Cisario scopre il rapporto parentale di Damiano e Nicola Demitri; con l’aiuto e il consiglio dei suoi protettori (Medardo Greco e Giovanni Rizzo, amici fraterni del padre) decide di stabilirsi a Leuternia. Lì scriverà la “Cronica” e avvierà la costruzione delle terme per la valorizzazione delle acque sulfuree le cui qualità terapeutiche erano state studiate e scoperte dallo speziale Medardo Greco.
Capitolo venticinquesimo
U frabbicatu, ‘mpizzatu rittu su li cuti, se trova allu stessu postu addhru prima stia u palazzu de lu conte, ‘mbrazzatu alla Feddhrica, cu la facciata chiatta e perta, senza caminamenti e tuttu ‘nfacce allu mare, allu jentu e alla cittade, cu le finesce ca se potene vidire i navicanti ca passane pe’ mare e puru ci staje ‘nterra, e tutti quannu lu quardane se rricordane ca e terme suntu u simbulu de a libbertade e de la ricchezza de Leuternia.
Di Nicola Demitri, questo il nome del mio patrigno, ne parlai in un altro incontro che, avviato con le solite considerazioni sul passare del tempo, per riannodare il filo strappato tragicamente tanti anni prima, toccò molti aspetti delle rispettive vite, ma soprattutto uno fu quello che mi sorprese di più, quando si venne a parlare del secondo marito di mia madre.
«Chi era Nicola Demitri?» chiesi, così semplicemente, ai miei interlocutori.
«Come mai ci domandi di lui?» chiese a sua volta Medardo, incerto sulle reali motivazioni della mia domanda.
«Perché di lui conosco solo la generosità e nient’altro. Ma è stato soprattutto il suo lascito morale sul letto di morte a interrogarmi sulla sua figura e sulla sua vita», spiegai.
«Qual è il suo contenuto, se è lecito conoscerlo?» chiese ancora il buon Medardo.
«Poche parole su mia madre e su di me; e per concludere questa frase inaspettata: “Abbi cura di te coltivando il ricordo del tuo vero padre”».
«Riconosco il gran cuore di Nicola, la sua grandezza si riassume nei suoi gesti silenziosi», disse il notaro Giovanni con un po’ di commozione trattenuta a stento.
«Dunque voi lo conoscevate?» dissi speranzoso.
«Lo conoscevamo per il tramite di tuo padre. Dopo la morte di Damiano, la sua presenza accanto alla tua famiglia ci rassicurò non poco», rispose Medardo.
«Doveva essere un legame molto forte, allora, quello che legava Damiano e Nicola, se questi sentì il dovere di provvedere alla mia famiglia in vece dell’amico defunto», chiesi ancora.
«Lo era. Un legame fraterno…», aggiunse Giovanni; e mentre pronunciava quelle poche parole guardò incerto verso l’amico, come se avesse il dubbio di essersi spinto oltre il dovuto.
«Come la vostra amicizia per Damiano», chiosai.
Medardo, che aveva notato sia l’imbarazzo di Giovanni sia l’espressione di stupore affiorata sul mio viso, fece un cenno di assenso verso l’amico, il quale rassicurato e rinfrancato, aggiunse: «Di più, Nicola era fratello di Damiano».
La notizia mi lasciò sconcertato e mi rattristò. Perché, pensai, quel legame era stato tenuto nascosto fin sul letto di morte? Perché mia madre non ne aveva parlato neanche dopo. Ne era ancora allo scuro o ne era al corrente da prima? Molte altre domande si affollarono nella mia mente ed a tutte risposero i miei anziani protettori con il racconto che succintamente ora espongo.
Nicola, unico figlio di un ricco mercante di olio della contea di Trani, era venuto a conoscenza dell’esistenza di un fratello poco prima della morte del padre. Chiamatolo al suo capezzale, il moribondo gli aveva confidato:
«Ho un peso che mi grava sulla coscienza ed è tempo di liberarmene. Fino a oggi non l’ho condiviso con nessuno e il segreto ha ingigantito nel tempo il mio senso di colpa. Tu, figlio mio, hai un fratello di cui nessuno sospetta l’esistenza».
Il bambino Damiano era nato dal rapporto del mercante con una donna la cui infelice condizione l’aveva privata delle gioie della vita, essendo stata relegata in casa quasi come una prigioniera. La donna, all’epoca non più in età da marito, perso il padre in giovane età era stata sacrificata dall’avidità dei suoi fratelli i quali, per non assegnarle la dote matrimoniale, le avevano precluso l’opportunità del matrimonio. Il rapporto tra il mercante e la sua occasionale amante nacque quasi per caso, senza alcuna premeditazione. Né si può dire che sia stato il frutto di una passione travolgente o di un colpo di fulmine; fu solo il desiderio represso della donna a spingerla tra le braccia del mercante, per il suo piacere e con la risoluta volontà di farsi beffe dei suoi crudeli fratelli. In verità il mercante non era stato il primo a giacere in sua compagnia, probabilmente ne fu l’ultimo, ma il caso volle che la donna restasse in cinta del mercante. La gravidanza fu portata a termine in gran segreto nel terrore che i fratelli scoprissero la tresca; negli ultimi due mesi, accampando un forte stato di debolezza, la donna convinse i fratelli a farla soggiornare in campagna dove, diceva, l’aria più salubre le avrebbe sicuramente giovato. La puerpera, spossata nel fisico per le privazioni a cui si era sottoposta per nascondere il suo stato, non si riprese mai del tutto e trascorse i due successivi e ultimi anni della sua triste vita in una penosa condizione d’infermità aggravata dal rimpianto per quel piccolo essere al quale aveva dato la vita e dal quale il suo triste destino l’aveva allontanata subito dopo il parto.
Il neonato, battezzato con il nome di Damiano in memoria del defunto genitore della madre, fu affidato a una famiglia di poveri contadini che, in cambio di una congrua rendita, accettò di allevarlo come proprio e di trasferirsi nel casale di San Giovanni Calavita, dove il ricco mercante possedeva dei terreni.
«Fino a quando è stato necessario ho aiutato Damiano a farsi strada nella vita, ora è un personaggio illustre della contea di Leuternia e vive la sua vita in agiatezza», aveva confidato il mercante al figlio Nicola, e aveva aggiunto:
«Nei suoi confronti non hai alcun obbligo, perché l’errore è stato mio e solo io ne devo portare la colpa. Decidi secondo coscienza e saprai certo comportarti per il meglio».
Un lascito impegnativo, che la coscienza di Nicola non poteva ignorare. Egli era un uomo mite e di saldi principi religiosi, da quel momento sentì l’urgenza morale di conoscere Damiano e di condividere con lui quel segreto durato troppo a lungo.
Lo incontrò per il tramite di un mercante di comune conoscenza e fu l’inizio di un’amicizia che solo più tardi, quand’era già consolidata, Nicola rivelò per ciò che era in realtà. Damiano di fronte a quella rivelazione restò ammutolito e incerto, tuttavia non avendo alcun motivo per diffidare ed essendosi affezionato a Nicola, lo sorprese con queste semplici parole: «La presenza di un altro fratello arricchisce la mia vita. Ora raccontami di nostro padre».
E quando gli fu raccontata la vicenda e si commosse per la vita infelice della madre, volle farne partecipi i suoi amici più cari, Medardo Greco e Giovanni Rizzo, con i quali condivise il segreto e la gioia per il fratello inaspettato. Ne fece partecipe anche Anna, sua moglie, impegnandola alla riservatezza onde evitare inutili illazioni e inutili ripercussioni sulla stabilità emotiva dei figli.
Erano gli anni precedenti la rivolta anticomitale. Quando quell’evento si compì e Damiano fu impegnato nel comando politico e militare dell’impresa, Nicola lo accompagnò nei modi e nei tempi che gli furono possibili, impegnò il suo patrimonio e le sue relazioni, e quando si giunse all’epilogo sciagurato che sappiamo, egli si adoperò a favore della famiglia assumendo su di sé l’onere di assisterla e di guidarla.
Decisi di stabilirmi definitivamente a Leuternia. Medardo Greco mi aveva ispirato il progetto che avrebbe celebrato la liberazione della contea e con essa Damiano, mio padre, che di quell’evento era stato il promotore e la guida.
«C’è un filo diretto che unisce l’insorgenza della fonte sulfurea e la morte di Damiano: un dato temporale innegabile e documentato. Io ne sostengo la casualità, ma poiché la provvidenza che governa il mondo raffigura ab origine ogni evento e ci assicura che niente è per caso, rendiamole omaggio e celebriamo in uno la causa e l’effetto», aveva detto il buon Medardo con serietà e compunzione, un giorno in cui ne discutevamo; anche se io e il notaro Rizzo che lo ascoltavamo percepimmo nel suo dire una chiara nota sarcastica.
Così il progetto iniziò a prendere corpo nella mia testa e sulla carta e dopo mesi di elaborazioni, ripensamenti, dubbi e verifiche mi dedicai con tutte le mie forze e le mie sostanze alla sua realizzazione effettiva. Che consisteva di due corpi di fabbrica distinti e opportunamente dedicati.
Commissionai per prima la costruzione di una cappella che incorporò l’edicola votiva preesistente. La cappella fu dedicata a san Zenobio, medico e martire, morto durante le persecuzioni dell’imperatore Diocleziano e festeggiato dalla Chiesa il 20 febbraio, proprio nel giorno in cui si era manifestato il fenomeno sulfureo nella grotta Ferrata. Altre coincidenze, oltre alla data, suggerirono quella scelta: il martirio e l’arte medica così autorevolmente praticata dal santo. In quella scelta, consigliata dai monaci di Casole, si riconosceva il connubio, come la credenza popolare aveva certificato fin dal primo giorno, tra l’intervento della Provvidenza divina e il sacrificio dei cittadini morti per la libertà di Leuternia. Con la benedizione della Chiesa, fu avviata anche la seconda fabbrica prevista dall’ambizioso progetto elaborato con la collaborazione dei miei due autorevoli padrini, ai quali furono riconosciuti i meriti di aver avuto un ruolo di primo piano nell’ardita impresa di cacciare il conte Patruno.
La costruzione, quasi a picco sul mare, occupa lo spazio su cui in precedenza sorgeva il palazzo comitale, uno spazio simbolico che domina la grotta Fetida, già e non più Ferrata, che insiste su di essa col suo nuovo profilo piatto ed aperto, privo di spalti e di torri merlate, arioso e affacciato sul mare e sulla città con ampie finestre che occhieggiano con i loro riflessi sia ai naviganti che transitano sulle acque marine, sia ai terricoli che in quei bagliori riconoscono il simbolo della loro libertà e della loro ricchezza. Il fabbricato che ha sostituito il castello si ispira all’idea delle terme, diffuse ai tempi dell’impero romano, ma a differenza di quelle persegue finalità curative utilizzando le acque ed i fanghi della grotta che Medardo Greco, e dopo di lui altri insigni studiosi, hanno certificato come idonei allo scopo.
Sulla facciata delle Terme, nel giorno della solenne inaugurazione fu collocata una lastra marmorea in ricordo dei tragici eventi che ne avevano motivato l’edificazione.
Qui termina la Cronica, ma non il manoscritto che in una nota posteriore – evidentemente aggiunta dal trascrittore della Cronica o, simulando, dallo stesso estensore, o da chiunque abbia avuto per mano il manoscritto in epoca successiva – riporta alcune interessanti informazioni sulla condizione della città nei decenni seguenti alla costruzione delle terme, con un veloce sguardo conclusivo alla situazione osservata al suo tempo dall’anonimo estensore.
Passarono molti decenni da quel giorno. Si succedettero tempi che, come sempre accade, oscillano tra gli opposti estremi della prosperità e della penuria, tra la guerra e la pace, ma in generale furono anni meno dolorosi di quelli che li avevano preceduti. Le guerre intestine combattute senza soluzione di continuità tra i nobili feudatari per aumentare il potere personale e il dominio sul territorio per fortuna lambirono ma non coinvolsero la contea di Leuternia. In quel periodo di relativa stabilità, seppure tra gli alti e i bassi della sorte, le terme di Leuternia consolidarono sul territorio circostante, anche oltre i confini della contea, la rinomanza salutistica delle acque sulfuree e richiamarono un numero crescente di persone bisognose di cure. Il loro destino cambiò repentinamente nell’anno millequattro- centottanta quando la contea, caduta la città portuale di Hudrentu nelle mani degli invasori turchi di Ahmet Pascià, fu saccheggiata per lungo e per largo. Molti casali furono incendiati e distrutti, molte persone trucidate o ridotte in schiavitù e vendute sui mercati mediorientali e nordafricani. I luoghi di culto furono saccheggiati e rasi al suolo, così le città che tentarono la resistenza armata. Tale sorte toccò, tra le altre, all’Abbaziadi San Nicola a Casole e alla città di Leuternia. La strenua resistenza opposta dalla città in attesa di ricevere rinforzi dall’interno, scatenò la feroce vendetta degli assalitori che la misero a ferro e fuoco facendone terra bruciata. Da quella condizione estrema e infelice la città non si risollevò più.
Passarono ancora altri secoli prima che il territorio circostante le grotte leuterne venisse nuovamente abitato e le acque sulfuree tornassero ad essere utilizzate come presidio curativo. Altro tempo passerà prima della costruzione di un nuovo sito termale, dapprima provvisorio e modesto, poi stabile e ambizioso.
FINE
Nessun commento:
Posta un commento