Come i rappresentanti del CNL (Comitato di Liberazione Nazionale) che il 25 aprile 1945 marciarono per le vie di Milano liberata dall’occupazione tedesca e dal governo fantoccio dei repubblichini, anche a Leuternia, sei secoli prima, i membri del Parlamento cittadino, a lungo esautorato dalle prevaricazioni del conte Patruno, avevano marciato con le insegne e gli emblemi della antiche prerogative col dichiarato intento di celebrare l’agognata riconquista delle libertà cittadine.
Capitolo ventitreesimo
U populu de Leuternia s’hia ‘ndirizzatu a lu palazzu de lu conte e critava de cuntentezza girannu pe’ le curti o ‘nfacciatu a li bastioni de fronte a lu mare. Quiddhri ca stiane sutta alla chiazza rispunniane allu stessu modu.
Dopu trasira intra a li saloni e alle stanze e se pijara ce truvavane e quiddhru ca nu se putiane pijare lu scasciavane e lu jentulisciavane a menzu a li curtiji o intra a li saloni e ne ficera focareddhre comu allu ggiurnu de sant’Antoni abbate e poi ballara e cantara tornu tornu allu focu.
Il
conte si trovava al bivio di un percorso accidentato, qualunque fosse
stata la strada percorsa. Egli, è vero, aveva un vantaggio sul lento
decorso della giustizia regia: ne conosceva le intenzioni; ma ciò
non gli avrebbe giovato. Se avesse deciso di presentarsi al cospetto
del Re, difficilmente avrebbe ottenuto clemenza. Neanche la
resistenza armata era praticabile, avrebbe solo differito il momento
della capitolazione, anche se, in armi avrebbe potuto patteggiare
qualche soluzione accomodante.
Decise di sfruttare il vantaggio temporale che gli era stato concesso e progettò una fuga via mare, verso il regno di Sicilia governato da un antagonista del re napoletano, al quale, presumibilmente, chiese protezione offrendogli i sui servizi.
Non sappiamo quale sia stata l’accoglienza ricevuta in Sicilia dal fuggiasco, né ci interessa più di tanto. Certo è che di lui e della sua famiglia non restarono tracce visibili. Forse, nei venti e più anni trascorsi fino ad oggi, nessuno a Leuternia le ha cercate, e neanche nella capitale del Regno; né i miei tentativi postumi hanno dato alcun frutto.
Me ne consolo a usura, se penso ai benefici goduti dai cittadini della contea.
Le intenzioni del conte furono evidenti a tutti quando iniziò a diffondersi la notizia di un insistito andirivieni di carriaggi tra il castello e il porto dove attendevano due tartane arrivate da Hudrentu. Vi si caricava di tutto: mobili, quadri, suppellettili, effetti personali, viveri, animali e quant’altro. Il castello si svuotava e le stive delle navi si riempivano. Furono necessari due giorni per completare il carico; all’alba del terzo giorno erano partite.
Il risveglio della città, così mi è stato riferito unanimemente da molte fonti, fu simile a quello dell’alba in cui dalla grotta Ferrata (o Fetida, come si preferisce denominarla oggidì) iniziò a sgorgare la fonte solfurea che tanto clamore e tanti interrogativi aveva suscitato in città.
Però non c’era apprensione.
Il popolo di Leuternia si era riversato nelle strade e nelle piazze per convergere compatto e festoso verso il porto e lungo i bastioni che davano sul mare. Nell’aria si sentiva il respiro della città, come di sollievo; un flusso e un riflusso continui che assecondavano il moto del mare; ma era il vociare concitato della gente che ora si alzava più eccitato, ora più riflessivo, per tornare a eccitarsi di lì a poco e poi calmarsi, in un andirivieni continuo come il flusso delle onde, solo meno regolare.
Le tartane erano partite prima dell’alba.
Solo gli equipaggi di qualche barca peschereccia in procinto di ritornare in porto le avevano viste far vela verso il capo Japigio; e i pochi insonni – in quell’ora incerta in cui la notte cede lentamente il passo alla luce e il cielo ad est inizia a tingersi di un tenue, impalpabile grigio, e poi di rosa, prima di esplodere nella vivida luce del sole sorgente, rosso come una palla di fuoco, dietro le montagne dell’Epiro – i pochi insonni, dicevo, alla ricerca di una buona posta lungo la scogliera, animati dalla mai sopita speranza di catturare saraghi e orate, armati di una lunga canna da pesca.
Svanita la speranza di vedere le tartane allontanarsi sul mare increspato del mattino, le vele gonfie dalla brezza di terra che ne assecondava l’andare, il moto della gente, abbandonata l’originaria metà, si diresse con passo veloce, molti correndo, verso il castello. Si era sparsa la voce che anche il conte con i suoi fedelissimi si fosse imbarcato e avesse abbandonato Leuternia.
Le cause della fuga non erano note, ma già qualcuno metteva in campo illazioni non lontane dal vero sulle quali s’intrecciavano opinioni, si facevano previsioni, perfino scommesse, in un crescendo di entusiasmi frammisti a preoccupazioni e attese speranzose.
Il castello, aperto e incustodito, fu presto occupato dalla folla. I servi che non avevano potuto seguire il conte, temendo la reazione dei cittadini, avevano abbandonato la città alla chetichella, speravano di salvarsi la vita raggiungendo i rispettivi luoghi di origine. Di gendarmi non c’era neanche l’ombra: avevano seguito il loro capitano datosi anch’esso alla fuga perché sapeva che in quella situazione a restare indefessi al proprio posto, nel vuoto di potere che la defezione del conte determinava, era oltremodo rischioso e non valeva di certo la pena perdere la testa per tener fede a un giuramento di fedeltà infranto da chi lo aveva ricevuto.
La folla, dunque, si era riversata nel castello. Grida di gioia e manifestazioni di entusiasmo si levarono alte nei cortili e sui bastioni che fronteggiavano il mare. Evviva liberatori rispondevano dalla spianata sottostante. La folla, animata da un eccitato senso di liberazione e di vendetta, sciamò per i locali del castello impadronendosi di tutto ciò che poteva essere utile; quanto non veniva asportato subiva le ingiurie dell’ira i cui scarti venivano defenestrati e accumulati nei cortili o nei saloni per essere dati alle fiamme in falò purificatori.
I più coraggiosi, armati di torce e di spade o alabarde recuperate nei locali del corpo di guardia, penetrarono nei sotterranei per esplorarne i misteri. Videro le segrete in cui tanti erano morti di stenti o di malattie; videro la stanza delle torture con tutti gli attrezzi e i marchingegni del dolore e della morte applicati ai tanti, troppi, che vi avevano soggiornato e non ne erano mai emersi. Con non poca apprensione, i più curiosi e intraprendenti tra loro, attirati dagli effluvi sulfurei esalati dalla grotta sottostante, scardinata la porta che ne ostacolava l’accesso, scesero le scale ripide, strette e scivolose per l’umidità crassa delle esalazioni , ritrovandosi al cospetto delle polle di acqua biancastra da cui risalivano i fumi nauseabondi che continuavano ad ammorbare la città e i suoi dintorni. Con le lunghe alabarde, tenendosi a rispettosa distanza dall’acqua onde non rischiare di caderci dentro, timorosi e prudenti, iniziarono a rimestare alla ricerca di una spiegazione o di una prova. Ciò che riuscirono a vedere furono alcuni grumi di fango grigiastro; altro lo immaginarono, ma erano solo ciottoli arrotondati dall’andirivieni delle onde levigatrici. Nessuno di loro si azzardò a toccare l’acqua fumante e presto si ritirarono per portare all’esterno le notizie e le impressioni che ne avevano tratto.
In superficie, intanto, il fuoco aveva preso il sopravvento, ne aggrediva tutti gli ambienti e ben presto si trasformò in un incendio indomabile. Da tutte le finestre fuoriuscivano fiamme che si disperdevano al vento tra crepitii e faville; poi fu la volta del tetto e la maestà dello spettacolo legittimò balli e canti di gioia perché si cancellava un luogo che col tempo, da simbolo di protezione, sicurtà e giustizia si era trasformato nell’odioso covo di un potere ottuso e scellerato.
Dopo l’euforia sopraggiunse il timore.
Sempre di fronte al vuoto di potere le collettività si sentono impotenti, indifese, in balia degli eventi e di pericoli o danni maggiori di quelli dai quali ci si è liberati.
Quale sarebbe stato il loro futuro? E quello di Leuternia?
Chi avrebbe sostituito il conte?
Rivoli di persone dal castello cominciarono a defluire verso il palazzo del capitano, altri richiamati dai rintocchi a festa delle campane delle chiese si diressero verso quei luoghi di culto. Cercavano un’autorità a cui aggrapparsi per vincere il senso di vuoto che iniziava a serpeggiare, che sarebbe diventato angoscia e paura se non avesse trovato una qualche risposta.
Sul momento non ne trovarono.
La sede della capitanìa era vuota come il castello; i cittadini delusi non sfogarono la delusione con la distruzione e il fuoco, li aveva appagati l’assalto al castello, ora cercavano altro, guardavano avanti. Non ne trovarono neanche i gruppi confluiti nelle chiese. I chierici erano smarriti come i loro fedeli, invitavano ad aver fiducia nei disegni del Signore e nella preghiera: raccomandazioni insufficienti a quietarne gli spiriti inquieti, che ad ogni buon conto, non sapendo che altro fare, né dove andare, qualche Paternoster e qualche Avemaria li biascicarono con compunzione e fiducia.
Per fortuna della città e della contea qualcuno non si era abbandonato all’euforia del momento. Alcuni notabili, tra i quali lo speziale Medardo Greco, avuta notizia della fuga del conte e del capitano, si preoccuparono e cercarono, nei limiti delle loro capacità e competenze, di assicurare una guida provvisoria alla città. Di sicuro non erano preparati alla bisogna, tuttavia era una situazione a lungo evocata e attesa, sulla quale avevano più volte discettato e ipotizzato. Ora che il momento si era inaspettatamente presentato, dovevano mostrarsi all’altezza della situazione e assumere su di sé il compito della transizione.
Prima di mettersi in strada, Medardo aveva inviato alcuni servi e altri uomini fidati a rintracciare i membri più influenti dell’Assemblea dei capifamiglia, convocandoli a una riunione informale nel convento dei frati allo scoccare dell’ora mediana tra la prima e la terza. A sua moglie che gli raccomandava di restare in casa, disse:
«Oggi, Elvira, è una giornata storica: a nessuno è dato di sottrarsi alle proprie responsabilità di cittadino. Da quello che riusciremo a fare nel breve periodo d’interregno tra il vecchio assetto che muore e il nuovo che deve ancora nascere, dipenderanno i destini di Leuternia».
La donna non rispose. Era contrariata e orgogliosa al contempo, ma aveva paura per i pericoli che potevano annidarsi in ogni cantone.
Medardo uscì e come tutti si diresse verso la piazza sottostante il castello, dove si recava ogni giorno per raggiungere la spezieria. Qui incontrò il mercante Petrachi ed altri, ai quali confidò le sue preoccupazioni:
«È arrivata l’occasione che aspettavamo. Ora sta a noi dare un futuro a questa città», disse con gravità.
Il suo pensiero era andato alle numerose vittime della rivolta, ai fuoriusciti; soprattutto pensò intensamente a Damiano Polifemo e al notaro Rizzo, gli amici più cari con i quali aveva condiviso la speranza del cambiamento. La sparizione di Damiano nelle segrete del castello lo aveva gettato in un lancinante, penoso stato di afflizione, aumentato vieppiù quando Giovanni Rizzo era stato costretto all’esilio. Aveva sentito su di sé il peso di quelle assenze ed aveva giurato di non aver pace fino a quando non fosse stato realizzato il sogno comune. Adesso Giovanni sarebbe potuto tornare al suo posto: “Gli scriverò una missiva per informarlo”, pensò tra sé e sé. Per Damiano non poteva esserci alcun ritorno, ma l’amico già ipotizzava un pubblico omaggio formale, qualcosa di concreto: una tomba nella chiesa matrice, o una lapide: “La sua memoria sarà onorata e tramandata ai posteri come un fulgido esempio di civico ardore”, si diceva, mentre il ricordo provocava commozione e rabbia ad un tempo.
Accompagnato da questi pensieri e dagli amici incontrati per strada, Medardo si era ritrovato immerso nel flusso della folla in marcia dal porto al castello e da lì verso altre mete, indaffarata, eccitata; incredula soprattutto. Quando ravvisò che tra le mura del castello stesse accadendo qualcosa d’impensabile, inviò due giovani del gruppo che lo seguiva a sincerarsi di quel trambusto. Intanto s’informava, le opinioni correvano, si scontravano e si contraddicevano. La confusione regnava sovrana e insieme all’incertezza del momento si paventavano rovine e disordini che non avrebbero portato nulla di buono per nessuno. Si sentivano grida isolate che sollecitavano la caccia ai sostenitori del conte, che per conto loro, se non erano partiti anch’essi di buon’ora, se ne stavano rintanati in casa e barricati, per quanto potessero.
Medardo intuì i rischi e le conseguenze di quegli atti di rappresaglia, e senza indugio, rivolto al mercante Petrachi, disse: «È necessario fermare i facinorosi. La sete di vendetta contrasta con il desiderio di giustizia e noi fino a tale approdo dobbiamo guidare la città e la contea».
Medardo aveva idee chiare e buoni propositi, ma non era certo di riuscire ad attuarli. Temeva che le urla scriteriate dei facinorosi prendessero il sopravvento sul cauto ragionamento e pregiudicassero gli esiti di una transizione pacifica verso l’attuazione dell’autogoverno cittadino.
All’ora stabilita i membri del Parlamento si ritrovarono nel luogo convenuto.
La discussione, vivace e preoccupata, produsse due risoluzioni finalizzate a normalizzare la situazione: una lettera con la notizia della fuga del conte e la conseguente assunzione del potere nelle mani del Parlamento cittadino fu inviata alle assemblee di tutte le altre città della contea, con la raccomandazione di fare altrettanto e di inviare nel capoluogo un rappresentante in modo da coordinare e reggere l’amministrazione dei territori fino a quando non fossero state assunte decisioni definitive da parte del Re; un proclama da leggere al popolo e affiggere sulle porte delle chiese per rendere noto al popolo tutto che i suoi rappresentanti eletti nel Parlamento avevano sostituito il conte ed esercitavano, nel supremo interesse della collettività, il potere rimasto vacante.
Mentre i maggiorenti riuniti si prodigavano in quel virtuoso tentativo di scongiurare il caos e riportare la situazione sotto controllo, giunse la deprecata notizia dell’incendio del castello.
L’allarme fu elevato: tanto che l’intero consesso, recuperati in fretta e furia gli emblemi, per lungo tempo abbandonati e disconosciuti, della potestà parlamentare, decise di uscire in processione per le strade cittadine in modo da comprovare tangibilmente l’esistenza di un centro di potere nuovo ed espressione della sovranità popolare. Contemporaneamente fu dato l’ordine di contenere, per quanto fosse ancora possibile farlo, l’incendio del castello e di recuperare tutti i documenti che ancora non fossero stati dati alle fiamme.
L’improvvisata sfilata attirò l’attenzione di quanti la incrociavano, i quali, riconoscendone i membri, si fermavano a chiedere informazioni e consiglio. Il cammino fu lento, le fermate molte. A ogni fermata s’improvvisava un comizio, il corteo s’ingrossava mentre le ripetute informazioni passavano di bocca in bocca diffondendosi in tutta la città.
Si rivelò tanto opportuna ed efficace quell’estemporanea iniziativa che allo scoccare dell’ora nona l’intera città aveva ripreso il suo ordine abituale, o quasi. Gruppi di persone stazionavano e discutevano nei luoghi di abituale ritrovo, come era normale in quella situazione imprevista, mentre ogni velleità inutilmente vendicativa era stata scongiurata e positivamente incanalata negli opportuni alvei della legalità. Per tutelare l’ordine pubblico e le persone fu organizzata una milizia popolare, la cui presenza contribuì a tranquillizzare i cittadini e a convincerli a ritornare, scevri da inutili preoccupazioni, alle occupazioni consuete.
Per il castello non ci fu niente da fare. Le fiamme vinsero i fiacchi tentativi di domarle, fino a ridurlo a un cumulo di macerie annerite ed irrecuperabili. Furono in pochi a rammaricarsene e la sua distruzione fu considerato l’emblema della riconquistata libertà.
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