lunedì 11 aprile 2022

L'Anteprima di Nero di rabbia

 

Adelfo

Il padre

Hassan

La figlia di Hassan

La fidanzata

Adelfo

Steso su questa branda di costrizione sento i chiodi della paura conficcarsi nella mia carne, mi costringono a ripercorrere le stazioni del calvario che mi ha sprofondato in questo limbo di assenze, in questa inutile attesa senza speranza che mi brucia dentro come un magma indomabile prima di riversarsi in colate incandescenti sulle malsane distese del mio pensiero oltraggiato dall’apatia. Non dall’apatia di questa inattività forzosa; ché mai come nelle pianure deserte e silenziose del mio limbo, nella solitudine forzosa del mio vagare ho potuto riconoscere brandelli di pensiero che pur nella loro incompletezza, quasi deboli vaticini di una sibilla scanzonata che qui e là, per il suo divertimento, li affida al vento, hanno saputo orientare la comprensione dei fatti che mi inchiodano a questo tavolaccio di tortura. L’apatia vera è quella di prima, quella che mi ha consumato giorno dopo giorno nei venti anni della mia vita cosciente, in cui di cosciente c’era solo l’arroganza di pretese ingiustificate, il ritenermi investito per diritto di nascita di un destino privilegiato, privo di ostacoli e obblighi, ricco di successi e di ricchezze, di gloria e di onori.

La prima stazione è il ricordo dei giorni precedenti la manifestazione del CAR, quando il desiderio di compiacere mia sorella e le attese del suo palazzinaro mi aveva proiettato in una dimensione che non mi riconoscevo, che non m’interessava. Nell’inoltrarmi lungo i sentieri melmosi di quell’impegno non mi accorgevo di allontanarmi dall’unica oasi di consapevolezza che sapeva arginare la mia arrogante inesperienza del mondo e ridimensionare i miei comportamenti irresponsabili che spesso mi esponevano nudo alle imboscate degli eventi.

Giulia è stata importante per me, una presenza nel tempo, fin dai giorni lontani della nostra esuberante adolescenza. Lo è diventata di più, il centro gravitazionale intorno al quale la mia esistenza cercava un’orbita stabile, quando la sua tranquilla bellezza e il suo fare pacato di donna assennata e decisa, incurante delle difficoltà del nostro vivere ai margini, decisa a superarli e annullarli, ha iniziato a schiarire il mio tempo e a lanciarmi segnali inequivocabili che il mio essere torpido stentava a tradurre, che il tempo s’incaricò di decifrare mostrandoli per quello che erano, se al solo vederla le mie gambe s’infiacchivano e il cuore iniziava a battermi forte. Lei continuava a dire che il mio centro di gravitazione è mia sorella, mi rimproverava per la mia dipendenza, per la mia incapacità di emanciparmi.

È successo cinque anni fa. Sono cinque anni che ci siamo innamorati. Che me ne sono innamorato io, per lo meno, perché lei non mi vedeva. Le ho fatto una corte spietata, alla fine è caduta, ma ha sempre mantenuto nei miei confronti una dose di scetticismo, come se non ci credesse. Le piacevo, però; amava il ragazzo dolce e affettuoso delle nostre serate solitarie, lontani dalle volgarità e dai riti delle movide, delle discoteche, dei gruppi di amici caciaroni e arroganti. Soprattutto non sopportava i miei amici e ha tentato di tutto per staccarmene. Ma come facevo a rinnegare le amicizie di una vita nate sui banchi della scuola elementare, sui campetti dell’oratorio, continuate nelle strade della nostra adolescenza disastrata, approdate ai trent’anni con la pesantezza di un male di vivere incompreso? Dopo i vent’anni non ne avevo più condiviso le scelte. Erano scelte radicali, estreme, dissonanti con la storia del nostro quartiere e delle nostre famiglie, che non condividevo. Non ritenevo vitali, adeguate al nostro tempo, neanche le idee della nostra tradizione di famiglie proletarie. Ci avevano deluso le idee e coloro che le impersonavano a livello politico, al centro e nelle nostre periferie abbandonate. Avevano deluso anche i nostri genitori che lo vivevano come un tradimento e ne avevano nostalgia e speravano. Avevano sperato e intanto sperimentavano la protesta e l’infedeltà. I miei amici no; loro erano stati inconsapevolmente radicali, una torsione di centottanta gradi, passando direttamente dalla nebulosità adolescenziale ai riti organizzati dello stadio alle guerriglie urbane delle domeniche pomeriggio fino, come se ne fosse lo sbocco naturale e inevitabile, alla militanza politica dalla parte che mai i loro genitori avrebbero pensato, che non seppero mai come contrastare.

La seconda stazione mi ferma nei pressi della palazzina liberty. Pensai di indirizzare l’attenzione dei miei amici ultras sulla palazzina e sugli immigrati, ma non me la sentivo di espormi e di coinvolgermi fino all’identificazione. Feci un errore, questo sì, confidando all’amico più caro, la ragione del mio interessamento, ma era evidente, lo avevo dichiarato, che il mio interesse guardava ai futuri destini del quartiere, non agli interessi del palazzinaro. In ogni caso mi sono defilato lasciando ai frequentatori del circolo ultras il compito di organizzare e mobilitare il quartiere sulle parole d’ordine a loro più congeniali.

La terza stazione m’inchioda all’ineluttabile. Ho cercato di restare nell’ombra anche perché sapevo che non ci sarebbe stata possibilità di conciliazione su quel terreno, che Giulia non avrebbe mai approvato, né condiviso la mia scelta. Perché lei era tra quelli – con l’associazione di cui faceva parte: le Ostinate Presenze – che non rinunciavano a credere nella possibile rinascita del quartiere, che erano stati in prima fila nel portare soccorso e amicizia a quei “poveri ragazzi segnati da un destino avverso”. Questo lo diceva lei, non io. Ne avevamo discusso a lungo, scontrandoci, scontando la distanza che ci separava, che tendeva ad approfondirsi nonostante i miei goffi tentativi di minimizzare; quando era evidente che minimizzare non sarebbe servito a niente, che eravamo destinati ad allontanarci come due barche alla deriva nella tempesta, dapprima sballottolate dalla forza dei marosi l’una contro l’altra, per poi prendere abbrivi diversi, traiettorie divergenti che le avrebbero allontanate.

Diceva Giulia con convinzione e trasporto perfino esagerati: Se non comprendi che le migrazioni sono un processo inarrestabile la cui forza propulsiva si alimenta di condizioni oggettive che non temono ostacoli, vivi fuori dal mondo; ti illudi che sia un problema di polizia e di controllo delle frontiere, quando è una questione di civiltà, di rapporti, di soprusi, di modelli di sviluppo, di responsabilità dell’occidente accumulate in secoli di spoliazioni, di sperequazione nella divisione internazionale del lavoro e nella definizione delle ragioni di scambio.

Ed io: Ma Giulia, non capisco neanche quello che dici. Cosa vuoi che ne sappia di ragioni di scambio, di sperequazioni e di modelli di sviluppo. Quello che so è che non possiamo accogliere tutti, che non possiamo accoglierli qui da noi che siamo sommersi dai problemi, ne abbiamo più di loro e non riusciamo a risolverli.

Stump! L’urto delle barche.

Di nuovo Giulia: Pensa quello che vuoi, ma non puoi nasconderti dietro l’ignoranza per non vedere la realtà. Se fai come lo struzzo rinunci a comprendere e ti adagi nelle convinzioni sbagliate, diffuse da una propaganda interessata che dei problemi di giustizia e diritti se ne fa un baffo.

E ancora io, scettico e disincantato, volutamente evasivo:

Sono problemi più grandi di noi, Giulia. Viviamo la nostra vita meglio che possiamo, e i neri facciano altrettanto a casa loro.

Stump! Un altro urto, mentre sentivo i lamenti sinistri del fasciame della mia barca che si allontanava dall’altra.

E poi altri urti ancora e altri, fino a quando, per il movimento di un’onda capricciosa l’urto fu mancato e le barche presero abbrivi diversi, traiettorie divergenti che le allontanarono.

Beh, quando al circolo, la sera prima della manifestazione contro i rifugiati, hanno scherzato su Giulia mi sono proprio incazzato. Che non volessi andare alla manifestazione e non avessi partecipato all’assemblea di quartiere per via di Giulia era vero. L’avevo negato con gli altri e lo negavo a me stesso ma devo riconoscere che era vero. Me lo nascondevo dicendomi di voler evitare che per il mio tramite si potesse risalire a mia sorella e al suo amico, ma in cuor mio sapevo, oh se lo sapevo, che la ragione era Giulia. Tuttavia me ne adontai quando il mio amico mise a nudo la mia ipocrisia con quella semplice frase: Per la tua fidanzata?

La sonora risata collettiva che risuonò nella sala mi fece male. Non tanto perché esprimeva un giudizio di disapprovazione nei confronti di Giulia considerata una nemica da combattere e annullare, e neanche perché quella disapprovazione riguardava me e il nostro rapporto; quanto perché sapevo che era vero e che in quel modo cercavo ingenuamente di tutelare il nostro rapporto, di tenerlo al riparo di una possibile causa di dissidio, come se bastassero le apparenze o i sotterfugi a nascondere la realtà.

Alla manifestazione non ci andai, passai il pomeriggio in compagnia di Giulia, ma non fu sufficiente – come poteva esserlo? – a scongiurare l’inevitabile allontanamento delle nostre due barche alla deriva.              

 

Il padre

Tornavo a casa con mia moglie, un tardo pomeriggio come tanti, dopo aver fatto il solito giro per commissioni. Le strade del quartiere erano insolitamente tranquille in quell’ora incerta sul far della sera quando la luce del giorno si affievolisce; si sentiva chiaro il cinguettio degli uccelli tra le chiome degli alberi, non c’erano bambini per strada. Da alcuni giorni, sul far della sera, il quartiere non era più lo stesso, ma neanche di mattina e neanche di pomeriggio. Di sera, al buio, nelle strade poco illuminate, già da tempo si faceva il deserto, da quando strade e piazze e giardini erano diventati gli store dello spaccio di droghe. Ma da quando nella palazzina liberty era stato ospitato un gruppo di rifugiati, nel quartiere si respirava un’aria pesante anche di giorno e malcontento e rabbia e paura. Erano ancora latenti e inespresse, sufficienti in ogni caso a suggerire alle madri di tenere in casa i ragazzi, a suggerire alle giovani donne di non circolare da sole per le strade poco frequentate. Osservavo e ne parlavo con mia moglie quando nel mio campo visivo entrò una figura che si allontanava dal marciapiede antistante i giardinetti pubblici, diretto verso il muro laterale del condominio che al terzo e ultimo piano ospita la nostra modesta casa popolare. La seguii senza farci caso, come succede quando in uno scenario immobile qualcosa incomincia a muoversi, fino al momento in cui si fermò contro il muro in una zona d’ombra, le spalle alla strada quasi fosse intento a leggere un messaggio scritto sul muro. A quel punto iniziai a farci caso. Guardai con attenzione e notai che l’interesse dell’uomo non era rivolto al muro, qualunque ne fosse la ragione, era concentrato su di sé, intento a tirare giù la cerniera dei pantaloni per liberarsi dall’urgenza urinaria. Perché proprio lì? mi dissi, mentre un moto di disappunto mi pervadeva costringendomi a chiarire la questione. Mia moglie non si era accorta di nulla, guardava verso il portone d’ingresso del condominio, concentrata sulle riflessioni che stavamo facendo.
Vai pure a casa senza fermarti – le dissi – devo chiarire una questione.
Lei intuendo la direzione verso cui era diretto il mio interesse si avvide della figura urinante e senza darle soverchia importanza, rispose: Rinaldo lascia perdere, andiamo via.
Non l’ascoltai, non potevo lasciar perdere, tanto più quando accertai che l’indistinta figura di prima era quella di un immigrato di colore, forse uno di quelli della palazzina che tanto in apprensione avevano messo l’intero quartiere. Lo raggiunsi quando stava per ricomporsi. Un rivolo di piscio schiumante si era raccolto ai piedi del muro e si inoltrava sul marciapiede esalandone un tanfo pungente.
Perché la stai facendo proprio qui, sotto gli sguardi di chi passa o di chi ti può vedere dalle finestre? gli dissi con la voce alterata dall’indignazione lievitata nel tempo breve impiegato per raggiungerlo.
Mi rispose con calma, mentre tirava su la cerniera dei pantaloni e mi guardava dritto in faccia con un’espressione quasi divertita. Disse: E tu che cazzo vuoi? Me la stavo facendo addosso e non sapevo dove andare.
Cercai di contenere l’irritazione. Dissi: Si dà il caso che io abiti proprio in questo palazzo e non mi va che il muro sia usato come una latrina.
La seconda risposta dell’extracomunitario impenitente fu ancora più irriguardosa della prima. Disse: Lasciami perdere, nonnetto. Torna a casa che tua moglie t’aspetta e se tardi si preoccupa.
Al sentirmi chiamare “nonnetto” m’indispettii ancora di più, probabilmente diventai rosso di rabbia e mi lasciai andare a parole che non avrei voluto dire, che non riuscii a reprimere perché venivano su dal profondo.
Dissi: Non sono tuo nonno e non permetterti di chiamarmi così. Se vuoi trovare il tuo “nonnetto” tornatene in Africa che qui facciamo volentieri a meno di te e di tutti i neri che insudiciano il quartiere e la città.
Hai qualche problema con gli africani, nonnetto? continuò con un tono di scherno che non sopportai e allora gli riversai addosso tutta la rabbia e il risentimento accumulati in tanti anni di esasperazione per la merda che avevo mangiato in fabbrica, fino all’attuale condizione di esodato in cui mi dibatto senza speranza.
Dissi: Ce ne create fin troppi di problemi. Rubate il lavoro ai nostri figli, li avvelenate con le droghe. Ti conosco, sai. Sei quello che spaccia nel giardino di fronte e se non ti comporti come si deve non ci metto niente a denunciarti alla polizia.
A quelle parole lo spacciatore, punto sul vivo, passò repentinamente dal precedente atteggiamento calmo e condiscendente a uno più torbido e arrogante. Eravamo a meno di un metro uno dall’altro, divisi come da una frontiera dal rivolo di piscio. Con uno scatto inaspettato fece un passo verso di me, varcò il rubicone della sua collera montante, mi spintonò facendomi arretrare e disse: Cos’hai detto, nonnetto?
L’accenno di violenza mi lasciò senza parole, un groppo alla gola m’impediva di ribattere come avrei voluto. Avrei voluto dire che non avevo paura di lui, che doveva smetterla di spacciare sotto le finestre di casa mia, invece non riuscii a dire niente. Feci solo un debole e incompleto movimento con le braccia, come un riflesso condizionato di risposta al suo precedente spintone. Non lo toccai. Fu lui a impedirmelo con un rapido movimento di una mano, spostata velocemente da destra verso sinistra, che intercettò le mie braccia deviandole verso il basso. In rapida successione allungò per la seconda volta le braccia tese verso il mio petto, mi prese per il bavero della giacca e strattonandomi mentre continuava a guardarmi dritto negli occhi, continuò: Non ti azzardare a fare una cosa del genere, nonnetto. Se mi succede qualcosa e metti in pericolo la mia famiglia, te la farò pagare. Io non ho niente da perdere, quindi stai attento se non vuoi prenderti una coltellata nella pancia.
Ciò detto mi lasciò andare e si allontanò continuando a masticare soffocate minacce nelle quali cercava di stemperare il proprio risentimento.
Scosso dalla rapida successione degli eventi, restai immobile sul marciapiede incapace di qualsiasi reazione. Non so per quanto tempo, ma non credo che sia stato il tempo brevissimo della sorpresa. Quando mi ripresi lo spacciatore era uscito dal mio campo visivo, né lo cercai con lo sguardo. Intorno a me non c’era alcun movimento: in lontananza si sentiva il rumore delle auto, sulle facciate dei condomini incominciavano a illuminarsi le finestre, gli uccelli appollaiati nei dormitori continuavano a cinguettare, i lampioni lungo le strade proiettavano i loro coni di luce alternati a chiazze d’ombra. I lampioni del giardinetto dove lo spacciatore era solito condurre i suoi mortiferi commerci non erano accesi, solo uno era stato risparmiato dalla furia vandalica che li aveva accecati.
Appena fui in grado di muovermi diressi i miei passi incerti verso casa e girai l’angolo. Il cambio di prospettiva non fu sufficiente a tranquillizzarmi. Non riuscivo a capacitarmi per quello che era accaduto. Sarebbe stato sufficiente farfugliare una scusa, riconoscere che aveva sbagliato e tutto si sarebbe accomodato. Visto com’erano andate le cose non potevo di certo far finta di niente: meditavo sentimenti di risarcimento e di vendetta. Quando entrai in casa il pensiero del risarcimento e della vendetta era il chiodo che rimase infisso nella mia mente. Non pensai a cosa né a come, mi preoccupai solo di non allarmare mia moglie che mi aspettava con trepidazione.

 

Hassan

Il cane randagio morde sempre il viandante lacero e lo tormenta con i denti aguzzi fino a lacerargli le carni oltre ai poveri stracci che si porta addosso. Lui cerca di scacciarlo col bastone che sostiene il suo incerto cammino e quello gli gira intorno e azzanna il bastone e ringhia forte, mostra i denti e le gengive assumono un’espressione diabolica, gli occhi di brace lo guardano fisso, sembrano odiarlo per chissà quali precedenti brutalità consumate nei suoi confronti. Ma lui non lo conosce quel cane, non lo ha mai visto e non lo ha mai maltrattato, perché non è un tipo che maltratta gli animali. Crede che ogni essere vivente abbia diritto al suo posto nel mondo, abbia la sua funzione scritta nel libro della vita e lui crede alla vita e la onora.

Per onorare la vita ho attraversato il deserto infuocato, ho navigato il mare infido e agitato, sono approdato sulla terra promessa dove scorrono fiumi di latte e di miele, dove crescono alberi carichi di frutti dorati e ciminiere fumanti come sigari accesi. Non ho assaggiato né il latte né il miele, ho ricevuto un piatto di minestra mentre mi dicevano: Non c’è posto per te su questa terra, devi andare più in là, qui non c’è lavoro. Il lavoro sta sempre da un’altra parte, te lo devi andare a cercare sempre da un’altra parte. Ho fatto su e giù per andare a cercarlo, ho raccolto i frutti dorati degli alberi e dopo qualche settimana ero di nuovo per strada. Ti dobbiamo mandare via, mi dicevano, il lavoro adesso sta da un’altra parte e io mi mettevo per strada e andavo a cercarlo. Ho imparato che il lavoro sta sempre da un’altra parte e te lo devi andare a cercare e appena lo hai trovato non c’è già più, devi raccogliere i tuoi quattro stracci e andare da un’altra parte perché lì dov’eri non ti puoi più fermare perché non ti vogliono più. Sono entrato anche nelle fabbriche, all’ombra delle ciminiere fumanti, due giorni di lavoro e poi a casa; dopo una settimana un altro giorno e di nuovo a casa. Li chiamano lavori interinali, che poi significa che lavori quando servi e quando non lavori devi sparire. A un certo punto ho deciso. Mi sono detto: Non mi sposto più, sto qui e se il lavoro non c’è rimango lo stesso e se non mi vogliono resto lo stesso, anche se poi mi sparano addosso.

Anche il vecchio che mi ha ripreso per quell’infausta pisciata vuole che vada da un’altra parte. E pure suo figlio che è venuto a parlarmi qualche giorno dopo l’alterco con il padre.

Ero seduto su una panchina nel giardino di fronte a casa sua, le mie solite lunghe attese che qualcuno venisse a cercarmi per un po’ di fumo. Era di sera, ma non c’era ancora il via vai degli acquirenti; la strada e il giardinetto erano ancora deserti. Ero assorto nei pensieri tristi che accompagnano ininterrottamente i miei giorni e le notti. Gli unici momenti sgombri dai pensieri tristi sono quelli che passo con mia figlia, il resto sono tristezza e preoccupazioni. La mia vita è colorata di nero e al buio dei giardinetti mi mimetizzavo per garantire la vita di mia figlia.

Il primo che venne a cercarmi era un giovane sui trent’anni, bella presenza, non molto alto, vestiti casual, come si usa dire adesso quando non si ha la giacca e la cravatta, un’aria di finta indifferenza sul volto in contrasto col fare circospetto che lo agitava. Non mi sembrava a suo agio. Pensavo che volesse comprare un po’ di roba, che non fosse un habitué del mercato di strada e non sapesse come comportarsi. Non voleva farsi notare, questo era evidente. Come spesso accade in situazioni di quel tipo, fui io a prendere l’iniziativa. Senza mezzi termini, che non era proprio il caso di inscenare finzioni o pantomime, gli elencai le merci disponibili:

T’interessa dell’hashish, pasticche di ecstasy, marijuana? Una bustina di neve?

Il giovane visitatore si avvicinò come se fosse interessato. Quando mi fu di fronte, disse: Devo parlarti di quello che è successo l’altro giorno con mio padre.

Capii immediatamente chi era e che cosa cercava. Mi preparai a reggere l’urto delle sue rimostranze.

Dissi: Non è successo niente, solo uno scambio di vedute un po’ alterato.

Continuò con un tono conciliante: Vedi, mio padre è una persona anziana e non pensa che non sia successo niente. Al contrario è rimasto scosso dal tuo comportamento.

Risposi anch’io in modo conciliante: Mi dispiace di aver reagito alle accuse di tuo padre, avrei dovuto controllarmi. Però le sue parole sono state pesanti, mi hanno offeso come persona e come africano.

Fece un gesto con la mano come per minimizzare e disse: Se ti dispiace allora non avrai difficoltà a fare le tue scuse a mio padre. Lui se le aspetta.

Mi era sembrato un giovane ragionevole che cercava di dare una piccola soddisfazione all’anziano padre per tranquillizzarlo. Non ebbi alcuna difficoltà ad assecondarlo pronunciando sincere parole di conciliazione.

Dissi: Ne sarei davvero sollevato se me ne fosse data l’occasione. Per noi africani gli anziani sono importanti e vanno venerati, mi dispiace davvero di aver trasgredito questo comandamento.

Dopo quel primo scambio di battute pensavo davvero che fossero state poste le basi della riconciliazione e mi apprestavo a intavolare un discorso di amicizia che comunicasse al mio interlocutore un’immagine positiva di me. Perché io non sono per vocazione uno spacciatore, sono alla costante ricerca di un’opportunità di lavoro regolare e onesto; se spaccio, rischiando di finire in prigione, è solo perché non mi sono date altre possibilità. Questo avrei voluto dirgli se non mi avesse preceduto avanzando un’altra richiesta per conto di suo padre, una richiesta che soffocava sul nascere il mio desiderio di comprensione e di amicizia. Il giovane ragionevole disse: A mio padre, però, non sono sufficienti le scuse, anche se sono sincere e sentite. Mio padre per metterci una pietra sopra esige che tu vada a spacciare da un’altra parte, fuori dal nostro quartiere. Non ti dà alternative.

Risposi ancora con tutta la calma di cui ero capace.

Dissi: È una richiesta crudele e inutile che non guarda in faccia la realtà. Se io assecondassi la tua richiesta per voi non cambierebbe nulla. Via io, il mio posto verrebbe occupato da un altro. Qui quelli che controllano il mercato tollerano la mia presenza perché è una piazza poco redditizia, da un’altra parte non mi farebbero stare. Per me la tua pretesa è come una condanna a morte.

Il giovane che sembrava ragionevole non era poi tanto ragionevole. Alle mie parole non diede alcuna importanza, forse non le ascoltò. Rispose con sufficienza, senza un briciolo di umanità.

Disse: A me non interessa quello che farai, né dove andrai. Devi sloggiare da qui, questo è tutto. Per me puoi anche ritornartene in Africa e provare a spacciare lì.

Cos’altro avrei potuto dire per farlo desistere dal suo proposito? Non avevo più parole di pace da dire, né potevo accettare il suo diktat. Non potevo perché non c’erano alternative praticabili. Che fare? Mi feci forza e per cercare di rabbonirlo tentai un bluff.

Dissi: Non credo che i miei fornitori sarebbero contenti. Loro non tollerano interferenze e, come probabilmente saprai, sono disposti a tutto…

Lasciai la frase volontariamente sospesa per darle un tono credibile, per indurlo a credere che dietro di me c’era chi mi proteggeva e che quel qualcuno era più forte di lui e di suo padre.

Non credo che la mia allusione produsse qualche effetto sul giovane non più comprensivo. Se lo produsse non lo diede a vedere. Rispose con disinvoltura: A me non interessa chi ti protegge. La situazione sta cambiando e per voi si preparano tempi difficili.

Probabilmente si riferiva alla serpeggiante protesta organizzata dal comitato contro i rifugiati ospitati nel quartiere. Ignorai la minaccia e continuai anch’io con disinvoltura: Se vuoi andare allo scontro rischi di romperti la testa…

Era soltanto una frase di circostanza, un’ovvietà, per insinuargli il dubbio, per fiaccare la sua sicurezza. Fui involontario profeta di sventura, di una sventura di cui fummo vittime ambedue. Il giovane irragionevole non si preoccupò delle mie parole. Chiuso nella sua irragionevolezza tornò a minacciami pronunciando una sentenza definitiva.

Disse, con tono perentorio e un po’ alterato: Adesso basta! Con te non perdo altro tempo. Se nei prossimi giorni ti vedrò ancora qui avrai quello che ti meriti.

E se ne andò, lasciandomi con le mie incertezze. I pensieri che prima del suo arrivo avevano accompagnato la mia solitudine ritornarono imperiosi, più foschi e gravi, aggravati da quelle insensate minacce che non sapevo come affrontare.

 

 

La figlia di Hassan

Se sorridi e non accigli lo sguardo sei più bella mi diceva papà quando ero triste e mi arruffava i capelli. Mi arruffava sempre i capelli quando ero accigliata e voleva farmi dimenticare la tristezza, se non ridevo mi prendeva in braccio e mi faceva volare. Quando ero più piccola, però. Volavola Nabilah, volavola, diceva. Mentre ero sospesa in aria non avevo paura di cadere, immaginavo di essere un uccello, guardavo la stanza dall’alto e mi sembrava di vedere un panorama sconfinato dove ogni oggetto: il lampadario, le sedie, il tavolo, il divano, il lavello e la cucina, la credenza e il frigorifero, le piccole stampe appese alle pareti si trasformavano in un panorama variopinto, come quello che avevo visto dall’aereo quando io e mamma siamo venute a trovare papà che non ci ha più lasciate andar via. Ero molto contenta di stare con papà e con mamma in questo paese nuovo che mi sembrava così bello e accogliente. Mi mancavano i miei cugini e i nonni, i colori della nostra piccola città, gli spazi aperti dove potevamo correre e giocare senza stancarci mai, però qui stavo bene e poi c’era papà che mi faceva volare e mi arruffava i capelli.
Ancora volavola, papà, dicevo quando mi posava per terra dopo avermi recuperata prima dell’atterraggio. Ancora volavola, papà. E lui paziente mi tirava su: volavola Nabilah, volavola, e prima di posarmi per terra mi abbracciava tenendomi stretta stretta, mi faceva il solletico per farmi ridere e poi mi arruffava i capelli.
Quando ero in Africa nessuno mi arruffava i capelli o mi faceva volare. Non voglio dire che lì non stessi bene; ci stavo bene ed ero anche allegra e poi c’erano i miei cugini a cui voglio molto bene e i nonni che ci raccontavano tante storie. Qui ho meno occasioni per essere allegra perché sto molto tempo da sola, chiusa in casa, perché se esci di casa non ci sono gli spazi aperti dove correvo con i miei cugini e non ci sono neanche i cugini, ci sono le auto che vanno veloci e se non stai attenta rischi di farti investire. Non si può correre dietro il cerchione di una vecchia bicicletta per la strada intasata di automobili. Gioco da sola con le bambole o con qualche amichetta quando la mamma va a lavorare e mi porta a casa di una nostra conoscente. A casa delle compagne di scuola non ci vado quasi mai, loro non vengono mai a casa nostra neanche quando mia mamma le invita, trovano sempre qualche scusa. Io quando mi invitano sono contenta di andarci perché le mie compagne hanno tanti giochi, una stanza tutta per loro. Anch’io ho tanti giochi, ma i miei non sono belli come quelli delle mie compagne che a scuola ne portano sempre di nuovi e un po’ mi fanno invidia perché io non ce li ho e se chiedo a mia mamma o a mio papà di comprarmeli mi rispondono che me li compreranno quando diventeremo ricchi. Se lo chiedo a mio papà lui per non farmi pensare al giocattolo nuovo mi prende per la vita e cerca di farmi volare come quando ero più piccola e leggera. Volavola Nabilah, dice mentre mi solleva, però non riesce a farmi volare in alto come quando ero più piccola e leggera. Adesso però mi tiene stretta più a lungo. Adesso il suo abbraccio mi sembra più tenero, meno giocoso, più profondo, forse perché è dispiaciuto di non potermi comprare il giocattolo nuovo e vuole farsi perdonare. Io lo perdono volentieri perché il suo abbraccio mi rende felice e anche se non ho il giocattolo nuovo ho un papà che mi vuole bene e mi abbraccia in quel modo tenero che solo lui conosce. E poi mi arruffa i capelli che è un gesto che mi piace sempre tanto e non m’importa se me li scompiglia. Anche perché i miei capelli sono crespi e non si scompigliano quando me li arruffa.
Anche mia mamma mi abbraccia e mi fa le coccole quando è seduta sul divano o sulla sedia, il suo però è un abbraccio diverso da quello di papà, è un abbraccio protettivo che in fondo mi dà un po’ di tristezza. Io non le dico che il suo abbraccio mi mette tristezza, ma è proprio così perché mi fa pensare alle cose brutte che i miei compagni di scuola ripetono come una cantilena. Non tutti, ce ne sono anche di bravi che mi vogliono bene e giocano con me e mi aiutano quando facciamo le attività in classe. Io cerco di stare sempre con loro per evitare che gli altri, quelli cattivi, mi prendano in giro perché sono nera. Non le dico neanche che i miei compagni cattivi mi prendono in giro e mi fanno la cantilena perché sono nera. Se glielo dicessi il suo abbraccio diventerebbe ancora più triste e non so se riuscirei a sopportarlo e magari le direi di non abbracciarmi così stretta e lei, ne sono sicura, ci resterebbe male e si metterebbe a piangere come fa qualche volta che mi fa arrabbiare e mi abbraccia per farsi perdonare.
Mi abbracciò forte forte, in quel modo triste che ho detto prima, il giorno in cui mi disse di papà, che papà era in ospedale.
Di quella giornata non ci avevo capito niente. Quando al mattino mi sono svegliata non c’era la mamma vicino al letto e neanche papà. C’era l’amica di mamma che veniva a tenermi compagnia quando lei era impegnata.
Oggi non c’è scuola, resti a casa con me fino a quando non torna tua madre, disse come se fosse una bella notizia.
Io avrei preferito andare a scuola ma non feci domande, non ero abituata a fare domande agli estranei, anche se erano amici di mamma e papà, perché mio nonno mi aveva insegnato a non fare domande.
Se i grandi vogliono dirti qualcosa te lo dicono anche se non glielo chiedi. Se non ti dicono niente è solo perché credono che sia meglio evitarlo, per non farti soffrire o per non metterti paura.
Ai miei genitori facevo tutte le domande che mi passavano per la testa, ma se loro mi dicevano di non potermi rispondere pensavo alla raccomandazione di mio nonno e me ne stavo tranquilla.
Restai in casa tutto il giorno. Mamma tornò all’ora di cena. Mi disse che papà era in ospedale perché era caduto e si era ferito a una gamba e fu proprio dopo quelle parole, pronunciate quando siamo rimaste sole, che mi abbracciò stretta stretta per nascondere la sua tristezza e il suo pianto. Da quell’abbraccio compresi che non mi aveva detto la verità. L’abbracciai forte forte anch’io, non le dissi come le altre volte: Mamma lasciami andare che mi stai soffocando. Piansi anch’io e le dissi con rabbia: Mamma dimmi la verità.
La mia intuizione era corretta. Avevo immediatamente pensato a quell’uomo che aveva minacciato papà perché voleva che ci trasferissimo in un altro quartiere. Papà non voleva trasferirsi in un altro quartiere, aveva il suo lavoro a due passi da casa e qui stava bene, conosceva tante persone, c’erano tanti neri come noi. Mamma sarebbe stata disposta a cambiare casa. Lei voleva andare in una casa più grande e più comoda, ma papà diceva che dalle altre parti gli affitti delle case erano più alti e noi non potevamo permettercelo. Qualche volta hanno anche litigato per questo e quando litigavano papà si alzava e usciva di casa. Mamma non diceva niente, però si metteva a piangere e se io la guardavo faceva finta di mettere a posto qualcosa. Io mi accorgevo che piangeva perché tirava su col naso e si asciugava le lacrime sulla manica o col grembiule e allora me ne stavo zitta zitta facendo anch’io finta di fare qualcosa. Forse mamma piangeva perché pensava che papà non sarebbe tornato a casa ed era preoccupata per questo. Senza papà e senza i nonni che erano tanto lontani come avremmo fatto a tirare avanti. Forse pensava a questo. Poi papà ritornava e mamma era contenta, non ricordava più di aver pianto. A me quando mamma piangeva perché papà era uscito di casa dopo un litigio veniva voglia di consolarla ricordandole che lui faceva sempre così, che dopo un po’ sarebbe ritornato, che non era il caso di piangere. Però non le dicevo niente perché ricordavo un altro insegnamento di mio nonno che ci ha insegnato tante cose a me e ai miei cuginetti. Mio nonno diceva che quando una donna piange bisogna lasciarla sfogare senza interromperla, se non si sfogasse il pianto trattenuto si sarebbe trasformato in veleno e l’avrebbe uccisa.
Io non piangerò mai quando sarà grande, farò come te che non ti ho mai visto piangere, gli dissi una volta.
Mio nonno rispose che piangono anche gli uomini, solo che piangono senza lacrime e per non essere avvelenati dalle lacrime trattenute fumano il tabacco o qualche altra sostanza o bevono fino a ubriacarsi perché l’alcol e il fumo neutralizzano il veleno.
Io credevo alle parole del nonno perché lui era un vecchio saggio che sapeva tante cose, e poi avevo constatato che papà si accendeva sempre una sigaretta quando usciva di casa dopo aver litigato con mamma.
Quando mamma confermò quello che avevo intuito non piansi. Avrei voluto fumare una sigaretta e andare per strada come faceva papà per sfogare la sua tristezza. Ero triste. Tanto più triste di prima perché a quella causata dall’aggressione a papà si aggiungeva una consapevolezza nuova che mi angosciava. Prima di allora avevo creduto che il mio papà fosse invincibile, che avrebbe protetto me e la mamma dalle cattiverie dei compagni di scuola e dell’altra gente che ci guardava di storto quando andavamo in giro e che qualche volta ci insultava dicendoci di tornarcene in Africa. Dopo quella notizia non riuscii più a pensare che papà fosse invincibile e ci avrebbe protette, desiderai di essere in Africa con papà e mamma, con i nonni e con i miei cuginetti per correre insieme a loro nelle grandi distese dove mi sarei divertita correndo a perdifiato dietro il cerchione di una vecchia bicicletta affrancata dalla paura di essere investita dalle automobili, per ascoltare i saggi consigli di mio nonno e le lunghe storie che ci raccontava seduti all’ombra di un albero frondoso.

 

 

La fidanzata

Lo avevamo temuto, era l’assillo che ognuno di noi si portava dentro, inespresso come un pensiero che non si riesce a formulare perché mancano le parole per rappresentarlo, non se ne ha l’animo. Un pensiero assillante, informe e chiaro come un sogno notturno dimenticato al risveglio, del quale si avverte acuta la sensazione di disagio, una sorta di inadeguatezza di cui non si sanno individuare le cause, incombente come il convitato di pietra.
Lo avevamo temuto: il quartiere ci avrebbe avvelenati a poco a poco.
Era il quartiere il convitato di pietra, ineffabilmente presente nelle nostre vite, testimone silenzioso delle nostre infanzie spensierate quando la vita era ancora un gioco e una scoperta e i giochi cementavano i sentimenti, le amicizie senza tempo, i destini comuni. Il tempo lo ha trasformato: era un testimone muto e amorevole, una presenza benevola e confortante, mentre nel tempo del nostro affacciarci alla vita adulta ha smesso di confortarci, ci giudicava, ci giudica, pronto ad alimentare la nostra angoscia per ciò che d’incompiuto c’era, c’è nelle nostre vite, quando le vite ci è dato di conservarle, di non perderle per strada come è successo ad Adelfo e a Luca e ai tanti altri smarriti sulle strade del loro destino.
Non è colpa sua, del quartiere, se il cambiamento s’è realizzato, la colpa è del tempo, di questo tempo impietoso che stravolge vite e coscienze, di questa modernità barbara che ci rende precari, comparse di una rappresentazione instabile in cui s’improvvisa e si recita a soggetto. Le nostre vite appese sul filo del caso. Con Adelfo e con Luca il caso non è stato benevolo, si sono persi in vicende più grandi loro e ne hanno scontato le conseguenze.
Qual è la colpa di Adelfo sanzionata col prezzo della vita? E la colpa di Luca? E la mia? E quella di Adele?
Adelfo ha pagato per la sua ingenuità. La pena se l’è scritta ed eseguita da sé, l’ha anticipata rispetto al processo ed è stata più dura di quanto previsto dalla legge per il suo reato… se lo avesse commesso. Ma non lo ha commesso. Non importa che non sia verità processuale; non è stato deciso neanche il contrario, assorbito nella pena totale che s’è inflitto da sé. Se nei suoi confronti il processo avesse avuto corso, Adelfo sarebbe stato condannato perché le circostanze lo accusavano, nonostante le rivelazioni di Luca.
È poi veramente il caso ad aver determinato gli esiti fatali che piangiamo? O la volontà perversa e criminale di soggetti privi di scrupoli che nell’ombra hanno inscenato un teatro di marionette?
Domanda retorica, rimasta senza riscontri ufficiali e quindi inutile in buona sostanza, buona solo per far lievitare la rabbia di chi quelle morti vuol piangere e avrebbe voluto onorarle nella verità.
Adelfo, alla luce dell’assoluzione per insufficienza di prove degli altri implicati nell’affare, sarebbe stato condannato come artefice materiale del ferimento di Hassan in concorso con ignoti. Nel processo il suo ruolo è stato evocato come organizzatore ed esecutore, il fantasma che sulla scena del delitto si materializza dal niente, in un crescendo drammatico spara, si eclissa e ne determina l’esito irreparabile.
La morte di Adelfo ha lasciato una scia di dolore inconsolato, ha isolato dal mondo la sua intera famiglia, chiusa in una disperazione cruda, senza scampo.
Consapevole ed espiatoria quella dei genitori, assorbiti da rituali evocatori per mantenere vivo un ricordo. Non è la vita infelice di Adelfo che ricordano, la fine prematura e cruenta di una giovane vita irrisolta; è la responsabilità di quella vita inutilmente sprecata che si attribuiscono senza riserve ad essere vivificata nel ricordo. Si sono riconosciuti colpevoli di inadeguatezza: genitori inadeguati, educatori inconsapevoli e disattenti, assorbiti dalla materialità di un’esistenza complicata alla quale sfuggivano le attese della vita in formazione di un figlio affidato alle cure inesperte della sorella. Era soprattutto il padre a sentire come una colpa il peso della carenza, a volerla espiare giorno dopo giorno confinato in esilio volontario ai margini del mondo. Il suo dolore si introfletteva nella commiserazione di sé (un’elaborazione del lutto, in fondo), si sovrapponeva al dolore della morte e lo declassava. La madre aveva assecondato il marito e ne condivideva la colpa, ma il suo dolore non era solo rimorso, andava oltre, era l’ingiustizia dell’assenza, lo strappo della separazione, come se quel figlio glielo avessero estratto dalle viscere con uno strappo violento. Per lei non c’era possibilità di elaborare il lutto nell’espiazione, e neanche nell’inesorabile scorrere del tempo; il dolore si rinnovava ogni giorno e la consumava alimentandosi del suo corpo, accompagnandola, consenziente, verso la fine di quell’insopportabile strazio.
Oramai inconsapevole la disperazione di Adele, ingabbiata nel gorgo della follia a malapena governato dalle immeritate cure del marito, invecchiato anzitempo e deluso per quanto gli era toccato vedere e sopportare.
Orlando ha sofferto molto, non solo per la morte di Adelfo, a causa di Adele che lo ha gravato di pesi e di colpe che non ha commesso. I maneggi di Adele lo hanno ferito nel profondo dell’animo, in ciò che gli era più caro e pregiato. Aveva costruito sull’onestà la sua identità di uomo probo e fu sospettato di corruzione e ingiustamente condannato per diffamazione; aveva creduto nell’amore e fu tradito per motivi venali dalla destinataria della sua passione amorosa; tuttavia nel momento del bisogno non l’ha abbandonata. Quale forza interiore lo abbia deciso ad assumersi incombenze sì gravose non mi è dato sapere, mi vien solo da dire che è un uomo ammirevole che nella tragedia ha confermato la sua dignità di uomo senza cesure. Lo testimonio perché l’ho conosciuto, ho parlato molto a lungo con lui nel periodo successivo alla morte di Luca, quando gli spiragli aperti dalle sue rivelazioni inaspettate avevano sollecitato speranze di una soluzione positiva dell’intera vicenda.
La morte di Luca è rimasta impunita. Invano mi sono battuta per dare un volto e un nome ai suoi carnefici; le mie parole, che poi erano le parole di Luca, non sono state sufficienti perché non bastano le parole e i timori per convincere i giudici, hanno prodotto solo l’apertura di un procedimento contro ignoti e l’avvio di inutili indagini carenti di riscontri. Per Luca non c’è stato alcun processo, la sua morte è stata rubricata come un semplice incidente stradale causato dalla concomitanza di numerose circostanze avverse. Tra le cause della morte è stato supposta anche l’ipotesi del suicidio provocato dalle sostanze stupefacenti e dall’elevato tasso alcolico rintracciati dall’autopsia.
Suicidio per quali motivi? ho chiesto al giudice inquirente.
Mi fu risposto: A causa del rimorso per il tradimento dell’amico suicidatosi in carcere.
Replicai: L’ipotesi è paradossale. Se la questione del tradimento può avere un valore probatorio dovrebbero averlo anche tutte le altre informazioni che ho raccolto da Luca.
Infatti, non ne ha alcuno. Era solo un’ipotesi non confermata dai fatti.
Solo ipotesi. Restano solo ipotesi. Circostanze alle quali gli inquirenti hanno dato credito, intorno alle quali hanno costruito uno scenario plausibile e hanno svolto una lunga e complessa attività d’indagine che non ha portato alcun risultato. Non si è aperta alcuna breccia in cui inserire il grimaldello della verità, lo scudo dell’omertà ha resistito alle pressioni e la lancia che lo accompagna ha colpito con decisione per cancellarne le tracce.
Di due morti che mi hanno costretta a guardare in faccia una realtà disperata restano solo inutili ipotesi e nessuna certezza sulla quale coltivare la speranza.
Quanto a me non mi faccio illusioni. Il quartiere in cui io, Luca e Adelfo siamo cresciuti non c’è più, ma è una crisi che viene da lontano, da quando il lavoro ha perso la centralità che si era conquistata con le lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, il secolo della modernità solida, spodestata dalla liquidità del moderno contemporaneo privo di identità. La mia generazione è cresciuta all’interno di questo contesto indefinito, era scritto che ne restasse schiacciata, priva di riferimenti e di bandiere, abbandonata a se stessa, come le periferie, come il nostro quartiere.
Con l’associazione Ostinate Presenze abbiamo cercato di contrastare il degrado, qualche risultato l’abbiamo ottenuto, palliativi rispetto alla gravità della malattia, era come cercare di svuotare il mare con un secchiello da spiaggia, come combattere a mani nude contro un esercito armato di tutto punto.
Dopo la nota vicenda della palazzina la situazione è peggiorata in modo irreversibile, in pochi anni si è modificata la geografia sociale, quel poco di comunità che resisteva per abitudine e per nostalgia o solo perché non aveva altra scelta è stata costretta a emigrare lasciando dietro sé il deserto: outlet, ipermercati e isole residenziali per piccolo borghesi in fuga dal centro cittadino congestionato e anonimo.
Io sono rimasta. Mi sono domandata più volte il perché, non mi son data risposte convincenti. Forse ha prevalso la forza dell’abitudine o forse la nostalgia. Sento forte un ancoraggio ai ricordi dell’infanzia quando mio padre mi teneva per mano e mi portava con sé nei cortei, ai comizi, nella sezione del partito a piegare volantini, a respirare quell’aria d’impegno sociale che m’è rimasta incollata alla pelle; e poi le feste de L’Unità, la casa del popolo, le osterie e le balere. È questo che mi lega e m’impedisce di andar via? O forse è la volontà di non darla vinta a chi ha tramato per distruggere anche le ultime vestigia del tempo eroico dei miei ricordi di bambina? Magra consolazione questo isolato desiderio di testimonianza che testimonia soltanto se stesso, perché non importa a nessuno che ci sia stato quel tempo se tutto congiura per cancellarne anche la memoria, non solo le conquiste.
Forse sono rimasta per lealtà nei confronti di Adelfo e di Luca, nonostante loro lo odiassero questo quartiere, vittime sacrificali di un potere tremendo che per conquistarlo e soffocarne l’anima in agonia ha dovuto sbarazzarsi delle loro vite, diventate loro malgrado ingombranti. Però non ne sono sicura.

 

 

 

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