti, o quasi, gli spettatori che ne avevano condiviso il proclama, i fogli, con un gesto arrogante di degnazione, erano stati abbandonati sul tavolo degli oratori e lì rimasero fino a quando, al termine della serata, sgomberata la sala, li ritrovai e non fu possibile ignorarli oltre. Il loro contenuto, in ogni caso, non ho animo di riferirlo, mi offende troppo e troppo offenderebbe anche chi, condividendo il pensiero evangelico del Vescovo, avesse la ventura di ascoltarlo.
Il video dell’intera rappresentazione fu postato dagli stessi simpatizzanti del KKK su facebook e su youtube, subito commentato, così mi fu riferito, da centinaia di follower aggressivi, volgari, entusiasti. I pochi coraggiosi che osarono andare contro corrente furono sommersi da una valanga di contumelie, da un linguaggio tendenzialmente coprolalico finalizzato a sminuirne la virilità se maschi, se femmine a disprezzarne la femminilità e i costumi sessuali.
La fidanzata parla del rapporto con Adelfo e del perché lo ha lasciato.
Adelfo ripensa a Giulia con nostalgia e senso di colpa.
Vai pure a casa senza fermarti – le dissi – devo chiarire una questione.
Lei intuendo la direzione verso cui era diretto il mio interesse si avvide della figura urinante e senza darle soverchia importanza, rispose: Rinaldo lascia perdere, andiamo via.
Non l’ascoltai, non potevo lasciar perdere, tanto più quando accertai che l’indistinta figura di prima era quella di un immigrato di colore, forse uno di quelli della palazzina che tanto in apprensione avevano messo l’intero quartiere. Lo raggiunsi quando stava per ricomporsi. Un rivolo di piscio schiumante si era raccolto ai piedi del muro e si inoltrava sul marciapiede esalandone un tanfo pungente.
Perché la stai facendo proprio qui, sotto gli sguardi di chi passa o di chi ti può vedere dalle finestre? gli dissi con la voce alterata dall’indignazione lievitata nel tempo breve impiegato per raggiungerlo.
Mi rispose con calma, mentre tirava su la cerniera dei pantaloni e mi guardava dritto in faccia con un’espressione quasi divertita. Disse: E tu che cazzo vuoi? Me la stavo facendo addosso e non sapevo dove andare.
Cercai di contenere l’irritazione. Dissi: Si dà il caso che io abiti proprio in questo palazzo e non mi va che il muro sia usato come una latrina.
La seconda risposta dell’extracomunitario impenitente fu ancora più irriguardosa della prima. Disse: Lasciami perdere, nonnetto. Torna a casa che tua moglie t’aspetta e se tardi si preoccupa.
Al sentirmi chiamare “nonnetto” m’indispettii ancora di più, probabilmente diventai rosso di rabbia e mi lasciai andare a parole che non avrei voluto dire, che non riuscii a reprimere perché venivano su dal profondo.
Dissi: Non sono tuo nonno e non permetterti di chiamarmi così. Se vuoi trovare il tuo “nonnetto” tornatene in Africa che qui facciamo volentieri a meno di te e di tutti i neri che insudiciano il quartiere e la città.
Hai qualche problema con gli africani, nonnetto? continuò con un tono di scherno che non sopportai e allora gli riversai addosso tutta la rabbia e il risentimento accumulati in tanti anni di esasperazione per la merda che avevo mangiato in fabbrica, fino all’attuale condizione di esodato in cui mi dibatto senza speranza.
Dissi: Ce ne create fin troppi di problemi. Rubate il lavoro ai nostri figli, li avvelenate con le droghe. Ti conosco, sai. Sei quello che spaccia nel giardino di fronte e se non ti comporti come si deve non ci metto niente a denunciarti alla polizia.
A quelle parole lo spacciatore, punto sul vivo, passò repentinamente dal precedente atteggiamento calmo e condiscendente a uno più torbido e arrogante. Eravamo a meno di un metro uno dall’altro, divisi come da una frontiera dal rivolo di piscio. Con uno scatto inaspettato fece un passo verso di me, varcò il rubicone della sua collera montante, mi spintonò facendomi arretrare e disse: Cos’hai detto, nonnetto?
L’accenno di violenza mi lasciò senza parole, un groppo alla gola m’impediva di ribattere come avrei voluto. Avrei voluto dire che non avevo paura di lui, che doveva smetterla di spacciare sotto le finestre di casa mia, invece non riuscii a dire niente. Feci solo un debole e incompleto movimento con le braccia, come un riflesso condizionato di risposta al suo precedente spintone. Non lo toccai. Fu lui a impedirmelo con un rapido movimento di una mano, spostata velocemente da destra verso sinistra, che intercettò le mie braccia deviandole verso il basso. In rapida successione allungò per la seconda volta le braccia tese verso il mio petto, mi prese per il bavero della giacca e strattonandomi mentre continuava a guardarmi dritto negli occhi, continuò: Non ti azzardare a fare una cosa del genere, nonnetto. Se mi succede qualcosa e metti in pericolo la mia famiglia, te la farò pagare. Io non ho niente da perdere, quindi stai attento se non vuoi prenderti una coltellata nella pancia.
Ciò detto mi lasciò andare e si allontanò continuando a masticare soffocate minacce nelle quali cercava di stemperare il proprio risentimento.
Scosso dalla rapida successione degli eventi, restai immobile sul marciapiede incapace di qualsiasi reazione. Non so per quanto tempo, ma non credo che sia stato il tempo brevissimo della sorpresa. Quando mi ripresi lo spacciatore era uscito dal mio campo visivo, né lo cercai con lo sguardo. Intorno a me non c’era alcun movimento: in lontananza si sentiva il rumore delle auto, sulle facciate dei condomini incominciavano a illuminarsi le finestre, gli uccelli appollaiati nei dormitori continuavano a cinguettare, i lampioni lungo le strade proiettavano i loro coni di luce alternati a chiazze d’ombra. I lampioni del giardinetto dove lo spacciatore era solito condurre i suoi mortiferi commerci non erano accesi, solo uno era stato risparmiato dalla furia vandalica che li aveva accecati.
Appena fui in grado di muovermi diressi i miei passi incerti verso casa e girai l’angolo. Il cambio di prospettiva non fu sufficiente a tranquillizzarmi. Non riuscivo a capacitarmi per quello che era accaduto. Sarebbe stato sufficiente farfugliare una scusa, riconoscere che aveva sbagliato e tutto si sarebbe accomodato. Visto com’erano andate le cose non potevo di certo far finta di niente: meditavo sentimenti di risarcimento e di vendetta. Quando entrai in casa il pensiero del risarcimento e della vendetta era il chiodo che rimase infisso nella mia mente. Non pensai a cosa né a come, mi preoccupai solo di non allarmare mia moglie che mi aspettava con trepidazione.
Adelfo
Passavo il tempo sulla branda immerso nei cupi pensieri di una reclusione immeritata, perché non si può marcire in carcere per un acceso scambio di vedute con un negro insolente, provocatore di vecchi indifesi. Costretto in questo cesso di cella, umida e puzzolente, dove non ci si può neanche girare. Dalla piccola finestra, sarà larga appena cinquanta centimetri per ottanta di altezza, posta in alto che non ci si può neanche affacciare, si intravedono otto rettangolini di un cielo indefinito che proietta all’interno una luce sfocata, lattiginosa. Ho imparato a distinguerne le sfumature. Sono impercettibili. Un occhio allenato ci legge anche le ore e distingue l’alba e il tramonto dalla tenue coloritura di rosa riflessa dalle nuvole basse ferme sull’orizzonte. L’alba la vedo poco, sono più esperto di tramonti, perché sono abituato a dormire fino a tardi. Di notte facevo sempre le ore piccole, tra locali e giri con gli amici, mai fermi, alla ricerca di occasioni per menar le mani, a caccia di clandestini o di squatter.
Da quando sono in carcere, sono solo pochi mesi ma pesano come un tempo infinito, mi capita sempre più spesso di essere sveglio quando i primi raggi del sole illuminano il cielo. Non entra mai un raggio di sole dalla finestra, neanche un raggio riflesso, solo qualche lama infuocata che si ferma ammiccando su quei venti centimetri di muro che ne delimitano il vano esposto a nord-ovest.
Qualche volta l’alba l’ho vista, l’ho aspettata con gli amici, dopo qualche notte brava, si andava al mare o in montagna, ci si sedeva ad aspettarla infreddoliti e storditi dal fumo e dall’alcool, poi si andava a prendere cornetto e cappuccino, l’atto finale che segnava il ritorno a casa e la conquista di qualche ora di sonno… e degli inevitabili rimbrotti di padri e madri, mai stanchi di rompere, che non l’hanno mica capito che non li vogliamo i loro insegnamenti, che vogliamo chiudere con la loro vita da schiavi.
A vedere l’alba ci sono andato un paio di volte anche con la mia fidanzata. Era stato bello, ma ora la stronza mi ha lasciato per quella cazzata dell’avvertimento a una merda di spacciatore negro che ha minacciato mio padre.
Per una cazzata mi fanno marcire in prigione, ammuffito come le pareti della cella, verde di bile per questa rabbia che mi spappola il cervello, manda a puttane ogni proposito di resistenza.
Per fortuna c’è lei, mia sorella.
Lei non mi rimbrotta né mi abbandona, lei mi comprende e mi accompagna, che se non ci fosse stata al gabbio ci sarei finito prima e per motivi più seri, perduto, a trent’anni, nelle secche di un’esistenza rancorosa e inutile, come mamma e papà, invecchiati anzitempo, corrosi dalla fatica, dall’incertezza e dall’insoddisfazione. Povera mamma, costretta a una vita di stenti e delusioni. Di delusioni gliene ho date tante anch’io, ma lei non me le ha mai fatte pesare, non mi ha mai fatto mancare la dolcezza della sua comprensione, del suo incitamento. Con papà è diverso. Lui non mi capisce, è ostinato, bloccato nella sua visione del mondo limitata ai confini della fabbrica: lavoro e salario sicuro. E poi guarda come è andato a finire, povero diavolo. Mi fa pena e mi fa rabbia, ma la rabbia è più forte perché insorge contro la sua pretesa. Voleva che seguissi le sue orme, voleva ingabbiarmi in questo sistema annichilente che ti succhia l’anima, un piccolo robot inquadrato e ubbidiente, in fila per due, lavoro e famiglia, come se la vita fosse tutta lì, una continua lotta per la sopravvivenza, mangiare e dormire e qualche volta scopare e fare figli e poi allevarli come robot più evoluti per consegnarli docili e pazienti come pecore alla schiavitù del lavoro. L’ho deluso, lo riconosco, e questo non me lo ha mai perdonato. Si arrovella sul suo fallimento chiedendosi dove ha sbagliato, che cosa non ha fatto per condurmi sulla retta via. Non si accorge, povero diavolo, di essere il residuo di un’altra era, un sopravvissuto che non può indicare alcuna via perché la sua strada non porta da nessuna parte, è finito in un vicolo cieco e voltandosi indietro ritrova solo macerie, un panorama desolato dove non c’è più niente da conservare. Mia sorella invece non ha deluso nessuno. Lei ha fatto la sua strada. Certo, è sempre stata una gran gnocca, e questo in certi ambienti aiuta, ma l’ha salvata soprattutto la sua determinazione. A quarant’anni può ancora ostentare bellezza e classe, frequenta i giri che contano e, anche se suo marito è solo un grigio burocrate comunale, con la sua piccola agenzia immobiliare ben inserita nel mercato delle case di lusso si è assicurata una posizione invidiabile. Con lei mamma e papà non hanno mai niente da dire, se la prendono sempre con me, anche se ci provo a seguirne le orme. Qualcosa non quadra. Forse si sentono autorizzati a starmi con il fiato sul collo perché vivo ancora con loro? Come se non fosse già abbastanza complicato vivere in questo mondo di merda che ci hanno lasciato.
28 marzo 2021 Una breve sinossi
“Nero di rabbia” è un romanzo narrato in prima persona dai protagonisti che si alternano sulla scena rievocando gli snodi di un’ingarbugliata vicenda di ordinario razzismo, di affari e di malavita.
La storia si sviluppa intorno a una vecchia palazzina liberty ubicata in un quartiere periferico e degradato di una città di provincia, destinata ad accogliere un gruppo di profughi africani e contemporaneamente oggetto del desiderio di un immobiliarista. Poiché la presenza dei rifugiati rischia di compromettere la realizzazione del suo progetto, questi fomenta la protesta del quartiere al fine di favorirne l’allontanamento. Trait d’union con il quartiere è Adelfo Gallan, un giovane disoccupato fratello dell’amante dell’immobiliarista e da questa sollecitato a organizzare un comitato anti rifugiati per assecondare gli interessi dell’amico.
Il ruolo di Adelfo finirà per sconvolgere la vita dell’intera famiglia intrappolata da circostanze casuali nel vortice di una vicenda che la trascende e la condanna senza specifiche colpe, ma non senza motivo, perché, ad eccezione della madre, ognuno degli altri tre membri contribuisce a determinarne l’esito.
Il romanzo prende spunto da alcune vicende di cronaca e le intreccia in una storia nella quale confluiscono le domande e le preoccupazioni di questo nostro tempo travagliato in cui, tra crisi economica e crisi di valori, sembrano smarriti i riferimenti sociali, ideali e culturali che hanno caratterizzato il passato recente. I personaggi e l’ambientazione sono il riflesso di una collettività demoralizzata che nella situazione data non riesce a trovare le coordinate del proprio futuro ed è ridotta a vivere il presente sopraffatta da sentimenti contrastanti che ne condizionano l’esistenza. Paura e rancore sono i sentimenti dominanti: paura per il proprio futuro e rancore verso gli altri, i diversi da sé, confinati nello scomodo ruolo di capri espiatori verso i quali far confluire le proprie angosce, nell’illusione, cavalcata e alimentata da chi questa condizione la piega efficacemente ai propri fini, che sia sufficiente a esorcizzarli.
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