Sommario
Domenica 15 ottobre 1961
La chiesa, immersa nell’ambiguo chiarore di una mattina ancora assonnata, riecheggiava le parole di una formula solenne pronunciate con incertezza:
«…Vi dichiaro marito e moglie nel nome del padre del figlio e dello spirito santo» aveva detto il celebrante, e senza tergiversare si era dedicato alla lettura degli articoli del codice civile che illustrano i doveri dei coniugi nella coppia e verso la prole.
La chiesa era quasi vuota. Una decina di persone, gli accompagnatori degli sposi, erano ammassate nei primi banchi, rigorosamente separati, a sinistra gli amici di lui, a destra quelli di lei. Le luci della navata erano spente, solo le candele sull’altare maggiore e due lampadine da pochi watt pendenti ai lati dell’abside rischiaravano lo spazio riservato alla celebrazione, il resto era illuminato dalla luce del sole che s’infiltrava obliquamente dalle vetrate collocate nella parte superiore dell’edificio esposta a est. L’ambiente rischiarato da quelle sottili infiltrazioni di luce favoriva il raccoglimento e la preghiera dei fedeli; non così per il celebrante, né per gli sposi e i loro accompagnatori: su di essi produceva sensazioni depressive, le appesantiva oltre le sue stesse premesse.
Pino era andato a prendere Maria alle sette in compagnia del suo testimone di nozze. Lei aveva trascorso l’ultima notte vedovile in compagnia di una buona amica, una delle poche su cui poteva contare in quella città insidiosa, che sentiva ostile e distante. Erano sveglie da alcune ore, si erano preparate, avevano indossato il vestito buono della festa e avevano atteso l’arrivo dello sposo cercando di ingannare l’agitazione che scuoteva Maria di fronte a quel passo che non avrebbe voluto, al quale si era rassegnata. Un matrimonio tra vedovi, senza amore e senza tenerezza, un matrimonio di convenienza: lui aveva bisogno di una donna che accudisse suo figlio, la casa e lui stesso; lei della protezione di un uomo perché era ancora troppo giovane per affrontare da sola le insidie della vita in una grande città. Due solitudini e due destini segnati dalla disgrazia si incrociavano e iniziavano una vita in comune, per porre un argine alla sfortuna che li perseguitava.
Sulla porta della chiesa furono accolti dai pochi invitati; qualche stretta di mano e qualche abbraccio precedettero l’ingresso nella penombra del tempio. Doveva essere un ingresso solenne, gli sposi in testa, a braccetto, seguiti dai due testimoni e dagli altri invitati ordinatamente in fila; ne sortì lo spostamento di un gruppo che sembrava spaventato, tutti in semicerchio intorno alla coppia, per scortarla, come se volessero proteggerla da un pericolo, stretti gli uni agli altri; solo quando raggiunsero i banchi delle prime file ritornarono tranquilli come se avessero guadagnato un porto franco.
La messa nuziale scorse veloce. Maria la seguì da dietro una spessa tendina di ricordi e di lacrime. I ricordi pompavano immagini e video di un altro matrimonio, le lacrime ne erano l’effetto speciale; la mente stanca di Maria comparava ricordi e realtà schiudendo spazi enormi di rimpianto che non riusciva a dominare. Vide in sequenza la casa paterna, il corteo nuziale, l’arrivo in chiesa e comprese tutto lo squallore del suo oggi. Dove c’erano stati allegria e partecipazione, colori, calore e speranza, in quell’oggi ci trovava gli opposti, appiattiti in un stato sfuggente di necessità; dove c’era stata la felicità di un’attesa che si realizzava ci trovava l’infelicità conclamata appesa al filo di un conforto sperato. Poi la pervase il ricordo di Salvatore, incombente in ogni ora della sua vita. La dolcezza di quella presenza sosteneva una lotta estenuante con la rabbia insuperata della sua morte e Maria, ogni volta, ne usciva inebetita dall’incapacità di vincere la rabbia con l’arma del ricordo rinnovato. Le fasi successive della celebrazione le attraversò come un automa, come un automa firmò i registri compilati dal prete e diventò legalmente la moglie di Pino Loffredo, moglie di un altro migrante, suo conterraneo, che aveva quasi la stessa età di Salvatore e ne condivideva il destino, immerso nella stessa corrente di dannati costretti ad abbandonare la propria terra… per sopravvivere.
Probabilmente anche Pino aveva gli stessi pensieri. A guardarlo avresti detto proprio di sì, ma pensieri e ricordi non li condivise con Maria, né lei i suoi.
Nel silenzio dell’abbandono
A Borgo Capriglia si accedeva attraverso un alto cancello in ferro battuto, lanceolato. Lo trovarono aperto, in parte ricoperto da rovi e altre sterpaglie che lo tenevano incatenato, come a garantirne l’accessibilità, perché fosse accolto chiunque volesse portarvi un soffio di vita e testimoniasse che lì la vita era scorsa davvero, per un cinquantennio, impetuosa e vivace, allegra e faticosa, soprattutto colma di speranza; che adesso l’abitava soltanto il vento e le stagioni gli passavano addosso consegnandolo indifeso all’assalto della natura compassionevole che l’avrebbe ricoperto come un sudario per riconsegnarlo intatto all’archeologia rurale di chissà quale secolo a venire.
Nel Borgo regnava un silenzio irreale. Non era il silenzio della campagna, che silenzio non è perché puoi ascoltare il sibilo lento o forte del vento che s’aggroviglia tra le chiome degli alberi e le dirige in un instancabile concerto suonato sui tempi dell’adagio con improvvise folate di vivace, o viceversa a seconda della sua intensità e dell’estro armonico del giorno, cui si associano i canti degli uccelli come inserti melodici che rincorrono il fluire della musica e la interpretano con la timbrica dei gorgheggi estesi su varie tonalità e colori. Non era neanche il silenzio dei cimiteri che è silenzio dell’anima, interiore, rifratto nel freddo dei lucidi marmi o delle pietre erose delle tombe antiche e delle cellette funerarie, dove il visitatore ricerca un contatto che sta nel suo cuore, e che trova, anche se intorno salgono mormorii di preghiera o il passo controllato di altri visitatori.
Era il silenzio dell’abbandono, un silenzio profondo, che saliva dagli abissi scavati in decenni di emarginazione, dove si erano depositati gli echi persistenti di ogni rumore-grido-lamento-invocazione-imprecazione rimasto sospeso nell’aria e nel tempo finché lo aveva sostenuto una qualche presenza del passato, attirato irrimediabilmente nel baratro dell’oblio quando s’è sbiadito perfino il ricordo; un silenzio assoluto, rispettato dal vento che passando trattiene il respiro, da uccelli, grilli e cicale che ne fuggono lo spazio per l’orrore di quel vuoto, interrotto a tratti molto irregolari da qualche casuale passante sperdutosi nel mezzo della serra o, come Luigi e Tommaso, portati dal racconto di un ricordo.
Il Borgo presenta una pianta rettangolare, in stile razionalista: a destra dell’ingresso, sul primo lato corto del rettangolo, si apre lo spazio della rappresentanza, riservato alla palazzina padronale, alla chiesa, agli uffici dell’azienda e all’alloggio del fattore: politica–religione–economia allineate, la commistione dei poteri di fronte ai quali il mondo s’inchina. La palazzina riservata alla famiglia del conte Medoro di Nardò, proprietario della tenuta di oltre mille ettari circostante il Borgo, che vi passava una parte dell’estate, è una costruzione di forma cubica, su due piani, alla quale si accede percorrendo un marciapiede delimitato su ambo i lati da un basso muretto abbellito da colonnine sovrastate da semplici capitelli geometrici; il marciapiede immette sulla scala che porta al piano superiore e continua lungo l’intero fabbricato costeggiando un porticato a “elle” sul quale insistono due loggette separate dall’angolo retto di un torrione centrale che spinge in avanti le linee verticali del primo piano, arretrate rispetto a quelle del portico.
In continuità con la villa si erge la chiesa in sobrio stile razionalista, ispirata alle linee architettoniche della basilica di San Marco a Venezia. Avresti detto che una chiesa così fosse fuori contesto in quel luogo, ti saresti aspettato una semplice chiesetta di campagna, come se ne vedono tante nelle piccole frazioni di poche anime, e invece ti trovi la facciata di una chiesa a tre corpi, imponente per bellezza e dimensioni. L’edificio si apre su un ampio sagrato a cui si accede salendo quattro gradini lungo l’intero fronte, sui tre lati; i tre corpi dell’edificio, che all’interno prefigurano altrettante navate basilicali, sulla facciata sono separati da due snelli campanili collegati da una semicupola orientaleggiante, concava e aperta verso l’esterno, che forma una loggetta accessibile dai campanili. I due corpi esterni sono sormontati da finte cupolette piatte affiancate da una nicchia con statue dei santi protettori del borgo.
Sugli altri tre lati si allungano gli edifici: a destra le casupole dei contadini, a sinistra e sul secondo lato corto i locali per il ricovero dei macchinari e la lavorazione del tabacco, le stalle, il frantoio, il forno, lo spaccio, uno spazio ricreativo e la scuola elementare; al centro del rettangolo si nota un’elegante fontana con vasca circolare che erogava acqua potabile per gli usi domestici, mentre lungo l’asse longitudinale la continuità dello spazio vuoto è interrotta da aree erbose piantumate con essenze diverse.
Luigi fu colpito dallo stato del luogo e dalla geometria delle forme e rivolto alla sua guida osservò:
«È una struttura strana, sembra un esperimento economico, tipo i villaggi operai costruiti nelle vicinanze delle fabbriche».
«In effetti lo è», rispose Tommaso, «Se pensi all’epoca in cui è stato edificato, all’inizio degli anni Venti, e alla tipologia architettonica vien proprio da pensare che si sia trattato di una scommessa ideologica».
«Però non capisco la facciata della chiesa con quest’aspetto strano che non mi sembra in armonia con il resto della struttura», continuò Luigi.
«Ho letto che richiama la Basilica veneziana di San Marco, non so per quale ragione, reinterpretata nello stile razionalista dell’epoca, come l’intera struttura, peraltro. In ogni caso, mi sembra che la chiesa sia ben inserita nel contesto, non lo contraddica».
«A me sembra che le rotondità dei simulacri di cupole orientaleggianti contrastino con la geometria degli spazi e delle costruzioni che caratterizza l’intero complesso», insistette Luigi.
E Tommaso: «Inserite in quella facciata piatta e spoglia la ingentiliscono, tanto più che presentano un aspetto quasi triangolare, più che sferico».
Dopo le osservazioni stilistiche Luigi tornò a chiedere le ragioni economiche che avevano portato alla costruzione di quel borgo strutturato in modo così diverso dalle masserie tipiche della zona.
«Probabilmente fu dovuto alla volontà dei proprietari di passare da una gestione indiretta, tramite l’impiego di coloni, a una diretta di tipo capitalistico abbinata alla lavorazione in loco dei prodotti coltivati, specie le olive e il tabacco», disse Tommaso.
«E dopo neanche cinquant’anni la decadenza e l’abbandono totale», aggiunse Luigi.
«Già! Con le liberalizzazioni introdotte dalla CEE la concorrenza dei piccoli proprietari aveva fatto calare il prezzo del tabacco e il progetto di Borgo Capriglia, diventato antieconomico, fu abbandonato; e con il progetto fu abbandonato anche il borgo».
«Una storia finita male, specialmente per le famiglie che furono costrette ad abbandonarlo».
«Purtroppo l’esodo non si limitò a questo borgo, negli anni Cinquanta e Sessanta fu un fenomeno generalizzato che spopolò tutti i paesi del Mezzogiorno…».
«E non solo, anche le montagne piemontesi si spopolarono in quegli anni. Conosco intere borgate che hanno subito la stessa sorte, con effetti ancora più devastanti, perché l’esodo comportò l’abbandono delle terre e il dissesto idrogeologico del territorio».
Il dialogo andò avanti sul tema della relazione tra esodo dalle campagne e sviluppo industriale, con Luigi che poneva l’accento sulla ineluttabilità di quell’esito e Tommaso che ne valutava gli effetti in termini di costi e benefici, concludendo che i costi, probabilmente, avevano superato i benefici, se era vero, come riteneva vero, che quel tipo di crescita economica aveva comportato, per la terza volta nel volgere di un secolo, il tradimento e l’abbandono del Sud a un lento e inesorabile declino.
E mentre parlavano animatamente le loro parole si perdevano nello spazio vuoto del borgo, assorbite in quell’abisso di silenzio dell’abbandono e dell’oblio che avevano notato varcando il cancello.
[1] Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, Sugar editore, MI, 1966, pp. 45-46.
[2] Ibid., p. 46.
Una barca color vinaccia
Il pensare divagante di Adriana fu interrotto dall’inattesa proposta di Riccardo:
«Andiamo a fare una gita in barca. Potremo guardare le stelle cadenti nel silenzio e nel buio assoluto del mare, lungo la costa».
La proposta fu approvata con entusiasmo.
Ci andarono con due barche. Sulla prima salirono Riccardo, Rita, Adriana e Rocco, sulla seconda gli altri cinque. Dal porticciolo tagliato nella roccia dove le barche, come in una bomboniera, si cullavano placide al ritmo della pigra risacca, si diressero a nordest, lungo la costa che va verso Otranto, oltre le luci che illuminano il paese, nei pressi di un’insenatura dove il buio era più fitto e si stava riparati dalla fresca brezza che soffiava dall’alto della serra. Sulla costa si scorgevano i numerosi falò accesi dalle bande di ragazzi nell’attesa che la notte desse il via allo spettacolo delle meteore e intanto cantavano al suono di una chitarra e amoreggiavano, chiacchieravano e si facevano confidenze in quel sospeso stare che era il pretesto dell’attesa.
Anche sulle barche si facevano confidenze. Si parlava piano per paura di disturbare la quiete del momento, quell’atmosfera sospesa che era un misto di attesa e di tempo interrotto. Non si sentiva neanche lo sciabordio delle onde sulle carene. Nell’insenatura il mare era liscio, privo di increspature, solo al di là del piccolo promontorio che ripara la baia dalla tramontana i riflessi argentini della luna facevano intuire la presenza del vento. A intervalli irregolari da una barca all’altra, distanti una ventina di metri, ci si scambiava qualche breve frase; dopo si udirono soltanto gli ooohhhdi meraviglia a ogni scia di meteora intravista nel cielo.
Adriana e Rocco stesi a prua sul fondo della barca si scambiavano impressioni sulle loro letture preferite.
«La Maga, in Rayuela di Julio Cortázar, racchiude in sé il senso della vita e della morte. È un personaggio vitale e tragico allo stesso tempo, pieno di risorse e problematico, enigmatico, sfuggente; ma è l’unica che in fondo sa che “per arrivare al Cielo servono solo un sassolino e la punta di una scarpa”[1]», diceva Rocco, e mentre le parlava sentiva per Adriana una forte attrazione, un desiderio irrefrenabile di baciarla. Quella sera la Maga era Adriana, enigmatica, sfuggente, che avrebbe saputo come far salire in cielo l’uomo che le stava accanto. Avrebbe saputo ma non ne aveva alcuna intenzione e se ne stava immobile sul fondo della barca. Anche Rocco se ne stava immobile. I loro corpi si sfioravano, non osava toccarla e allora parlava. Le parlava della Maga e di Horacio Oliveira, del loro incontro parigino, loro ambedue sudamericani, portegno lui e uruguagia lei, della vita da bohemiens negli anni Sessanta del secolo passato, trasportati dagli eventi, interamente assorbiti dalle vicende del piccolo circolo di intellettuali dove si parlava di patafisica, si ascoltava musica jazz, ci si ubriacava, dove niente era reale, tutto era simbolo e si scavava a fondo su qualsiasi questione senza arrivare a niente di concreto, stando sempre al di qua della verità, inconsapevolmente. Solo la Maga sembrava conoscere qualcosa che sfuggiva a tutti gli altri, Horacio compreso.
“Non faceva freddo, però il corpo della Maga gli scaldava la gamba e il fianco destro; si scostò a poco a poco, pensò che la notte sarebbe stata lunga”[2].
Rocco si avvicinò al corpo di lei, sentì il suo calore; lei non si mosse. Ne fu incoraggiato; le accarezzò la mano distesa lungo il fianco e si voltò a guardarla. Adriana aveva gli occhi chiusi, lo ascoltava assorta, presa dalla figura della Maga che sapeva come arrivare al cielo.
“Come si arriva al cielo? – pensava Adriana – Quale forza magnetica devi possedere, quale pienezza per vivere almeno la vita che ti è data, e comprenderla, per comprendere le pene di un uomo, per alleviarle e rasserenarlo facendolo camminare al tuo fianco? ...”.
In quel momento un ooohhh prolungato si levò dall’altra barca. Una lunga scia luminosa stava solcando il cielo da oriente a occidente, larga e resistente. Erano le 0.23 dopo la mezzanotte.
«Esprimi un desiderio», disse Rocco, e sullo slancio di quelle parole, senza pensarci, le diede un bacio sulla bocca. Adriana non oppose resistenza, gli offrì le sue labbra e con un gesto naturale del braccio destro portò la sua mano sulla schiena di lui e ne accompagnò il movimento. Dopo il primo bacio si guardarono negli occhi, increduli che fosse successo eppure consapevoli che fosse inevitabile. Non si dissero niente e continuarono a baciarsi in quel modo tenero e coinvolgente che sperimentano i ragazzi quando nel bacio esauriscono la loro sessualità adolescenziale.
“Una barca color vinaccia, Maga, ma perché non ci siamo saliti quando eravamo ancora in tempo?”[3]
Rocco e Adriana nei lunghi silenzi delle effusioni, tra una stella cadente e un’altra, non esaurirono il reciproco desiderio tra baci e tenerezze. Al riparo di un plaid steso sui loro corpi, silenziosamente, riparati dietro la piccola cabina di pilotaggio dagli sguardi della coppia che si era sistemata a poppa, ebbero un lungo-tenero-lento amplesso che li lasciò senza forze e senza domande.
“Ci conoscevamo appena e già la vita ordiva quanto era necessario per farci allontanare minuziosamente”[4].
Ritornarono a casa dopo le tre di notte.
Luigi era andato a dormire da un’ora, aveva letto ancora un po’ e si era addormentato da poco. Adriana non accese la luce, si svestì senza fare rumore, si coricò e rimase in posizione supina, gli occhi aperti come a guardare ancora le stelle sul cielo della stanza, e inevitabilmente cominciò a ripensare alla magia di quella serata.
Le persone pensano a quello che sono nell’ora più silenziosa della notte[5].
[1] Julio Cortàzar, Rayuela. Il gioco del mondo, TO, Einaudi, 1969, p. 130.
[2] Ibid., p. 16.
[3] Ibid., p.10.
[4] Ibid.
[5] Don De Lillo, Cosmopolis, Einaudi, TO, 2000, p. 106.
Sub montem saracenum
A S. Cesarea quel giorno, per un altro tuffo nelle acque solfuree delle grotte, si trovavano Adriana e i suoi accompagnatori abituali. Nello stesso torno di tempo in cui Tommaso rievocava le ville feriali, Rocco, seduto di fronte al mare nel dehor di un bar affacciato sulla passeggiata cittadina, preso dalla vista del palazzo in stile moresco torreggiante sulla sua destra nello sfondo azzurro del cielo che ritagliava la cupola come in una cartolina, d’un tratto, per far colpo su Adriana, ispirato, iniziò a declamare:
«Attiguo a casa sua stava un palazzo moresco, denunciato dal salmastro, orientale come un riflesso sbiadito, scrostato sotto le volte degli archi e sulle cupole, abitato d’inverno da cristiani comodi che nell’estate pagana cedevano le due ali sul mare, per non morire di fame. Proclamata la fine dello stato d'assedio, quel palazzo sarebbe diventato il quartier generale dei Turchi che, di tra le viole del cielo assolato, avevano ammainato le mezze lune»[1].
«Oggi Rocco è ispirato», disse Assunta che quelle uscite le conosceva;
«Cosa reciti?», aggiunse Adriana che aveva intuito il riferimento;
«Un passo da “Nostra Signora dei Turchi” di Carmelo Bene», rispose Rocco.
«Che davvero aveva una casa vicino al palazzo moresco, su quella strada che scende verso il mare», completò Gina indicando la strada.
Rocco continuò a declamare:
«Quella costruzione era un sunto di storia, oppure no. Era il suo carnefice convertito, proprio quando toccava a lui, cinquecento anni fa. Le esecuzioni degli ottocento e più martiri ebbero luogo in un campo di grano, e quei coloni inturbantati mieterono spighe d’oro ingemmate in cinabro, impazziti all’incanto di quella miniera di fede»[2].
«È un brano bellissimo», disse Adriana, «Conosco il Carmelo Bene attore, ma non ho letto il romanzo né visto il film omonimo».
«Per noi il film è un oggetto di culto, è stato girato qui; chi ha più di cinquant’anni ne ricorda le riprese», affermò Rocco.
Il dialogo continuò. Adriana voleva sapere, voleva vedere il palazzo da vicino, conoscere i racconti di quelle riprese, gli aneddoti; Rocco le propose la visione del film in videocassetta e le suggerì di leggere il libro. Nel frattempo si avvide che al bar si stavano avvicinando alcuni suoi conoscenti, tra i quali un tale di nome Franchino che ai tempi delle riprese di Nostra Signora dei Turchi non aveva perso una scena e spesso si era prodigato per aiutare la troupe a risolvere gli immancabili piccoli problemi logistici quotidiani. Franchino fu ben contento di ricordare quei tempi, fu prodigo di aneddoti e di descrizioni che successivamente Adriana ritrovò con grande piacere nei testi, tali e quali erano stati descritti.
[1] Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, Sugar editore, MI, 1966, pp. 45-46.
[2] Ibid., p. 46.
Dopo averne parlato, andarono a visitarlo.
«Lo hanno costruito i Saraceni ai tempi della loro conquista?», domandò Adriana.
«Certo! Quel palazzo sarebbe diventato il quartier generale dei turchi che, di tra le viole del cielo assolato, avevano ammainato le mezze lune», rispose Rocco con simulata serietà.
Cosa diceva Rocco? Non voleva per caso fargli credere che il palazzo moresco fosse come si dice dell’epoca? Quella costruzione era un falso. Non era davvero il caso d’intendersene. Fu progettato e realizzato ai primi del Novecento, andiamo! Gli schiavi solamente non sapevano quello che facevano. I padroni avevano voluto che somigliasse. Andiamo.[1]
Adriana aveva notato un che d’inverosimile nella frase di Rocco, nonostante la sicurezza con cui l’aveva pronunciata, nonostante quel “certo” perentorio… e poi quel riferimento alle viole…
Era falso, indubitabilmente, ed era vero, non solo perché reale; era il testimone postumo di un passato lontano un eone che aveva bloccato, dopo i fatti di Otranto, i rapporti tra Oriente e Occidente, spostando lo sguardo sulle rotte delle Indie colombiane, emarginando la piattaforma salentina che dall’Oriente aveva ricevuto impulsi di civiltà e di grandezza.
«Lo ha fatto costruire qualche Aga Khan sedotto dalla bellezza della costa?», chiese ancora Adriana durante la visita.
«No, è stata una moda locale d’inizio Novecento, quanto mai opportuna perché, forse, ha risvegliato il bisogno di una nuova apertura all’Oriente, per vincere il senso di umiliazione e di paura simboleggiato dalle torri di guardia, le torri saracene che avevano fatto la guardia contro le incursioni del turco e che ora sorvegliano il riposo dei villeggianti, non più preoccupate dalle invasioni».
Mentre parlava, Rocco aveva negli occhi le immagini di un’altra invasione, pacifica questa volta, accolta con lo stupore e la tolleranza di chi sa cosa vuol dire partire, abbandonare la propria terra in cerca di fortuna, perché la tua terra, per quanto amata e venerata non riesce a sfamarti e ha bisogno delle tue rimesse per rinascere e preparare un futuro più certo per le generazioni a venire. Questa volta non erano le feroci feluche moresche a essere avvistate dalle torri di guardia, erano i palazzi moreschi a dare il benvenuto ai gommoni e alle carrette del mare stracolmi di albanesi e mediorientali arrivati a mani nude; viaggi senza ritorno gestiti da tour operator stravaganti, specializzati nella gestione di reality di massa ai limiti della sopravvivenza dove vince chi riesce a non morire durante la traversata o durante lo sbarco, dove il premio per la vittoria è un soggiorno a tempo indeterminato in un CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione), dove l’avventura può continuare, a scelta del concorrente, con un’ulteriore prova di resistenza, vince chi riesce ad allontanarsi dal CIE, il premio questa volta è la conquista dello status di clandestino. Chi decide di non continuare il reality e chi non riesce ad evadere dal CIE otterrà, come premio di consolazione, un viaggio di ritorno su una nave o su un aereo di linea e dovrà rinunciare al seguito dell’avventura per cui aveva pagato il prezzo.
Sta come una riflessione nell’acqua… E così l’avevano costruito a picco sulla scogliera, come un peccato esemplificato a che nessuno lo ripetesse… lo vollero i fondatori, come a dire che qui, sicuramente, i turchi non avrebbero osato costruire un palazzo. Pure esiste un castello moresco. Ma che fa?[2]
Sta, all’angolo di una curva, quasi nascosto, come se avesse il pudore di mostrarsi. Sta lì per essere scoperto dai turisti, incuriositi di trovarlo in un posto così improbabile, in disparte; lo si vede arrivando da est o dal mare, il nord e l’ovest sembrano non interessargli, chiusi alla vista dall’incombere di altre costruzioni senza pretese che lo soffocano, lasciando all’angolo della curva, a nord-ovest, una limitata visuale di venticinque-trenta gradi, insufficiente a mostrarlo nella sua sontuosità, nonostante che proprio sul lato a ovest si apra la sua facciata d’ingresso, in un gioco intricato di vuoti e pieni, di logge, di balaustre intarsiate, di scale che portano all’elegante edicola del primo piano chiusa da una trifora merlettata. Sui due lati contigui alla facciata d’ingresso si aprono lunghi corridoi di archi moreschi sorretti da esili colonnine tortili che introducono alla loggia esposta a est dove insiste la base della grande cupola circolare sovrastante. Altre quattro cupolette erano collocate (ora perdute) ai quattro lati del palazzo dove si alzano altrettante finte torrette, quasi fosse un castello posto a difesa della costa.
[1] Ibid., pp. 111-112.
[2] Ibid., p. 112.
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