lunedì 11 aprile 2022

L'incipit di Nero di rabbia

 

Adelfo

Costretto in questo cesso di cella, umida e puzzolente, dove non ci si può neanche girare, passavo il tempo sulla branda immerso nei cupi pensieri di una reclusione immeritata, perché non si può marcire in carcere per un acceso scambio di vedute con un negro insolente, provocatore di anziani indifesi. Dalla piccola finestra, sarà larga appena cinquanta centimetri per ottanta di altezza, posta in alto che non ci si può affacciare, si intravedono otto rettangolini di un cielo indefinito che proietta all’interno una luce sfocata, lattiginosa.

Ho imparato a distinguerne le sfumature, sono impercettibili; un occhio allenato ci legge le ore, distingue l’alba e il tramonto nella tenue coloritura rosa riflessa dalle nuvole basse, ferme sull’orizzonte. L’alba, abituato a dormire fino a tardi, la vedevo poco, ero più pratico di tramonti, e poi di notte facevo sempre le ore piccole, in giro con gli amici per locali, mai fermi, alla ricerca di esperienze ed emozioni speciali, esclusive, spesso vane o deludenti, frivole e vuote in fondo.

Da quando sono in carcere, sono solo pochi mesi ma lunghi come un tempo infinito, mi capita sempre più spesso di svegliarmi col riverbero soffuso dei primi bagliori rosseggianti dell’aurora. Non entra mai un raggio di sole dalla finestra, neanche un raggio riflesso, solo una lama infuocata che ammicca su quei venti centimetri di muro che ne delimitano il vano esposto a nord-est.

Qualche volta l’alba l’ho vista, l’ho attesa con gli amici dopo una notte brava, si andava al mare o in montagna, ci si sedeva per terra infreddoliti e storditi dal fumo e dall’alcool, infine cornetto e cappuccino, l’atto conclusivo che segnava il ritorno a casa e la conquista di qualche ora di sonno… e degli inevitabili rimbrotti di padri e madri, mai stanchi di rompere, che non l’hanno mica capito che i loro insegnamenti non c’interessano, che vogliamo chiudere con la loro vita da schiavi.

A vedere l’alba ci sono andato un paio di volte con Giulia, la mia fidanzata. Era stato bello, ma ora lei mi ha lasciato per quella cazzata dell’avvertimento a una merda di spacciatore negro che ha minacciato mio padre.

Per una cazzata mi fanno marcire in prigione, ammuffito come le pareti della cella, verde di bile per questa rabbia che mi spappola il cervello, manda a puttane ogni proposito di resistenza.

Per fortuna c’è lei, mia sorella.

Lei non mi rimbrotta né mi abbandona, mi comprende e mi accompagna, che se non ci fosse stata lei al gabbio ci sarei finito prima e per motivi più seri, perduto a trent’anni nelle secche di un’esistenza rancorosa e inutile, come mamma e papà, invecchiati anzitempo, corrosi dalla fatica, dall’incertezza e dall’insoddisfazione. Povera mamma, costretta a una vita di stenti e delusioni. Di delusioni gliene ho date tante anch’io, ma lei non me le ha mai fatte pesare, non mi ha fatto mancare la dolcezza della sua comprensione, del suo incitamento. Con papà è diverso. Lui non mi capisce, è ostinato, bloccato nella sua visione ideologica limitata ai confini della fabbrica: lavoro e salario sicuro. E poi guarda come è andato a finire, povero diavolo. Mi fa pena e mi fa rabbia, ma la rabbia è più forte, reagisce impulsivamente alla sua pretesa. Voleva che seguissi le sue orme, voleva ingabbiarmi in questo sistema annichilente che ti succhia l’anima, un piccolo robot inquadrato e ubbidiente, in fila per due, lavoro e famiglia, come se la vita fosse tutta lì, una continua lotta per la sopravvivenza, mangiare e dormire e qualche volta scopare e fare figli e poi allevarli come robot più evoluti per consegnarli docili e pazienti alla schiavitù del lavoro. L’ho deluso lo riconosco, e questo non me lo ha mai perdonato. Si arrovella sul suo fallimento, si chiede dove ha sbagliato, che cosa non ha fatto per condurmi sulla retta via. Non si accorge, povero diavolo, di essere il residuo di un’altra era, un sopravvissuto che non può indicare alcun percorso sulla sua strada senza vie d’uscita e senza mete, intrappolato in un vicolo cieco con alle spalle le macerie di una vita, un panorama desolato dove non c’è più niente da conservare.

Mia sorella invece non ha deluso nessuno. Lei ha fatto la sua strada. Certo, è sempre stata una gran gnocca, e questo in certi ambienti aiuta, ma l’ha salvata soprattutto la sua determinazione. A quarant’anni può ancora ostentare bellezza e classe, frequentare i giri che contano e, nonostante suo marito sia solo un grigio burocrate comunale, con la sua piccola agenzia immobiliare ben inserita nel mercato delle case di lusso si è assicurata una posizione invidiabile. Con lei mamma e papà non hanno mai niente da dire, se la prendono sempre con me, anche se ci provo a seguirne le orme. Qualcosa non quadra. Forse si sentono in diritto di starmi con il fiato sul collo perché a trent’anni abito ancora con loro? Come se non fosse già abbastanza complicato vivere in questa società di merda che ci hanno lasciato.

 




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