martedì 12 aprile 2022

L'Anteprima di "Andavamo lontano"

Sommario

Tore

La partenza

La stazione di Bologna

Le donne bosniache

 Tore

Come avrebbe fatto Tore a restituire a don Quintino le cinquantamila lire che gli doveva?

Lui non possedeva “Marine” che davano una rendita, sia pure irrisoria, né poteva contare sui soldi guadagnati lavorando a giornata. Coltivava due piccoli appezzamenti di terreno di proprietà della moglie per ricavarne ortaggi e olio per le provviste familiari e poi aveva la barca e le reti, croce e delizia della sua esistenza.

Erano una delizia perché le giornate e le nottate sul mare si accompagnano a sensazioni di quiete che non ti accorgi della fatica e ti fanno anche scordare i dolori alle braccia e alle mani, sempre bagnate, anche d’inverno, e quel senso di freddo umido che il vento ti fa entrare nelle ossa nonostante la cerata e il maglione, il berretto calato sulla testa e gli stivali. Lo sciacquettio delle onde contro la carena della barca ti accompagna senza sosta come una  sinfonia di quelle che le bande suonano alle feste dei santi patroni e ti culla addormentandoti dolcemente nei momenti in cui devi solo aspettare prima di tirare le reti. E i colori incredibili del sole che spunta, al mattino, da dietro le montagne innevate dell’Albania, dipingendo con tinte cangianti anche le montagne e la neve, che c’è sempre, anche d’estate, quando di notte l’aria di scirocco ti fa sudare nonostante il tuo sforzo di rimanere immobile, rinunciando perfino a pensare. E il luccichio vibrante della luna sull’acqua appena increspata dalla brezza che nelle notti di luna piena ti rimanda una dolcezza infinita e ti fa pensare alla pelle levigata e bianca di tua moglie, al suo desiderio di compiacere e condividere le tue voglie appassionate. E il caldo del sole d’estate, appena mitigato dalla brezza, che ti asciuga la pelle, la arroventa e la imbrunisce lasciandoti una sensazione di benessere, una vigoria che la fatica del remare non riesce a esaurire.

Nella contabilità dei pro e dei contro queste sensazioni impagabili avevano la meglio sulle difficoltà, sulle delusioni, sulle incertezze economiche. O forse era solo l’impossibilità di trovare un’altra occupazione a tenerlo legato a quel mestiere?

Come liberarsi, almeno, della stretta in cui lo teneva prigioniero l’impotenza? In che modo costruirsi qualche certezza che rompesse il circolo vizioso della precarietà?

 Sul mare tutto è precario. Sei in balia dei venti e delle correnti, ti fanno concorrenza anche i delfini e le foche che devastano le reti. La tua stessa vita è in pericolo quando le tempeste improvvise di vento e di pioggia fanno ballare la barca sulla cresta delle onde come una tarantolata e poi la squassano ricadendo con tonfi tremendi sul fondo dell’onda. Ti verrebbe spontaneo in quei momenti il gesto di segnarti, di raccomandare l’anima a quel dio che ti ha abbandonato e che forse non ha mai voluto considerare la pochezza della tua esistenza insignificante. Non lo fai perché sei impegnato, in uno sforzo senza tregua, a governare la barca, mantenendola con la prua contro vento. Se ti rilassassi anche un solo momento e le onde ti prendessero sulla fiancata sarebbe la fine: addio barca e addio reti, e grazie che riesci a salvare la ghirba, se le correnti non sono troppo impietose.

Sul mare non ci sono certezze. Oggi ti sembra che il pesce ti debba arrivare direttamente nella barca senza neanche lo sforzo di pescarlo, tanto ne vedi brulicare sulla superficie del mare, e saltare, rincorrersi … e invece niente, i branchi sono nervosi, sfuggenti, fiutano il vento e si inabissano appena sentono qualcosa avvicinarsi. E quando la luna è nel suo quarto opaco, che dovrebbe essere un periodo favorevole alla pesca con la lampara perché i pesci non sono distratti dai riflessi d’argento che rimbalzano sulle onde e si fanno attrarre nel cono di luce delle lampare, pronti a essere raccolti nel sacco della rete stesa tutt’intorno alla barca, magari c’è una fastidiosa corrente di superficie che li dissuade dal risalire dalle profondità in cui si muovono coralmente inscenando balletti eleganti per divertire le divinità marine che li osservano compiaciute.

E neanche l’estate è sempre propizia, quando i signori fanno le vacanze e tu aspetti, sì, cullato dalle onde e baciato dal sole, bello nella tua pelle abbronzata e levigata, che le ricche tardone farebbero a gara per accarezzare e stringere i muscoli scattanti azionati nella remata e chissà cos’altro ancora quando le scorazzi lungo la costa per visitare le grotte o per ammirare il panorama dal largo. Spesso quando insinui la barca negli stretti cunicoli della grotta sulfurea, una fenditura nella roccia che s’inoltra per decine di metri, una corrente d’acqua lattiginosa e calda da cui salgono vapori di zolfo che la rendono misteriosa e magica, spesso in quelle occasioni hai sentito il brivido che attraversava le schiene di quelle signore e dalle loro voci rotte capivi il desiderio che le concupiva, mascherato da paura.

La partenza

La partenza era fissata per l’inizio di marzo, destinazione Digione in Francia, regione della Borgogna.

Partirono Genio e Nanu. La stazione sembrava gravida di uomini soli con la valigia, impegnata in un doloroso travaglio che nel volgere di qualche ora li avrebbe espulsi nel mondo attraverso lo stretto passaggio del treno-vagina: prima fermata Milano o Torino e da lì, a raggiera, Parigi, Digione, Bruxelles, Zurigo, Basilea, Monaco di Baviera, Dusseldorf. Nati a una nuova vita. Il cordone ombelicale che li teneva ancorati alla madre, i binari sui quali i treni erano lanciati in corsa, non sarebbe stato reciso, li avrebbe alimentati di nostalgia e riavvolgendolo come il filo di Arianna avrebbero ritrovato la strada del ritorno.

Il dolore del travaglio aveva il volto dei parenti che restavano sulle banchine della stazione, attoniti per la mancanza, increduli e svuotati. Che si aggiungeva alla galleria di quelli rimasti a casa, al pianto sommesso delle vecchie madri e a quello silenzioso delle mogli, allo smarrimento dei bambini, ai silenzi degli uomini, ai loro volti gravi e rassegnati. Immagini di un dolore senza tempo che si arrendeva al destino e ne accettava passivamente i responsi, incapace di ribellione e di contrasto, impotente.

Perché partire non era soltanto un temporaneo assentarsi, il distanziamento di un corpo, nella sua fisicità, da altri corpi ugualmente carnali e desideranti; la temporanea impossibilità di sfiorarsi, guardarsi, toccarsi, baciarsi ed amarsi, nella possibile presenza, tuttavia, di altre funzioni vitali che restituiscono l’assente nella sua contingenza reale, seppure sottoforma di surrogati tecnologici.

 La voce, per esempio, trasmessa in tempo reale dal telefono, con la musicalità, le inflessioni, i toni, gli intercalari conosciuti ed amati, la possibilità dell’interlocuzione. O le sequenze riprodotte da un videoregistratore, dove la consistenza corporale dell’assente, voce e movimento, seppure appiattita in immagini e suoni catodici, è restituita nella sua realità, in situazioni e luoghi che ne testimoniano la vita. O, ancora, e a maggior ragione, le videotelefonate, rese così comuni dalla diffusione dei computer e dal web, coniuganti e gli uni e gli altri aspetti, contemporaneità e realità, corpo e voce, mediati dalla tecnologia ma comunque presenti, in funzione di temporanee sospensioni dell’assenza, capaci di mitigare le sofferenze dei due poli distanziati, temporaneamente riavvicinandoli.

 Partire era un po’ come morire e il ritorno una resurrezione. Ma tra morte e resurrezione il vuoto, l’assenza totale. Per chi rimaneva la partenza-morte reclamava i rituali del lutto, dal pianto alla sospensione della vita sociale, per i diversi gradi del ritorno a una normalità mai piena. Il vuoto dell’assenza non era mitigato da surrogati, non essendo tale il rituale delle lettere ricevute e scritte, unico strumento di connessione diluito nel tempo, ripetitivo e formale come una preghiera recitata meccanicamente, senza trasporto; un’ave maria o un pater noster mandati a memoria da bambini e ripetuti senza conoscerne il significato. Qui, piuttosto, ripetendo parole sempre uguali perché non se ne conoscevano altre e ci si affidava a quelle poche cercando in esse sicurezza e vicinanza.

 Cara moglie / caro marito / cari genitori / carissimo figlio;

io sto bene e altrettanto spero di voi / dammi notizie dei bambini / come va la campagna / ti sono arrivati i soldi che ti mandai l’altra settimana? /  saluta tutti i parenti / un bacione ai bambini e appena puoi mandami una fotografia;

il tuo affezionatissimo marito / vostro affezionatissimo figlio;

 noi stiamo bene / i bambini crescono bene e mi fanno tanta compagnia / non ti preoccupare per i soldi, noi qui, come sai, spendiamo poco / tu, piuttosto, mangia bene e non farti mancare niente / copriti bene che lì fa freddo / ti salutano lo zio Rocco e la zia Assunta e tutti i parenti;

la raccolta delle olive quest’anno ha reso meno dell’anno scorso / ho fatto mietere il grano nel fondo … ne abbiamo tenuto tre sacchi per noi;

tua affezionatissima moglie / i tuoi genitori.

 Familiari e conoscenti sentono il vuoto dell’assenza perché non sanno (non possono) immaginare i luoghi e le persone che circonderanno l’assente. Ogni luogo e ogni persona hanno connotati indistinti, un paesaggio desolato, ostile, popolato da individui senza volto, ostili anch’essi, un luogo in cui vagano anime in pena. L’assente ha intrapreso un viaggio in uno spazio ultraterreno, solo e sperduto, senza la guida di un maestro che lo rassicuri e lo accompagni lungo il tragitto per riconsegnarlo, salvo e purificato, ai suoi luoghi e ai suoi affetti. Deve cercare la sua strada da solo, senza la possibilità di affidarsi a qualcuno. E solo di tanto intanto incontrerà qualche volto  noto, qualche paesano che come lui cerca la sua strada e percorre il tragitto che lo porterà, se sarà capace di un buon orientamento, alle porte d’uscita, sulla strada del ritorno.

I rimasti lo piangono come morto, ne parlano con accenti di rimpianto e toni insolitamente bassi perché quel corpo è assente e la foto incorniciata che campeggia sul vecchio comò allunga la processione dei lari che testimoniano la continuità della famiglia e il regno degli affetti. Memoria per i sopravvissuti, tacito insegnamento per i più piccoli, protezione celeste e intermediari presso l’altissimo contro le disgrazie di questo mondo che funestano senza preavviso e senza scampo le famiglie dei poveri. L’assente protegge con la sua intercessione, lavorando e rimettendone i guadagni; un miracolo periodico annunciato con l’avviso recapitato dal postino e scambiato in moneta frusciante dall’ufficiale postale, ambedue con seria e rispettosa partecipazione prodighi di richieste d’informazioni sull’assente.

 E quando pensa di tornare e come sta …;  come va la famiglia … ; e tu con una famiglia da tirare su da sola come te la cavi … e se ti pesa la lontananza … e se hai mai pensato di fare un viaggetto per andare a trovarlo … e guadagna bene tuo marito se riesce a mandarti ogni mese una bella sommetta … che dispiacere la lontananza, … una bella donna come te, sola …

 e via ammiccando con sguardi lascivi e toni suadenti.

 Chi partiva era distratto dalle esigenze del viaggio, dal senso di avventura che implicava, interiorizzava la perdita, sopita sotto un cumulo di stupore per riemergere potente appena questo avesse lasciato il posto alla quotidianità.

Per lui era più facile sopportare il trauma dell’assenza perché custodiva nei sensi e nel cuore un tesoretto di sensazioni, immagini, suoni, profumi, voci, che lo consolavano quando era assalito dalla nostalgia. Il suo pensare ai luoghi della nostalgia non era come pensare una landa desolata, muta, popolata da esseri senza identità. Il tesoretto, custodito con religiosa devozione, forniva le risorse per superare le difficoltà, accettare i sacrifici, sopportare le offese, convivere con la solitudine degli affetti.

Il migrante i suoi lari se li custodisce in segreto. Nel portafogli ha solo una foto dei bambini e della moglie che, col tempo, a furia di estrarla e riporla, si consuma e sbiadisce, ma è sempre sufficiente a ricordagli le ragioni dell’assenza.

I sacrifici non sono poi pesanti. La sua vita è stata programmata al sacrificio; i richiami della modernità, delle città scintillanti di luci e di divertimenti lo mettono a disagio e se ne tiene ai margini, si accontenta di guardare da lontano, quasi intimorito. Anche le offese possono essere tollerate. Una scrollata di spalle le fa scivolar via e uno sguardo nel forziere delle sensazioni custodite, un unguento più potente delle pozioni magiche, rimargina gli sfregi che possono aver provocato. Lui sa la sua diversità, la conosce e la rivendica, non vuole rinunciarvi; così come apprende e riconosce l’identità dei suoi ospiti. Si chiede solo perché qualcuno debba rivendicare la superiorità della propria condizione e sminuire il diverso da sé. Questo non riesce a capirlo e ne soffre perché ha imparato l’uguaglianza, ha creduto nella solidarietà e ne ha fatto condizione di vita.

E’ più difficile sopportare la solitudine: non l’essere soli, ma il non avere intorno qualcuno con il quale si è costruito una relazione affettiva: l’amicizia, l’amore, la solidarietà. E’ un peso che logora, che si sostiene pensando al momento in cui il cordone si riavvolge e l’assente ritorna. Il ritorno-resurrezione, l’inizio di una nuova vita, diversa da quella di prima e da quella pensata.

La stazione di Bologna

Booom, uno squarcio, una fiammata, grida, trambusto e poi silenzio, sgomento e polvere che ricopre lo scenario come un sudario e rende il luogo irreale, irriconoscibile, estraneo a quanti sono solo storditi dal botto, ai superstiti e ai soccorritori; ottantacinque esistenze di pendolari della longitudine dello stivale italico, figli delle migrazioni interne che hanno svuotato il mezzogiorno e intasato il settentrione, passano dalla gioiosa-incazzata-triste-felice-serena-faticosa quotidianità alla fissità di una lapide che li elenca per nome e cognome, un capitombolo nella storia, mentre anelavano a vivere la contemporaneità pur sapendola al di sotto delle aspettative, ingrata, dura, faticosa, anche se coscienti che avrebbero rivissuto per molte volte ancora e per una sequenza indeterminata di anni i disagi di quelle trasferte, le incazzature, gli smoccolamenti, le difficoltà, le complicazioni; e tutto intorno disseminati a caso, in una promiscuità irriverente, gli oggetti che raccontano quelle esistenze suscitando commozione intensa e vera, lacrime, rabbia, dolore infinito: un sandalo rosso da donna un peluche giornali e libri una maglietta sforacchiata con una scritta illeggibile una valigia aperta e semivuota uno zainetto a forma di cuore un paio di occhiali da sole un costume da bagno un panino con la mortadella e una brioche un telo da spiaggia un paio di pinne e dei sandaletti da mare una penna un cappello un biberon e una bottiglia di plastica contorta una pesca sfatta su un paio di pantaloni da uomo un portafogli una borsa da donna un mazzo di chiavi un regalo avvolto nella sua confezione lacerata un calzino un pacchetto di sigarette semivuoto un accendino una sveglia una macchinina un cruciverba un altro peluche un’altra scarpa e altro e altro in una sorta di replica monotona e uniforme, grigi (ad eccezione del sandalo rosso) sotto il sudario di polvere che li ricopriva; il racconto narrato per valori d’uso quotidiano e silenzio, staticamente filmato da pupille angosciate e incredule, poi da telecamere impersonali ma indugianti, quasi per pudore di disturbare la riservatezza (privacy) dei legittimi possessori, quando, tuttavia, quegli occhi veri o meccanici riuscivano a filmare soltanto l’esteriorità delle vite coinvolte, non ne potevano cogliere i vissuti personali le passioni le attese i progetti di vita le fantasie i sogni le paure le angosce i dolori le gioie la felicità la tristezza i tormenti le rinunce le aspettative le ansie le speranze gli amori gli odi i pensieri gli affetti le idee le amicizie le simpatie le propensioni le predisposizioni in un assemblaggio unico e personale per ognuna delle ottantacinque vittime innocenti, degli altri duecento feriti e di quanti hanno visto qualche brandello della loro esistenza oltraggiato nella promiscuità e nella polvere.

Ci impiegheranno più di vent’anni per riuscirci ma l’obiettivo sarà centrato, infine, con il suo corollario di dolore e di emarginazione, di inesorabile allungamento della colonna in marcia, di polarizzazione del potere e della ricchezza, di sconfitta delle speranze di cambiamento coltivate nel decennio precedente, anche a costo di incubare i germi di un’altra crisi economica, peggiore di quella Grande tra le due Grandi Guerre, e chissà se altrettanto mallevadrice di sconvolgimenti sociali e di sperimentazioni economiche.

 Boooom e si passa dalla vita alla morte, dalla morte alla cronaca e dalla cronaca alla storia, senza una ragione e senza averne colpa, o forse avendone un po’ ma chissà per quale alchimia di pensieri e di idee, di ragioni personali e politiche, di vuoto esistenziale e desiderio di affermazione, di odio per l’umanità e per se stessi, di frustrazioni ed esaltazioni, impastati con il lievito di un’ideologia del disprezzo per la vita e dell’indifferenza per gli altri, che ingigantisce il proprio ego malato e lo investe di una missione di dominio sulle masse inconsapevoli e minorate, vili strumenti al servizio dei dominatori e di entità superiori (la Nazione, lo Stato, la Razza, la Civiltà, naturalmente e rigorosamente con l’iniziale maiuscola) che le inglobano, delle quali essi – i dominatori – si ritengono gli interpreti, i custodi, gli amministratori, i sacerdoti, mentre ne sono soltanto i pretoriani, i cani da guardia, gli scherani e i carnefici, strumenti inconsapevoli di interessi meno ideologici, bassamente prosaici, che si declinano nel controllo delle condizioni di vita materiale, dei meccanismi della produzione e dell’accaparramento della ricchezza voluti dall’oligarchia internazionale del capitale riparata dietro il paravento delle corporations, società multinazionali e transnazionali, anonime secondo l’originaria denominazione ottocentesca, burattinaio reale, demiurgo e “grande vecchio” che pianifica nell’ombra i destini del mondo, mandante consapevole ed esigente delle scelte di governi e organizzazioni internazionali, apparentemente costretti nelle strettoie delle contingenze ma consapevolmente eterodiretti, beneficiari di qualche elargizione e di una limitata autonomia; come i cani, liberi di scorazzare e di correre fino al perentorio richiamo del padrone, un fischio e fido si ferma l’orecchio teso la testa girata all’indietro la zampa anteriore levata nel gesto interrotto del passo, immagine del tempo sospeso, un secondo fischio o un richiamo vocale e fido inverte la marcia raggiunge il padrone scodinzolando sicuro di averne una carezza o un bocconcino grato del premio confermato nella predisposizione all’obbedienza; a differenza dei cani, trattati con sufficienza e disprezzo, non riconoscimenti né riconoscenza per i servizi e la dedizione, solo un benservito altezzoso e stizzito quando le attese non sono soddisfatte e qualche elargizione come un osso gettato sotto la tavola imbandita alla quale avevano pensato di sedere da invitati permanenti e riveriti.

Immagini di altri treni si sovrappongono: partenze e lontananze, ritorni e ricongiungimenti, lacrime e sorrisi, e speranze; la speranza era lo sfondo comune di quelle immagini, in qualche modo e misura ripagata sia nelle attese individuali sia nella vicenda collettiva. Mario ricordava le attese, alla stazione, dei treni speciali (sempre in ritardo, ore e ore di attesa) provenienti  dalla Germania o dalla Svizzera che a Natale riportavano a casa centinaia di emigrati e ogni volta era una festa: baci e abbracci, tavolette di cioccolata e pacchetti di sigarette, consumazioni al bar e racconti di città sconosciute, di avventure, di personaggi, impegnati nel giro di saluto a parenti e amici sempre scortati da un corteo di ragazzini curiosi (e la festa era soprattutto per loro), un’attenzione per tutti, un buffetto, una caramella, l’aureola dei miracolati perché trascorrevano quei giorni in ozio, coi vestiti della festa. Come quella volta, dopo quasi due anni di assenza, quando era ritornato zio Nanu, elegante nel suo cappotto di panno e bello, un sorriso sfrontato che incantava, i capelli di un nero corvino pettinati all’indietro, il ciuffo ribelle non trattenuto dalla brillantina e il travolgente fiume di parole che non dà tregua agli interlocutori; lo aveva portato in giro raccontandogli le meraviglie delle città in cui era stato e le stazioni, i palazzi di dieci piani, i cinema, i locali da ballo, il lago che era quasi come il nostro mare solo un po’ più piccolo che si vede sempre l’altra sponda ma molto più vicina della costa dell’Albania che da noi si intravedono le montagne solo quando c’è tramontana e l’aria è trasparente come un vetro pulito dalla nonna con le pagine del giornale, e i fiumi larghi quanto non te li immagini con tanta acqua che scorre impetuosa che se ce l’avessimo qui le nostre terre produrrebbero tre raccolti all’anno, più che in Egitto nelle terre inondate dal Nilo, e invece ci tocca accontentarci dell’acqua raccolta nelle cisterne e di qualche pozzo in cui risale dalla falda alimentata dai fiumi carsici che sfociano nelle grotte sulla costa, quasi una metafora della nostra esistenza sottotraccia, essenziale, senza sfarzi ed eccessi, timorosa di essere e di apparire, che solo le parole di zio Nanu sanno raccontare e te la fanno vedere più bella di quanto credevi, migliore di quella vissuta nelle città straniere; e le Alpi che per attraversarle devi passare sotto infinite gallerie e il treno ci impiega ore e ore, prima sale su per le valli tra pareti di roccia ricoperte di alberi quasi fosse un tappeto, poi di colpo non vedi più gli alberi, ci sono soltanto le pareti di roccia e in lontananza ti sembrano le figure del tuo sussidiario, di là la montagna è diversa, meno aspra e si allarga nei pascoli fioriti che la rendono quasi ridente; ti aveva insegnato qualche frase in francese e in tedesco perché in ogni città della Svizzera si parla una lingua diversa e tu le ripetevi ai tuoi amici sfidandoli a capirne il significato: madamuasell vulèvu danzer avec muà? Guten morghen froilen, oi te gut spazziren, aufidersen; je siuì arrivè a la gar de Losanne ojurdiuì; vo ist di necste u ban haltestelle? ed era stato il tuo primo impatto col mondo delle differenze, degli spazi, delle distanze, che a undici anni ti emancipava dall’infanzia in cui le differenze, le distanze e gli spazi sconosciuti stavano nei racconti del nonno e nel sussidiario, relegate nelle sezioni di storia e di geografia, non potevano sembrarti reali, e ti proiettava nella vita adulta fatta di storie vissute, di consapevolezza e di responsabilità; e quante storie con la leggerezza del suo eloquio scanzonato e avvincente zio Nanu ti aveva raccontato in quel mese di vacanze invernali e nei ritorni successivi, in una sorta di apprendistato della vita in cui alla meraviglia e allo stupore facevano da contrappunto lo spaesamento, la fatica, la tristezza, l’emarginazione.

E poi ricordava altri treni speciali, stesse provenienze, in occasione delle elezioni politiche, addobbati di bandiere rosse, i treni della rinascita e del lavoro che vuole contare nella rinascita del Paese, a ogni stazione, da Milano a Bologna giù per la costa adriatica fino a Bari, Brindisi e Lecce, era un tripudio di bandiere, di canti, di comitati di accoglienza, di esaltazione politica, nella speranza di un cambiamento possibile, sempre vagheggiato e mai realizzato, di racconti, di confronti, di discussioni sulle riforme da fare; quei treni drappeggiati di rosso, le bandiere sventolanti ai finestrini durante la corsa, la serena consapevolezza che li abitava, sembravano arrivare direttamente dalle steppe innevate della Russia, avanguardie della rivoluzione proletaria, proprio come nel “Dottor Zivago” di David Lean, o in “Red, i dieci giorni che sconvolsero il mondo” di Sergei F. Bondarchuk, nella “La corazzata Potëmkin” di Sergej M. Ėjzenštejn; ma le partenze erano sempre un fatto privato, non c’era più festa, restava la speranza, l’ultima a morire, l’ultimo scoglio a cui aggrapparsi per non farsi travolgere dagli eventi e non naufragare, ma ogni volta più flebile, sopraffatta dalla delusione delle sconfitte. Erano, nonostante tutto, immagini di vita e di speranza, simboli di una stagione che guardava avanti, che ispirava fiducia, che voleva costruire e migliorare, l’opposto dell’immagine della stazione grondante morte e rassegnazione, sfiducia e paura. E un fatto privato diventeranno di lì a qualche anno tutti gli arrivi e tutte le partenze dei migranti, così le partenze e gli arrivi di Mario, di Nicola, di Giovanni, degli innumerevoli altri che continuamente ingrossavano la diaspora intellettuale di un meridione incapace di tenersi i suoi figli migliori e di progredire con essi; non c’erano delegazioni di familiari ad aspettarli alla stazione, né codazzi di ragazzini ammirati che li seguivano negli spostamenti durante le loro vacanze; c’era, e sempre più evidente col passare degli anni, l’estraniamento dagli ambienti dell’infanzia e della giovinezza: non riconoscevano più i luoghi, stuprati da un parossismo edificatorio senza qualità; non ritrovavano gli odori; non riconoscevano le persone; e così era anche difficile trattenere i ricordi, che tendevano a svaporare nell’uniformità del presente o a essere enfatizzati in contesti straniati, quasi un culto della memoria di un mondo in via di estinzione, mitizzato, e per questo la compagnia più cara e ricercata era quella dei vecchi con le loro storie, le parole desuete, ma di vecchi ne restavano sempre meno e i loro ricordi erano ogni anno più confusi e fumosi, uno stillicidio di angoscia, uno smarrimento ad ogni notizia di funerale, un pezzo di memoria perduto per sempre e un legame che perdeva ancoraggi, le gomene sfilacciate, irreparabilmente.

Le donne bosniache

 Dopo Leyla e Sabah in casa Corvaglia si materializzarono Jamila e la piccola Zudha che non aveva ancora compiuto due anni.

I nomi erano ancora fiori de “Le mille e una notte”, rievocavano suggestioni esotiche di harem e caravanserragli, veli trasparenti e fruscii discreti che interrompono parlamenti appena bisbigliati nella penombra di stanze ovattate da spessi tappeti di Shiraz, Mashad, Tabriz, Isfahan, di freschi giardini murati  in cui zampillano fontane di acque chiarissime convogliate in canali sinuosi e gli uccelli si danno convegno per dare sfogo ai canti rituali pavoneggiandosi nelle lucenti e colorate livree della stagione degli amori; quei nomi le avevano condannate insieme  alle innumerevoli file di donne che tenevano per mano bambini; tutti nomi da “Mille e una notte”:

 Jamila

Halima

Rahima

Samira

Fatima

Mahira

Emina

Kadifa

Amina

Esma

Jasmina

Farida;

 tutte in marcia forzata verso mete sconosciute …

 Jamila – 32 anni –

non sente la stanchezza, il peso di una bimba di due anni le è lieve nascosto sotto lo scialle che la protegge dal freddo, il suo incedere e il suo portamento sono eleganti anche nelle marce forzate e il viso trattiene sempre i segni di una bellezza forte, asciutta, che non sfiorisce

 … braccate da un destino inferocito che nel volgere di pochi mesi aveva stravolto le proprie fattezze pacifiche conviviali aperte riesumando da un cimitero con più di trenta milioni di croci le spoglie  volgari della violenza dell’odio etnico della contrapposizione religiosa …

 Halima – 24 anni –

riservata e gentile, stava sull’orlo del mondo in punta di piedi, pazientemente in attesa che il mondo si accorgesse di lei, lo sguardo lontano, forse vedeva le colline di Bosnia dove il suo bambino deve ancora trovare una tomba

 … seppellendo al loro posto nelle stesse fosse la ragione la convivenza la pace e pascendosi mostruosamente delle vite e del dolore di donne inermi dei loro bambini dei loro uomini indifesi …

 Rahima – 27 anni –

non era scappata di fronte alla disumanità della pulizia etnica, moderna Antigone e compassionevole,  aveva seppellito da sola, violando l’editto degli assassini, i cadaveri del nonno e del nipote di appena tredici anni senza alcun aiuto, che le altre donne non riuscivano a riaversi dal dolore: che strazio!

 … gli uomini non si vedevano nelle colonne marcianti, sì  qualche vecchio curvo e sdentato che non avrebbe potuto neanche imbracciare un fucile … 

 Samira – 34 anni –

compagna ospitale, la tua casa era il riflesso rotondo del tuo nome, hai dovuto abbandonarla in tutta fretta, chissà se i suoi nuovi inquilini sapranno onorarla con l’accoglienza che tanto ti era cara

 … chi lo avrebbe potuto fare era stato eliminato sul posto o si era dato alla macchia o aveva tentato di organizzare un’impossibile resistenza conclusa nelle fosse comuni nei campi di concentramento nelle trincee di un fronte mobile che non era disegnato su nessuna mappa …

 Fatima  – 28 anni – 

colei che divezza i bambini, che porta nel grembo una fortuita speranza di vita frutto consapevole dell’ultima ora d’amore con l’uomo che l’avrebbe aspettata che voleva invecchiare con lei e che ora giace nella nuda terra in qualche ignota fossa comune

 … tutte donne in colonna con le loro lunghe gonne colorate fiorite sovrapposte a più strati come le vesti della madonna dei sette dolori i corpetti ricamati chiusi fino al collo i foulard stretti intorno alla testa a contenere chiome di capelli fluenti morbidamente raccolti in una sacca sapientemente costruita per custodirne la lucentezza …

 Mahira – 35 anni –

possedere la vita era stato il suo motto, l’aveva cavalcata al galoppo incurante delle difficoltà, spavalda; vitale è il suo nome ma gli eventi l’avevano disarcionata lasciandola sofferente sul terreno, incredula, incerta, impaurita 

 … l’espressione seria del viso di tutti i visi nessuno escluso rendeva solenni quelle processioni senza santi e senza stendardi, avresti creduto che fossero dirette in qualche luogo di culto pagano strettamente riservato alle donne (una grotta, una radura nel fitto di un bosco dove erano visibili i resti di precedenti presenze, un pilone rupestre collocato all’incrocio di due-tre sentieri nel fondo di una valletta riparata ai piedi di basse colline alberate) per ingraziarsi o ringraziare gli dei pagani della fertilità muliebre (e chi ringraziava portava i bambini con sé); le uniche presenze maschili tollerate erano quelle infantili se si esclude la presenza dei vecchi in testa alla colonna nel duplice ruolo di guida durante la marcia e di gerofanti nel corso della cerimonia rituale …

 Emina – 45 anni –

aver fiducia è il segno del suo nome e aveva fiducia soprattutto negli uomini bosniaci che erano rimasti a combattere, dei quali aveva una nostalgia struggente

 … alte e fiere segnate da una tristezza inconsolabile perché non conoscevano la causa della loro sventura che aveva assunto i volti familiari dei vicini di casa dei compagni di lavoro (di parenti perfino) con i quali fino a ieri avevano festeggiato il bayram gustando la dolce e mielosa baklava e i “natali” che si inseguivano alla fine dell’anno e le altre feste delle tradizioni religiose che arricchivano la cultura bosniaca, … 

 Kadifa – 23 anni –

dalla pelle bianco-rosata, sottile, vellutata, tenera come un petalo, che vibra all’incedere dei passi felpati e al suono morbido e armonioso della voce; regala sogni proibiti che si dissolvono all’alba lasciando dietro sé l’incantamento e desideri insoddisfatti

 … incredule che fosse possibile un cambiamento così repentino e inspiegabile: dalla comunanza di vita al ripudio della conoscenza, inconsapevoli che il male non ha radici ed è banale nel suo farsi perché si nutre dell’abulia dei suoi agenti (umani? subumani?) che rinunciano e proprio perché rinunciano a interrogarsi sulle ragioni e sugli effetti delle loro azioni assumendole come un dovere imperativo al quale è impossibile sottrarsi; però consapevoli (le donne) del compito che dovevano assolvere custodito nelle mani che guidavano i bambini o tra le braccia che li cullavano e li consolavano; ….

 Amina – 34 anni –

lei non dimenticò, mantenne fede al suo impegno, rimase fedele al suo giuramento ed attese che la guerra finisse e quando finì il regalo più bello fu di potersi  ricongiungere al suo uomo per curarlo delle ferite che la guerra aveva inciso nella sua psiche

 …le colonne in marcia erano mute non c’era spazio per le facezie né per la parola d’incoraggiamento o di conforto o di recriminazione per la durezza del destino o di maledizione per la crudeltà dei persecutori, si stava in silenzio concentrandosi sulle asperità del sentiero passo dopo passo per resistere alla fatica e raggiungere in fretta la meta cioè la salvezza …

 Esma – 29 anni –

occhi e capelli corvini, un incarnato che la distinguevano dal resto del gruppo, un’eccezione bruna in una regola chiara, un corpo minuto in un panorama di altezze robuste, una tristezza sconfinata nei suoi occhi neri

 … si stava in silenzio per evitare che la colonna marciante fosse individuata dalle bande di cetnici che pattugliavano il territorio con meticolosità e furia vendicatrice, come le baccanti assetate di sangue e di scempi, impegnate senza sosta nella pulizia etnica risarcitoria dei secoli di dominazione del turco nemico della vera fede (e nel frattempo, che non c’è niente di male in fondo nei confronti dei pidocchi di un’altra etnia[1], li si depreda dei propri averi e si stuprano le donne) …

 Jasmina – 31 anni –

dono di dio, ma per lei quel nome era diventato un fardello insopportabile che la obbligava a marciare e a subire, cacciata dalla sua casa in balia degli eventi costretta ad andare chissà dove, girando senza meta per le colline di Bosnia e poi in qualche campo profughi se prima non le fossero incorsi mali maggiori

 … le colonne in marcia si assottigliano a ogni posto di blocco improvvisato da bande che si credono esercito mentre sono branchi famelici accecati da un odio senza fondamento che nella violenza hanno trovato una ragione di vita, donne immolate alla bieca furia dell’alcool e della cupidigia al dio della razza che le vuole incubatrici di seme straniero fattrici di figli non voluti testimoni viventi della loro colpa sostituti di quelli che avevano guidato per mano fin lì dai quali sono state separate a viva forza cullati ed amati tuttavia …

Farida – 27 anni –

perla rara, marcia con ostinazione, non si lascia sopraffare dalle asperità né dalla  triste realtà; sa che alla fine vincerà la ragione ma ha paura che intanto i deboli e i buoni soffriranno molto.

 Saranno più di mille e una le notti della loro sofferenza e poi dura ancora perché non c’è rimedio a quel dolore e a quella violenza, si annida nel cervello e continua a ronzare senza sosta come un calabrone impazzito chiuso in una bottiglia; quelle notti non hanno avuto un racconto né forse saranno raccontate, saranno rivissute in altre notti d’insonnia con i crampi allo stomaco gli arti paralizzati dal dolore gli occhi sbarrati dal terrore, notti seppellite nel profondo delle loro coscienze per impedire che i crampi le paralisi il terrore prendano il sopravvento anche di giorno rubino anche quel poco di vita riconquistata maltrattino l’esistenza dei bambini salvati da quella violenza; né i giorni d’altronde troveranno un racconto prevale il desiderio di dimenticare le offese troppo grandi inspiegabili per non soffrire e per non esporsi all’incredulità di chi ascolta perché si ha paura di mettersi a nudo di fronte a chi potrebbe non capire e allora il ricordo che non si fa racconto ti rode dall’interno e ti consuma ti toglie letteralmente la vita qualche volta gettandola nella tromba delle scale o sotto un treno o la si consegna al calore di una vasca da bagno  come  fosse uno straccio consunto e inutile che non interessa più a nessuno.

E’ indicibile la tragedia vissuta perché troppo grande, non ci sono le parole per narrarla;  se non è narrabile non è riducibile a racconto e rimane solo l’orrore di tale disumanità da non poter essere ridotta a un linguaggio  comunicabile tra gli uomini: la parola è annientata e lascia posto soltanto all’orrore.


[1] Il termine ‘pidocchi’ non fu usato nella guerra bosniaca durante l’opera di pulizia etnica, era stato utilizzato in Rwanda nel

la guerra civile tra Hutu e Tutsi coeva di quella bosniaca, ma è significativo della concezione dell’altro sottesa a ogni espressione di odio razziale che teorizza e giustifica le eliminazioni fisiche, i mutilamenti, le spoliazioni economiche, i trasferimenti forzati, gli stupri. In altri casi si è parlato di ‘ratti’, di ‘sanguisughe’ ecc. evidenziando una condizione parassitaria che giustifica l’opera di disinfestazione che salvaguarda gli interessi nazionali.

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