martedì 12 aprile 2022

L'incipit di "Andavamo lontano"

Il tempo era uggioso, di quelli che può riservarci soltanto un cattivo novembre.

Il mare, pulito nella sua bianchezza, si ristorava per l’insolita assenza del vento e giocava a disegnare magici cerchi perfetti avendo compagna una pioggia sottile e fastidiosa.

Tutto il paesaggio aveva un aspetto incantato, monotonamente fermo e irrespirabile, quasi fosse stanco di agitarsi e di vivere, alla maniera dei vecchi, che, seduti agli ultimi raggi del sole, si immergono in una contemplazione vuota di immagini, lo sguardo più lontano e più indietro possibile, fermi e odorosi di morte.

La pioggia purificatrice sembrava avvolgere la materia, liquefacendola e annullandola, rivendicando a sé il primato della vita. Era l’assolutezza di un momento che dominava una quotidianità senza scampo, pure così familiare e destinata a sparire, dilavata e annullata: elementi e tempo, né materia né storia, dimenticata dalla moltitudine eppure storia, perché passata e ricordata, non fosse altro che per la sua presenza nella memoria (la mia, affidata a questo foglio e indelebilmente marcata); e ancora lì: stessi scogli e stesso mare, stessi alberi e stesse case, guardati con indifferenza o con compiacimento, ma sempre fuggevolmente, uso e consumo di un momento, tutto, anche l’essere stati.

Ricordo quel momento ma non per fermarlo. Si ripropongono tanti momenti che nel ricordo posso paragonare; ricordo perché ciò che è stato non è più, irrimediabilmente perduto, assorbito nell’indifferenza, selvaggiamente trascinato all’assopimento.

Immobili gli uomini, costretti involontariamente all’inerzia.

Avevano guardato il cielo di buon’ora ed erano tornati a stendersi nel letto aspettando inutilmente un sonno nuovo cui non s’erano giammai abituati. Avevano scambiato qualche moncone di frase a mezza bocca con le mogli che ciondolavano assonnate per casa e s’erano alzati cercando già nella mente un’occupazione casuale che riuscisse a distrarli almeno fino all’ora di pranzo.

Erano tutti uomini di quella tempra la cui fatica corre il solco del sole e tutti spavaldamente liberi in un’immensità di orizzonti che non conosceva il limite di un orario, rispettava quello codificato da una pratica antica e mai imposta. Ma un nugolo di ore lente e inutili sono insopportabili, un castigo peggiore di un orario da rispettare o di un ordine a cui obbedire.

Si muovevano coralmente e pensavano con la stessa insistenza alle medesime cose, guidati da una regia inflessibile quanto invisibile, su un palcoscenico immenso e aperto a una platea sterminata e vociante, assente ai loro occhi, mimetizzata, partecipe e critica.

Si ritrovarono a piccoli gruppi nei tre rifugi consueti, spinti dalla noia e dalla necessità di sentirsi vicini, fuori di casa, per avere dappresso qualcuno a cui affidare quella pena segreta, per poi tutti insieme esorcizzarla con la forza e la gravità dei problemi comuni.

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