Il tempo era uggioso, di quelli che può riservarci soltanto un cattivo novembre.
Il mare, pulito nella sua bianchezza, si ristorava per l’insolita assenza del vento e giocava a disegnare magici cerchi perfetti avendo compagna una pioggia sottile e fastidiosa.
Tutto il paesaggio aveva un aspetto incantato, monotonamente fermo e irrespirabile, quasi fosse stanco di agitarsi e di vivere, alla maniera dei vecchi, che, seduti agli ultimi raggi del sole, si immergono in una contemplazione vuota di immagini, lo sguardo più lontano e più indietro possibile, fermi e odorosi di morte.
La pioggia purificatrice sembrava avvolgere la materia, liquefacendola e annullandola, rivendicando a sé il primato della vita. Era l’assolutezza di un momento che dominava una quotidianità senza scampo, pure così familiare e destinata a sparire, dilavata e annullata: elementi e tempo, né materia né storia, dimenticata dalla moltitudine eppure storia, perché passata e ricordata, non fosse altro che per la sua presenza nella memoria (la mia, affidata a questo foglio e indelebilmente marcata); e ancora lì: stessi scogli e stesso mare, stessi alberi e stesse case, guardati con indifferenza o con compiacimento, ma sempre fuggevolmente, uso e consumo di un momento, tutto, anche l’essere stati.
Ricordo quel momento ma non per fermarlo. Si ripropongono tanti momenti che nel ricordo posso paragonare; ricordo perché ciò che è stato non è più, irrimediabilmente perduto, assorbito nell’indifferenza, selvaggiamente trascinato all’assopimento.
Immobili gli uomini, costretti involontariamente all’inerzia.
Avevano guardato il cielo di buon’ora ed erano tornati a stendersi nel letto aspettando inutilmente un sonno nuovo cui non s’erano giammai abituati. Avevano scambiato qualche moncone di frase a mezza bocca con le mogli che ciondolavano assonnate per casa e s’erano alzati cercando già nella mente un’occupazione casuale che riuscisse a distrarli almeno fino all’ora di pranzo.
Erano tutti uomini di quella tempra la cui fatica corre il solco del sole e tutti spavaldamente liberi in un’immensità di orizzonti che non conosceva il limite di un orario, rispettava quello codificato da una pratica antica e mai imposta. Ma un nugolo di ore lente e inutili sono insopportabili, un castigo peggiore di un orario da rispettare o di un ordine a cui obbedire.
Si muovevano coralmente e pensavano con la stessa insistenza alle medesime cose, guidati da una regia inflessibile quanto invisibile, su un palcoscenico immenso e aperto a una platea sterminata e vociante, assente ai loro occhi, mimetizzata, partecipe e critica.
Si ritrovarono a piccoli gruppi nei tre rifugi consueti, spinti dalla noia e dalla necessità di sentirsi vicini, fuori di casa, per avere dappresso qualcuno a cui affidare quella pena segreta, per poi tutti insieme esorcizzarla con la forza e la gravità dei problemi comuni.
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