Per raggiungere S. Cesarea seguirono il percorso della litoranea. Sulla strada non si era ancora riversato il traffico impaziente dei vacanzieri, il panorama si apriva nel suo splendore cangiante dopo ogni curva disegnata sulle anse della scogliera, e dopo ogni curva lo stupore di Adriana reclamava una fermata per gustarne appieno la vista. Fecero solo due soste prima di arrivare a destinazione: la prima a Porto Badisco, uno sguardo dall’alto su un incredibile porto naturale dove si narra sia sbarcato il profugo Enea; la seconda alla torre Minervino costruita su uno sperone di roccia a picco sul mare dal quale si può godere una vista spettacolare su un lungo tratto di costa.
A S. Cesarea, seduti di fronte al mare, Tommaso riprese la conversazione sulle torri saracene avviata di fronte all’incanto di torre Minervino e rivolto alla sua compagna, con un gesto della mano, le disse: «Guarda verso est, dove il sole confonde nella sua luce il mare e l’orizzonte; forse era una giornata calma come questa, d’estate come adesso, quando da lì, nel millequattrocentottanta, arrivarono le galee moresche che straziarono la città di Otranto e il suo circondario».
In effetti i Saraceni con le loro scorrerie erano stati il filo conduttore della visita di Otranto e lo furono anche nei giorni seguenti. Non che ci fosse un motivo specifico per parlarne; semplicemente, se visiti Otranto e la costa salentina non ne puoi proprio fare a meno. Te lo ricordano a intervalli regolari le torri e le ville in stile moresco che adornano il paesaggio.
Adriana, non colse l’invito. Il suo sguardo era intensamente attratto dall’architettura del palazzo in stile moresco che torreggiava sulla sua destra e nello sfondo azzurro del cielo ne ammirava la cupola ritagliata come in una cartolina. Richiamata da quell’immagine, chiese a Tommaso: «Lo hanno costruito i Saraceni ai tempi della loro conquista?»;
«Certo! Quel palazzo sarebbe diventato il quartier generale dei turchi che, di tra le viole del cielo assolato, avevano ammainato le mezze lune», rispose Tommaso con simulata serietà.
Cosa diceva Tommaso? Non voleva per caso fargli credere che il palazzo moresco fosse, come si dice, dell’epoca? Quella costruzione era un falso. Non era davvero il caso d’intendersene. Fu progettato e realizzato ai primi del Novecento, andiamo! Gli schiavi solamente non sapevano quello che facevano. I padroni avevano voluto che somigliasse. Andiamo!
Adriana aveva notato un che d’inverosimile nella frase di Tommaso, nonostante la sicurezza con cui l’aveva pronunciata, nonostante quel “certo” perentorio… e poi quel riferimento alle viole…
«Cosa dici? Sembrano i versi di una poesia. In genere non sei così poetico», osservò con un po’ di bonaria ironia;
«È un passo da “Nostra Signora dei Turchi” di Carmelo Bene», rispose Tommaso, e per stupirla continuò a declamare:
«Attiguo a casa sua stava un palazzo moresco, denunciato dal salmastro, orientale come un riflesso sbiadito, scrostato sotto le volte degli archi e sulle cupole, abitato d’inverno da cristiani comodi che nell’estate pagana cedevano le due ali sul mare, per non morire di fame».
«Come mai lo ricordi a memoria?», chiese ancora Adriana;
«Carmelo ha abitato la casa vicino al palazzo moresco, su quella strada che scende verso il mare… e poi l’ho conosciuto quando ero ragazzo…», le rispose Tommaso con l’orgoglio di chi si sente parte di una storia.
Il pomeriggio andarono a visitarlo.
Il palazzo moresco era falso, indubitabilmente, ma era anche vero, e non solo perché reale; era il testimone postumo di un passato lontano un eone che aveva bloccato, dopo i fatti di Otranto, i rapporti tra Oriente e Occidente, emarginando la piattaforma salentina che dall’Oriente aveva ricevuto impulsi di civiltà e di grandezza.
«Lo ha fatto costruire qualche Aga Khan sedotto dalla bellezza della costa?», chiese ancora Adriana durante la visita;
«No, è stata una moda locale d’inizio Novecento, quanto mai opportuna perché, forse, ha risvegliato il bisogno di una nuova apertura all’Oriente, per vincere il senso di paura simboleggiato dalle torri saracene che avevano fatto la guardia contro le incursioni del turco e che ora sorvegliavano il riposo dei villeggianti, non più preoccupate dalle invasioni».
No, il palazzo moresco non fu il quartier generale dei turchi; fu il quartier generale del concessionario delle acque termali, quattro secoli dopo la cacciata dei turchi, costruito sul niente di un promontorio roccioso, ostile e dimenticato.
Sta ai piedi di una tondeggiante collina, un tempo brulla ora rigogliosa pineta, che prese nome dalla sua funzione: montem saracenum fu nomata per via della torre costruita sulla cima ai tempi delle incursioni corsare dei turchi; Torre Saracena quella, torre di guardia, sentinella di pietra in comunicazione visiva con altre torri gemelle disseminate lungo la costa. Da molto tempo non vigila più, non custodisce, guarda il palazzo e si meraviglia, spaesata perché non ha visto feluche e mezzelune, scimitarre e turbanti, giannizzeri e dervisci aggirarsi sul mare e sulla costa quando il palazzo fu costruito; è guardata, piuttosto, dal basso verso l’alto, testimone di un tempo che è stato, esposta nello stemma dei luoghi che ha protetto, simbolo alla stregua del palazzo: scelti a furor di turista che immancabilmente li immortala con il click della fotocamera.
Con un click li fotografò anche Adriana, il palazzo moresco con la sua cupola imponente e dietro la torre, in una notte di luna che rischiarava la scena riflettendosi sul mare appena increspato da una brezza leggera.
È passato oramai qualche decennio da quell’estate del millenovecentottanta in cui Adriana era andata a trovare Tommaso in Salento. Erano innamorati a quel tempo, poi finita l’Università era finito anche l’amore. Di quell’estate le è rimasto qualche ricordo e una fotografia un po’ sbiadita: un palazzo moresco, la sua cupola e una torre in una notte di luna piena.
Marzo 2017
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