Era una bella giornata di sole. Alla stazione ferroviaria di Torino i treni provenienti dal Sud si sgravavano del nerofardello di miseria che li aveva abitati durante la notte, scaricavano sulle banchine ancora assonnate un’umanità spaurita, indecisa, come in attesa di un suggerimento che non sarebbe arrivato.
Il treno delle ore 8,27 proveniente da Lecce e Taranto con diciotto minuti di ritardo aveva dislocato i suoi dodici scomodi vagoni lungo il binario 15; un po’ defilato rispetto all’uscita centrale e finalmente a riposo dopo sedici interminabili ore di viaggio emetteva gli ultimi sbuffi di stanchezza prima del meritato ricovero nel vicino deposito del Lingotto.
I passeggeri approdati sulla banchina si sgranchivano i muscoli intorpiditi dalla notte penata sui duri sedili di legno, rannicchiati gli uni accanto agli altri alla ricerca di una posizione che gli concedesse qualche ora di sonno; non ci erano riusciti e ora confidavano nell’aria fresca del mattino per scrollarsi di dosso stanchezza e intorpidimento.Di fronte alla carrozza n. 11, mentre gli altri passeggeri si dirigevano verso la testa del binario, una coppia si attardava sulla banchina.
Nessuno li aspettava alla stazione.
Lui, Salvatore Gianfreda di anni trentuno, poco più di un metro e settanta di altezza, la struttura robusta del contadino allenato dalla ginnastica della zappa, un viso regolare sormontato da una massa di capelli castani ondulati e ribelli in cui spiccavano due penetranti occhi pensierosi di un colore verde cinabro venato da sfumature di marrone chiaro e riflessi oro, aveva un’espressione meravigliata, come chi si sente spaesato, fuori posto, proiettato in un mondo che non riconosce; lei, Maria Preite, moglie di Salvatore, di anni ventiquattro, non si dava cura del posto in cui era arrivata; seduta su una valigia di cartone cullava dolcemente il suo bambino di appena un anno perché il trambusto dell’arrivo non lo svegliasse; lo proteggeva con uno scialle mentre intonava una lenta ninnananna rassicurante.
Di tanto in tanto si ravvivava i folti capelli neri raccolti in una lunga treccia, e intanto aspettava fiduciosa che il suo uomo decidesse di avviarsi. Non portavano appresso un grande bagaglio, solo due valigie di cartone legate da una corda che ne assicurava la chiusura e una sporta di giunco riempita fino all’inverosimile dai generi di prima necessità che dovevano sostentarli nei primi giorni torinesi.
La fotografia era perfetta, un’icona classica dell’emigrazione interna del secondo dopoguerra; una fotografia vera in ogni caso, in bianco e nero, come lo era la vita dei migranti, colorata solo dalla luce delle loro speranze e dal nero dei loro bisogni.
Era una bella giornata di sole su Torino ma alle nove di mattina l’aria era ancora frizzante. All’ombra dei grandi palazzi che trasformavano le strade in lunghe gallerie a cielo aperto Maria e Salvatore avvertivano una pungente sensazione di freddo appena mitigata dai vestiti adatti a temperature più miti di quelle torinesi. In Salento la primavera dava già un’anteprima della sua vivacità e a quell’ora il sole scaldava gli uomini e la terra con apprezzabile impegno, l’aria era tiepida e il solo ricordo ispirava un dolce rimpianto e una dolorosa sensazione di perdita.
Presero il tram numero 4 e continuarono il viaggio in silenzio, impegnati a guardarsi d’intorno, a stupirsi di quanto vedevano in quel congestionato contenitore senza orizzonte, chiuso limitato e ripetitivo, da cui erano stati estromessi prati campi alberi e animali, dei quali soffrivano l’assenza, soffocati da un irresistibile senso di smarrimento.
Dopo appena quindici giorni dal suo arrivo Salvatore iniziava l’apprendistato di lavoratore edile con la qualifica di manovale sterratore in un cantiere della periferia. Nel frattempo aveva trovato alloggio in una casa di ringhiera e vi si era sistemato meglio di quanto non fosse nella sua vecchia casa di Borgo Capriglia.
Per la famiglia Gianfreda iniziava una nuova vita, che forse sarebbe stata felice se il destino non avesse stroncato Salvatore, ancora in giovane età, sotto il peso di una benna staccatasi da una gru difettosa.
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