lunedì 30 ottobre 2023

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

La nuova Leuternia in costruzione tra fine '800 e inizi del '900. Sullo sfondo la piccola cappella dedicata alla vergine Cisaria fotografata nel giorno della festa patronale del 12 settembre.

Forse è lo stesso sito visitato da Cisario Polifemo, l'estensore della Cronica tornato a Leuternia dopo oltre trent'anni di esilio, dove era stata innalzata una piccola edicola votiva dedicata alla Vergine Maria per chiedere la liberazione della città dall’infernale, pestifero fenomeno sulfureo.

Capitolo ventiquattresimo

Rrivaii de punente, de a via ca passa de costi a lu casale de Santu Scianni Calavita e scinne su Leuternia, e propriu ‘mpena ‘ncumincia a scisa, a manu ritta, l’occhi mei ca se la spittavane, quardara nna vituta beddhra comun nu quadru, a stessa vituta ca nunn’hia quardatu l’urtima fiata, quannu era vagnone e sta ne sciane luntanu de Leuternia pe’ lu bannu de lu tristu conte Patrunu ca n’hia cacciati de la contea.

Teo Patruno, Cocidio e Sofia furono condannato a morte in contumacia. Si chiudeva un’epoca della storia di Leuternia e se ne apriva una nuova. Quale sarà il suo corso è difficile dire; ciò che ho potuto osservare fin qui non lascia molto spazio alla speranza, ancor meno alle illusioni. Posso solo continuare a dar conto degli sviluppi successivi all’uscita di scena del conte per cogliere le tracce di un possibile percorso e constatarne la direzione.

La rovina dei Patruno accese gli appetiti di molti sulla contea, non solo quelli della Chiesa per il tramite dell’Abbazia di Casole. Ad essa si aggiunsero, con studiati argomenti, quasi tutti i vicini: dal conte di Leche per i numerosi casali oggetto di precedenti controversia con i Patruno; al duca di Andria che la rivendicava per la sorella Lucina, e dopo la sua morte per sé in quanto suo unico erede; al duca di Taranto per la parentela con Gaia; fino all’oscuro feudatario calabrese discendente del padre di Livia.

Un guazzabuglio inestricabile che non poteva essere risolto per via ereditaria senza contrastare ambizioni e aspettative legittime; considerando, peraltro, che nel novero dei pretendenti c’erano feudatari tra i più eminenti del regno: i duchi di Taranto e di Andria, i quali assommavano nelle proprie mani un potere e un prestigio di cui il re non poteva non tener debito conto.

Per svincolarsi dalle pastoie ereditarie, il re decise di inserire la contea tra i feudi demaniali, gestiti direttamente dalla corona tramite suoi rappresentanti.

A Leuternia apprezzarono la scelta ed ottennero che nei nuovi statuti fossero inserite clausole e salvaguardie tali da garantire tutti i poteri di autogoverno delle città già riconosciuti dalle antiche consuetudini. Furono celebrate feste e inviate delibere di ringraziamento al sovrano con le quali se ne decantava la magnanimità e la lungimiranza. L’entusiasmo durò poco, il volgere di un lustro; giusto il tempo necessario ad assestare il potere dei nuovi padroni, funzionari del re, ma non meno corrotti ed esosi dei conti che li avevano preceduti. In pratica cambiò tutto senza che niente cambiasse davvero, se non il rispetto delle prerogative istituzionali cittadine; i cui poteri, a ben guardare, non erano stati decisivi prima così come non lo furono dopo. Che era tanto, sia ben chiaro, e non poco. Per le due, tre questioni rivendicate insieme al ripristino dei poteri delle assemblee popolari: la pressione fiscale, la protezione dalle incursioni saracene, gli interventi per lo sviluppo delle attività economiche e il lavoro, niente fu fatto. La contea, come l’intera provincia furono testimoni di un lento e inesorabile declino che ne segnò irreparabilmente le potenzialità e la ricchezza, condannandola a un futuro di stenti e di miseria per la stragrande maggioranza della popolazione.

Tale era la condizione della città, il giorno in cui feci ritorno a Leuternia. Era un pomeriggio di marzo, ventoso e ancora freddo. Il vento di borea spirava con folate intermittenti, a tratti tese e ruggenti da nord, a tratti moderate, soffiate dalla guancia destra ond’è più leno1, quasi uno zefiro preannunciante l’imminente primavera. Il cielo era luminoso e sereno, qualche cirro isolato in rapido transito si disperdeva sull’ampia distesa marina che già vagheggiavo oltre gli alberi d’ulivo frondosi, i coltivi, la macchia verdeggiante.

Arrivando dallo stradone che, proveniente da ovest, fiancheggia a sinistra il casale di San Giovanni Calavita e s’infossa nell’ardita discesa che dai contrafforti della serra porta all’abitato di Leuternia, proprio al limitare della discesa, sulla destra, si manifestò al mio sguardo in spasmodica attesa una visione di maestosa bellezza, quella stessa che non avevo voluto guardare per l’ultima volta quando bambino ero stato costretto all’esilio dal bando dello spregevole conte Patruno.

Il mare, aperto a sud fino all’orizzonte, era limitato a est dalla lontana costa dell’Epiro di cui s’intravedevano le innevate catene montuose rosseggianti del riflesso del sole al tramonto; a ovest, sul profilo della serra degradante fino al capo Japigio, nel tenue barbagliare dei raggi oramai declinanti, si stagliava il castello di Castrum in contatto visivo con quello leuterno, il cui elegante profilo non vidi, cancellato dagli infuocati eccessi di un popolo festante. Quell’assenza fu solo in parte compensata dall’azzurro superbo del mare, increspato a tratti dalle stizzose folate del vento che ne accarezzava veloce la superficie in rapsodiche fughe; a tratti disteso e liscio come pause tra due frasi musicali.

La sensazione che n’ebbi fu controversa. Ne comprendevo il significato catartico, il valore liberatorio per il tramite della violenza sui simboli dell’oppressione; tuttavia, il vuoto che n’era conseguito sanguinava nella mia mente come una ferita che solo il tempo lungo o la riparazione potevano rimarginare.

Non ci sarebbe stata alcuna riparazione, ne ero certo; ma il tempo s’incaricò di smentire la mia immatura previsione.

Nei pressi del castello, per l’intanto, un po’ discosta dalla grotta, come accertai di lì a qualche giorno, era stata innalzata una piccola edicola votiva dedicata alla Vergine Maria per chiedere la liberazione della città dall’infernale, pestifero fenomeno sulfureo.

Ero distratto da questi divergenti pensieri quando, sollecitato dal mio stesso pensare, percepii il puzzo molesto esalato dalla grotta. Eravamo, io e il servitore che mi accompagnava, a metà circa della discesa. Mi fermai e smontai da cavallo sollecitato da una congerie di impulsi contrastanti.

«Senti anche tu questo agro odor di zolfo?» dissi rivolto al mio accompagnatore.

«Lo avverto già da tempo. Non ve ne ho parlato per non distrarvi dalla contemplazione in cui eravate assorto», rispose con rispetto il domestico.

Non era più lo spettacolo luminoso spalancato sotto i miei occhi ad occuparmi la mente; nella coscienza si era fatto dolorosamente strada il ricordo del giorno lontano in cui, ragazzino, ero corso in strada per scoprire la provenienza di quell’immonda pestilenza.

Risposi con amarezza: «Speravo che col tempo si sarebbe esaurito; invece è ancora qui ad offendere i sensi degli uomini e a macerare il ricordo di ignobili vendette».

«Credevo fosse solo un fatto contingente, signore, ma sento che le vostre parole rimandano a eventi lontani di cui non mi avete parlato. Tuttavia, non comprendo il rapporto tra le vendette e l’immonda graveolenza che ci assale», disse con acutezza il mio fido compagno.

Ed io a mio volta, per contenere il dolore stupefatto del ricordo, conclusi:

«Un giorno o l’altro ti racconterò tutta la storia e ne rimarrai sorpreso e forse raccapricciato. Ora, però, è tempo di riprendere il cammino, se vogliamo arrivare in città prima che faccia buio».

Percorremmo l’ultimo tratto di strada in silenzio: io guardavo a destra e a manca in cerca di vedute rilassanti che stornassero il ricordo del giorno doloroso appena rievocato; il mio servitore mi teneva dietro assorto in pensieri che non conoscevo.

La vista del mare non mi ristorava più; il mio sguardo, in sintonia con l’umore, preferiva indugiare sulla brulla collina pietrosa che circonda la città come un anfiteatro, quando a una svolta della strada, nel tratto di mare antistante la grotta Ferrata, comparve la fatale macchia lattiginosa in cui si diluivano le viscide sostanze cagione degli effluvi che ammorbavano l’aria. L’estensione di quella zona infetta mi sembrò di gran lunga maggiore di quanto la mia memoria di bambino ricordasse, anzi mi pareva tanto vasta da includere l’intero tratto – non più di centocinquanta braccia – compreso tra la Ferrata e l’altra grotta indicata col nome di Gattusa.

Più tardi mi accorsi che anche dalla Ciulara, la terza grotta incuneata nelle viscere della città, più o meno a ottocento braccia dalla prima, fuoriusciva il medesimo flusso biancastro. Erano espressione dello stesso fenomeno? A Leuternia nessuno lo escludeva e ognuno aveva una teoria plausibile per spiegarlo.

Il mattino seguente mi alzai di buon’ora per immergermi nei meandri cittadini ancora deserti, prima che fossero invasi dalla ciarliera presenza dei frequentatori abituali. Sentivo il bisogno di un incontro a tu per tu, senza testimoni, con la città della mia infanzia, con la sua struttura materiale: i vicoli, i muri delle case, i palazzi, le piazze, le botteghe, i balconi, le chiese; per verificare i miei ricordi; per riappropriarmi della mia vita interrotta quando ero ancora innocente e non conoscevo le brutture del mondo e dell’animo umano. La sera prima ne avevo intravisto alcuni scorci, dirigendomi verso la dimora che, grazie alla generosità di Medardo Greco, mi avrebbe accolto: ma vuoi per la stanchezza, vuoi per il buio imminente che ne stemperava i contorni, non mi trasmisero alcuna sensazione.

M’incamminai da solo, girovagai senza meta soffermandomi qui e là per confrontare realtà e ricordi, i quali spesso non reggevano il confronto, si rivelavano incerti, incompleti o del tutto assenti, pagine bianche di una memoria che avrei dovuto riempire nel tempo che mi era stato precluso. Quando nella realtà riconoscevo il ricordo, un’emozione lancinante mi stringeva il petto e mi offuscava il pensiero, stimolava sensazioni che non saprei definire, come di rimpianto, o forse di malinconia che m’intenerivano e m’irritavano a un tempo, delle quali non riuscivo a riconoscere altre cause possibili se non la morte di Damiano, mio padre, e l’allontanamento da Leuternia.

Il girovagare senza meta apparente mi condusse sui bastioni del lungomare di piazza d’armi. Dalla stretta apertura della grotta Ferrata fuoriusciva, come dal camino di una carbonaia, un persistente, leggero pennacchio di fumo che a lente volute, oltre il limite degli scogli, scompigliato dal vento, si disperdeva. Quel fenomeno mi era nuovo; forse per il fatto che l’avessi osservato in una stagione più calda, la memoria della mia infanzia non lo aveva registrato. Doveva essere la differenza di calore tra l’interno e l’esterno a originarlo, mi dissi, come accade d’inverno quando si respira. Ma ciò, pensai ancora, nulla mi dice di quanto accade all’interno della grotta. E fui assalito dal desiderio di sapere; lo stesso che mi aveva preso quel fatidico giorno lontano una vita, insieme a Delio, a Ilario e alla banda di ragazzini con i quali facevo combriccola.

Se il desiderio incalzava allo stesso modo, identica non fu la reazione: il bambino, nonostante la paura che lo agghiacciava, pur di non cedere all’umiliazione della rinuncia, era pronto a rischiare l’incontro ravvicinato con il drago immaginario della fervida fantasia fanciullesca; l’uomo, dotato di razionalità e di coscienza per discernere tra realtà e fantasia, non fu esente dalla paura. Non certo la paura mitologica del drago; qualcosa che si era incistato nella mia interiorità, che contro ogni evidenza razionale identificava una relazione tra la morte di mio padre e il fenomeno sulfureo. Che avrebbe ostacolato non poco il passo imprescindibile dell’esplorazione diretta della grotta.

Che cosa nascondeva la grotta?

Oscillavo come un pendolo tra desiderio di conoscenza e le pulsioni istintive che generano resistenze irrazionali. Restai immobile, come ipnotizzato dai movimenti oscillatori della mente e dello sguardo; forse ebbi un momento di smarrimento e sbiancai in viso.

Mi si avvicinò un passante, preoccupato dal mio stato di malessere, il quale, con cortesia chiese: «Siete forestiero, signore? Forse non vi giovano gli effluvi della grotta». «Oh, non è niente. Solo un po’ di confusione indotta dai ricordi», risposi con altrettanta cortesia. «Ricordi indotti da quest’insolito panorama?» «Proprio così. Ricordi di me bambino nel giorno in cui la città si svegliò ammorbata dalla pestilenza». «Con chi ho l’onore e il piacere di parlare? Sono stato anch’io infante a Leuternia e a giudicare dall’età potremmo avere dei ricordi in comune», disse lo sconosciuto con un evidente interesse. «Mi chiamo Cisario Polifemo…».

Non avevo ancora terminato la risposta, che il mio interlocutore, trattenendo a stento l’impulso di abbracciarmi, si affrettò a comunicarmi la sua gioia e la sua identità: «Che piacere rivederti, Cisario. Sono Ilario. Ne è passato di tempo da quel giorno. Sei di passaggio o intendi ritornarvi stabilmente?».

La famiglia di Ilario era ritornata a Leuternia subito dopo la fuga del conte; lui vi era cresciuto, aveva convissuto e familiarizzato con la fonte sulfurea, fino ad assuefarsi ai suoi effluvi, «che oramai non disturbavano come nei primi tempi», disse. La grotta e la sua fonte, dopo quei tre decenni, non erano più ritenute luoghi immondi, le porte dell’inferno o un fenomeno inspiegabile, misterioso e osceno, l’opera del demonio evocata dalle orrende malefatte della stirpe dei Patruno. Se ne parlava ancora – e come sarebbe stato possibile altrimenti? – e ancora suscitava sentimenti di ripulsa e di paura, ma cominciavano ad essere relegati tra le superstizioni popolari di cui si parla senza crederci fino in fondo, ma anche senza rinnegarne l’attendibilità. E come accade per tutti i fenomeni della natura, la curiosità degli uomini e la sete di conoscenza ne scoprirono la realtà effettuale e la descrissero e ne provarono gli effetti, concludendo che di un fenomeno naturale, appunto, si trattasse, per giunta non malevolo o dannoso per gli uomini e gli animali, bensì portatore di proprietà terapeutiche giovevoli alla salute.

«Non lo so ancora. Non conosco con certezza neanche i motivi che mi hanno spinto fin qui, spero di chiarirmeli respirando quest’aria e guardando questo mare», risposi evasivamente. Cos’altro potevo dire? Non avevo alcun programma da attuare, solo un’idea nobile e confusa: il lascito morale del mio patrigno.

Passeggiammo sul lungomare parlando a lungo delle nostre vite e della situazione della contea, quindi ci separammo con l’impegno di vederci nei giorni seguenti, che per me sarebbero stati densi di impegni e di emozioni, di incontri e di scoperte.

A quell’ora la città brulicava di gente indaffarata e di nullafacenti, come in tutte le città; le botteghe artigiane e mercantili esponevano le mercanzie sui banchi all’aperto: poche e povere, in verità, come poche e tristi erano le persone che le acquistavano. Triste e grigia, sopraffatta dalle urgenze della vita mi sembrava la popolazione di Leuternia, privata della gioia di vivere e dell’allegria che l’aveva contraddistinta in passato e di cui andava fiera. Tutta la città mostrava i segni di un degrado che non mi sarei aspettato. La confrontavo con i miei ricordi trovandola meno vivace, più stanca, più degradata; le facciate dei palazzi avevano perso l’antico splendore, le strade e le piazze denunciavano incuria e abbandono; ma forse i miei ricordi non erano attendibili, la lontananza e il tempo li avevano trasfigurati rendendo impari il confronto.Ritornai nel mio alloggiamento che il sole era già alto.

Nel pomeriggio di quello stessa giornata feci visita a Medardo Greco. Il vecchio speziale, ritiratosi dagli affari, era oramai più di un lustro, si dedicava allo studio delle acque sulfuree delle grotte leuterne, un fenomeno che lo aveva interessato fin dal primo giorno perché, come uomo di scienza, non aveva giammai dato credito alla vulgata popolare, anche se non l’aveva mai smentita – chiarì – «per alimentare l’avversione popolare nei confronti del conte Patruno».

Egli aveva coltivato la sua convinzione in gran segreto, aveva consultato trattati di alchimia, analizzato le acque e i fanghi depositati sul fondo della grotta per scoprirne la composizione: un lavoro febbrile nel retrobottega durante anni e anni di prove, di conquiste realizzate a piccoli passi, di scoraggiamenti e insuccessi che gli suggerivano di abbandonare l’impresa.

«Ma io sono testardo e non mi sono lasciato scoraggiare», mi confidò nel corso delle lunghe conversazioni che intrattenevamo.

Dopo innumerevoli analisi ebbe l’intuizione che i sali e i minerali sciolti nell’acqua e nei fanghi, uniti al calore della fonte, potessero rivelare proprietà terapeutiche ed effetti curativi.

Per accertarsene ne sperimentò prima l’efficacia su di sé e su qualche altra involontaria cavia, quindi promosse l’applicazione dei fanghi caldi per la cura di dolori reumatici e altri malanni delle ossa, delle articolazioni e dei muscoli; per le malattie della pelle suggerì i bagni nelle acque solfuree. Da allora ebbe inizio, lentamente, una pratica i cui benefici hanno valicato i limiti della città e della contea.

Medardo Greco mi accolse con calore e affetto, con la stessa bonomia con cui era solito trattarmi quando m’incontrava, io ragazzino, per le strade di Leuternia o in compagnia di mia madre o di mio padre:

«Il piccolo Cisario…», disse abbracciandomi con forte trasporto.

Intuivo che quel trasporto e la commozione che ne conseguì andavano oltre il piacere di vedermi; era mio padre che vedeva in me, e in me rimpiangeva la triste sorte dell’amico, e per chissà quale processo mentale traspariva l’imbarazzo di aver raggiunto senza meriti quella vetusta età, mentre tanti altri valorosi avevano sacrificato la loro giovane vita per sostenere un’idea.

«Sei tutto tuo padre. Se ti avessi incontrato per strada ti avrei riconosciuto senza fallo», aggiunse dopo avermi osservato con insistenza.

Ricambiai il saluto porgendogli anche quello di mia madre e delle mie sorelle, quindi mi fece strada fino al suo studio, che mi sarebbe diventato familiare, dove iniziò il lungo racconto delle vicende narrate in questa “Cronica”.

Dopo qualche tempo fu annunciato l’arrivo di un altro protagonista della Cronica, quel notaro Rizzo, coevo e sodale dello speziale e di Damiano, il terzo esponente di quel triunvirato che aveva guidato e sostenuto la rivolta contro il conte Patruno.

I due ultrasettuagenari, affaticati dall’età e dalla vita, conservavano un portamento e una padronanza di sé non comuni, a cui facevano riscontro un’invidiabile memoria e una vivace, profonda capacità di analizzare fatti e situazioni.

Medardo, alto oltre la media, un po’ incurvato dagli anni ma ancora di buona complessione, austero nella lunga tunica di un rosso sbiadito che ne dichiarava l’usura, la rada barba bianca allungata sul mento in forma di pizzetto, aveva un’espressione del viso concentrata e grave, resa ancor più intensa dalla vista debole che lo costringeva a contrarre i muscoli facciali per mettere a fuoco le persone e l’ambiente.

Giovanni, più basso dell’amico e più magro, dritto come un fuso e agile, indossava un’elegante pellanda viola e gialla, stretta in vita da una cintura di cuoio e una cuffia dello stesso colore; completava l’abbigliamento una leggera mantellina verde scuro. Sul viso, fresco e rasato, affiorava un sorriso benevolo, messaggero spontaneo della sua simpatia – come ebbi modo di constatare in molte occasioni – che lo favoriva nelle relazioni e gli assicurava la fiducia e la benevolenza di amici, conoscenti e financo degli avversari.

Lo speziale, al contrario di Giovanni Rizzo, era un uomo di poche parole, riflessivo e riservato. Il suo sembiante serio e poco incline al sorriso, gli conferiva un’aurea di saggezza, suggeriva la convinzione che fosse depositario dei segreti della natura e dell’animo umano e a lui i suoi concittadini si rivolgevano con fiducia e speranza per ottenere i rimedi che ne avrebbero guarito il corpo malato e i consigli per rassicurarne l’animo dubbioso o sconfortato; e in questo più ancora dei preti e dei frati che il compito di confortare lo spirito svolgevano per competenza e missione.

I due, così diversi nell’aspetto e nel comportamento, si rivelarono ai miei occhi e al mio intelletto meno diversi di quanto lasciasse credere l’apparenza: essi erano accomunati dalla medesima concezione della vita e della storia, dall’identica opinione sugli uomini e sul mondo naturale e ciò aveva reso duratura la loro amicizia e il loro sodalizio intellettuale ed umano.

Mi fu di grande aiuto e conforto scoprirli in questa dimensione, perché mi convinsero che anche mio padre Damiano avesse quella tempra e ne condividesse lo spirito e il pensiero.

Nel corso di quel primo incontro, nel quale centrali erano stati il ricordo e la postuma commemorazione di Damiano, l’elogio delle sue virtù e dei suoi principi morali, gli stessi condivisi dalla ristretta cerchia dei suoi amici, maturai la convinzione di poter tener fede al compito affidatomi dal mio patrigno. A loro non rivelai, sul momento, il lascito morale che mi impegnava in quella direzione, però fui esplicito nel metterli al corrente della mia intenzione di indagare sulla morte di Damiano e sugli avvenimenti di quella stagione infelice che insieme a loro lo avevano visto protagonista, che sarebbe rimasta per sempre nella memoria del popolo di Leuternia. Loro si dichiararono disposti ad accompagnarmi nella ricerca, a mettermi a parte della conoscenza che n’ebbero. Di tanta disponibilità sono debitore e riconosco con gratitudine che si adoperarono con sollecitudine non lesinando impegno, memorie scritte, contributi orali, suggerimenti, piste d’indagine e riflessioni. Senza di loro il mio sforzo sarebbe stato insufficiente e non avrei potuto conseguire alcun risultato apprezzabile.


1 Dante Alighieri, La divina commedia (Paradiso, Canto XXVIII, v. 81)

 


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