Il capitolo ventiduesimo introduce il quinto e ultimo libro della "Cronica". Cisario Polifemo vi narra le vicende personali e famigliari precedenti il suo ritorno a Leuternia, trent'anni dopo la morte del padre Damiano; ci aggiorna, infine, sui risvolti che agitarono la contea e la famiglia comitale dopo la morte dei fratelli Giganti e la sconfitta della rivolta popolare.
San Giorgio e il drago, dipinto del veneziano Vittore Carpaccio (1465–1525/1526). Venezia, Scuola di S. Giorgio degli Schiavoni.
Dopu ca hia vistu tuttu e hia ‘ntisu tutti li testimoni, u justizzieri scrisse nnu ‘ncartamentu e
lu mannau allu re de Napuli cu la ‘ntizzione de ‘ncuminciare nnu prucessu
criminale contru lu conte Patrunu e li fiji soi. La decisione ca poi pijau lu
re fose lu primu passu pe’ decidìre la sorte de lu conte ca la ribbellione de
l’habbitanti de Leuternia nunn’hia rrisuluta.
Feci ritorno a Leuternia trent’anni
dopo. Ero già un uomo fatto, all’epoca, esperto della vita e del mondo, educato
dagli insegnamenti di una madre affettuosa che non aveva lesinato premure e
impegno per elevarmi agli ideali di mio padre.
Mio padre Damiano, del
quale non abbiamo conosciuto la sorte fino a quando mi assunsi l’impegno di
redigere questa Cronica. Che è un omaggio a lui e alle altre vittime immolatesi
con lui sull’altare della giustizia e della libertà, e anche un monito e
un’esortazione per i cittadini di Leuternia: un monito perché non dimentichino
che la libertà e la giustizia sono diritti inalienabili dei popoli, non graziose
concessioni dei sovrani; un’esortazione a mantenerne alta la bandiera perché
quei diritti vanno difesi, tutelati ogni giorno dalle aggressioni dei potenti
di ogni risma, bramosi di tenere il popolo in catene, di umiliarlo per meglio
realizzare i propri indicibili fini.
Il buon Cisario l’aveva scritta nella lingua
popolare di Leuternia, ostica a chi non la conosce e dura, ma meravigliosamente
ricca ed espressiva per i parlanti che ne assorbono il lessico col latte
materno e ne conoscono le più intime sfumature. Avrebbe potuto scriverla nel
greco di Bisanzio che in Leuternia era ancora la lingua colta dei chierici e
degli eruditi, o nella lingua del poeta Quinto Ennio, il padre della
letteratura latina, nativo di Rudiae in questa nostra terra japigia; aveva
scelto la lingua del popolo perché desiderava che dal popolo tutto fosse ascoltata
e compresa. A ben vedere fu una scelta azzeccata e non è azzardato ritenere –
così ci piace pensare, anche se non ne abbiamo le prove – che nei decenni successivi
alla sua pubblicazione, quando ancora era vivo il ricordo di quella tragedia, gli
anziani la narrarono ai giovani intorno al focolare nelle sere d’inverno,
mentre nella bella stagione i cantastorie la rappresentarono nelle piazze dei
paesi con l’ausilio di fondali dipinti che ne rendevano visivamente la
drammaticità.
Poi il tempo l’obliò, come accade a tutte le
cose terrene, e se ne perse la memoria. Fino ad oggi quando il caso ne riportò
alla luce l’incompleto manoscritto nascosto sotto cumuli di polvere e di altri scartafacci.
Non so, non si può prevederlo, se questa
traduzione traslata nel tempo avrà una qualche risonanza nel cuore e nella
mente dei contemporanei. So però con certezza che l’esortazione di Cisario ai
suoi concittadini sulla libertà, la giustizia e i diritti inalienabili dei
popoli è ancora attuale, tratta questioni che coinvolgono il vissuto dei
contemporanei, titolari dei diritti che le Carte costituzionali riconoscono e
tutelano, ma che di fatto e sempre più di frequente sono disconosciuti ed erosi
dall’azione silenziosa subdola e anonima di interessi particolari sbandierati
come esigenze inconfutabile e imprescindibili della crescita economica che
assicura (??) il benessere collettivo (??). Una menzogna insopportabile che va
smascherata. Ma questo è un tema che richiede di essere trattato a parte ed a
fondo, non di passaggio come in questo intermezzo, e allora ritorno volentieri
alla traduzione del testo di Cisario che ci racconta delle vicende che lo
portarono a intraprendere la stesura della “Cronica”.
Diventai uomo anzitempo,
responsabilizzato dall’essere l’unico maschio della famiglia, il braccio che
avrebbe dovuto proteggere mia madre e le mie sorelle dalle insidie del mondo.
Così, almeno, pensavo a
quel tempo, negli anni precedenti la mia pubertà.
Avevo appena dieci anni
quando il peso della tragedia che aveva sconvolto le nostre vite si palesò
nella concretezza dell’esilio: un cambiamento che non modificò soltanto i
panorami ai quali ero abituato, le abitudini e le amicizie, scavò nel profondo
della mia coscienza con domande alle quali non sapevo rispondere, alle quali
nessuno rispondeva. Tutti quelli a cui rivolgevo le mie ingenue richieste le
eludevano per rimandarle all’incerto futuro della mia maturità.
Mi fu detto con chiarezza
solo che mio padre era morto e che il responsabile della sua morte era il conte
cattivo oppressore di Leuternia. La vicenda mi veniva raccontata come una
specie di favola in cui i buoni capeggiati da Damiano avevano combattuto contro
il drago che terrorizzava la città per affrancarla dalla paura e restituire ai
cittadini la libertà e la speranza in un futuro migliore. Il drago
simboleggiava il potere assoluto e irrazionale del conte, mentre Damiano,
novello san Giorgio, veniva dipinto come il cavaliere intrepido e vittorioso
che aveva sconfitto il drago immolandosi per il bene della collettività.
L’iconografia di San
Giorgio mi era familiare e la comprendevo, l’avevo vista più e più volte nella
chiesa della mia città e in altre chiese; ciò che mi lasciava perplesso era
l’esito dello scontro. Nell’agiografia del santo guerriero era questi a
sconfiggere il drago mentre il mio impavido padre aveva ceduto alla forza
maligna del mostro e ciononostante gli veniva tributata la palma della vittoria.
Questo lo compresi più tardi, quando ero già uscito dalla pueritia e mi addentravo nell’adolescentia.
Ma per tutti quegli anni, quasi un decennio, m’interrogai dubbioso ed esitante.
Mi aiutò a comprendere la nobiltà dell’opera di Damiano e il suo esito
vittorioso il mio maestro di filosofia. Queste furono le sue parole, rimaste
scolpite nella mia mente come su una lastra di marmo:
«San Giorgio è morto per
mano delle forze contro cui aveva combattuto, ma il vigore della sua
testimonianza e della sua azione ha contribuito ad affermare i valori della
vera fede, confermata anche di fronte al sacrificio della vita. Così è stato
anche per Damiano, la cui testimonianza e il cui sacrificio hanno contribuito
in modo determinante alla caduta del conte», che al tempo della mia
illuminazione era già avvenuta.
Nonostante il sentirmi
adulto non potevo essere io il protettore di mia madre e delle mie sorelle.
A proteggere tutta la
famiglia, me compreso, provvide prima il fratello di mia madre che ci ospitò
nella sua abitazione e in seguito ci accasò in un quartiere indipendente
assegnandoci una piccola rendita che, unita alle disponibilità assicurateci
dalla previdenza di Damiano, contribuì a garantirci un’esistenza tranquilla e
dignitosa. Successivamente, nonostante le sue resistenze, convinse mia madre a
congiungersi in seconde nozze con un agiato mercante, rimasto precocemente vedovo,
che aveva conosciuto la nostra famiglia e apprezzato le qualità muliebri di mia
madre.
Non finirò mai di
ringraziare il mio patrigno (e con lui anche mio zio) per le opportunità che la
sua generosità e il suo affetto ci garantì, soprattutto a me e alle mie
sorelle. Ad esse destinando ricche doti che consentirono loro buoni matrimoni,
a me con l’assecondare la mia predisposizione allo studio, affidandomi prima a
precettori di valore e poi consentendomi di seguire i corsi universitari nei
migliori atenei italiani e stranieri.
A mia madre egli portò
sempre un grande rispetto e la onorò di un affetto sincero e duraturo riconoscendone
le doti di umiltà, di saggezza e di sapienza nella gestione della casa e della
servitù.
Per sei anni girovagai per
le università italiane e mi spinsi persino a Parigi dove conobbi il rampollo di
una nobile famiglia napoletana. Iniziò grazie a questa amicizia la mia vita
adulta come segretario del principe di Salerno che m’introdusse nei pericolosi e
ambigui meandri delle relazioni politiche e diplomatiche di quel tempo incerto,
oppresso dalle contese dinastiche per la corona regale e le rivendicazioni di
autonomia dei grandi feudatari che ne insidiavano il potere.
Durò circa quindici anni
quel mio apprendistato, fino a quando fui da mia madre richiesto di tornare con
urgenza in Apulia per ricevere le ultime volontà del mio patrigno, arrivato
oramai all’ultimo miglio della sua esistenza terrena.
Lasciai il servizio alla
corte del principe. Lo feci non senza qualche intima resistenza, pur nella
consapevolezza di non potermi esimere dall’assecondare il desiderio del mio
secondo padre e l’auspicio di mia madre.
Sapevo che sarebbe stato un
viaggio senza ritorno, una prospettiva fino ad allora non ipotizzata che
interrompeva un’utile esperienza nel divenire della storia e dei destini di
questa nostra martoriata Italia, pastura di appetiti stranieri incuranti delle
sue sorti e del benessere del suo popolo.
Raggiunsi la mia famiglia
appena in tempo per rivedere il mio patrigno, il cui stato non lasciava
speranze. Quasi non lo riconoscevo tanto era provato e smagrito: gli occhi
infossati, opachi, la pelle grigia e vizza, la parola ridotta a un soffio
appena percettibile, le mani congiunte sul petto quasi a contenere i battiti
del cuore che gli squassavano il torace. La mia presenza sembrò rianimarlo. Mi
riconobbe. Io gli presi le mani e pronunciai parole di speranza,
incoraggiandolo alla resistenza contro il male che lo affliggeva.
«Il mio tempo è finito,
figlio mio», disse.
Avrei voluto consolarlo,
dirgli ancora qualche parola di conforto; fui bloccato da un nodo alla gola che
m’impedì di parlare. Cosa avrei potuto dire? Sapevamo ambedue che sarebbe stato
un’inutile espressione compassionevole. Meglio il silenzio, la partecipazione
emotiva spontanea e sincera.
Egli aveva pronunciato
quelle parole a fatica, una sofferenza indicibile sembrava vincerlo. Chiuse gli
occhi, radunò le flebili forze residue per continuare:
«Ti affido tua madre [ansito, silenzio]. Assistila e proteggila
e abbi cura di te [di nuovo silenzio,
respirazione affaticata, flebile] coltivando il ricordo del tuo vero padre
[sguardo spento, rigidità, lento cenno
della mano ad avvicinarmi ulteriormente]. Io ho cercato di sostituirlo come
meglio potevo [silenzio, spossatezza],
spero di meritare le tue preghiere e il tuo ricordo affettuoso».
Non disse altro.
Un’espressione di appagamento sembrò rasserenargli il viso e, chiusi gli occhi,
predispose il suo nobile animo all’ultimo, inevitabile passo.
Morì di lì a qualche giorno
e mi lasciò erede di una discreta fortuna che mi avrebbe garantito una sicura
agiatezza. In eredità mi lasciò anche l’impegno morale di coltivare il ricordo
di Damiano.
Ci pensai a lungo e quel
lascito non finì mai di meravigliarmi.
Non riuscivo a trovare un
nesso tra la triste vicenda di mio padre, conclusa da una morte misteriosa ben
presto elevata dalla credenza popolare alla soglia del mito, e la vita di
quell’uomo vissuto lontano da Leuternia. La devozione di mia madre aveva contribuito
a tenerne viva la memoria, questo è certo, ma non poteva dipendere solo da quel
legame indiretto. Ci doveva essere qualche altra vicenda a legare le due
esistenze!
Ma cosa? E dove cercare?
Forse tenendo fede all’esortazione pronunciata sul letto di morte dal mio
patrigno e benefattore – «coltiva il ricordo di tuo padre» – avrei potuto individuare il nesso mancante?
Un’altra inevitabile
domanda seguiva la precedente: Come avrei potuto onorare la memoria di Damiano?
Era evidente, così almeno
mi pareva, che non si trattasse di mantenerne vivo il ricordo privato. Quel
ruolo lo aveva svolto egregiamente mia madre. Ero stato gravato di un ruolo più
impegnativo e più nobile: coltivare il ricordo pubblico degli accadimenti
connessi alla morte di Damiano, per salvarli dall’oblio a cui sono destinate
tutte le vicende minori che la Storia trascura.
La forza di questa
convinzione mi costrinse ad agire e così prese corpo l’idea della ricerca che
mi riportò a Leuternia.
Erano
passati circa trent’anni dal giorno in cui la mia famiglia era stata bandita
dalla contea di Leuternia. Sotto i ponti della Storia era passata molta acqua,
e anche in quei territori periferici si erano verificati eventi di rilievo.
Dell’avvelenamento
dei fratelli Giganti e della loro gente ho già detto; ora è necessario dire di
quel che accadde dopo.
Il
dopo fu introdotto dalle iniziative dell’Egumeno di Casole e del duca di Andria,
fratello di Lucina, nei confronti del quale Teo Patruno, per via delle note
vicende, aveva assunto atteggiamenti ostili.
Incontrai dapprima il
segretario dell’Abate casoliano, all’epoca dei fatti giovane ed energico frate
fresco di studi, ora influente monaco dell’Abbazia nella quale era sempre
rimasto. Egli aveva ancora vivido il ricordo di quella missione e ricordava con
precisione, avendone redatto un dettagliato resoconto conservato negli archivi
dell’abbazia, i passaggi e le implicazioni.
«Ricordo – disse all’inizio
dell’incontro – che all’Egumeno erano pervenute sollecitazioni da parte di
diverse persone, soprattutto dal notaro Giovanni Rizzo, uno dei capi della
rivolta contro il duca, amico dell’Abbazia e intimo di vostro padre. L’Egumeno
aveva in grande considerazione anche Damiano ed era rimasto molto addolorato
dalla sua atroce morte».
Pronunciata quest’ultima
frase su mio padre, il monaco fece il segno della croce e congiunte le mani
chinò la testa in segno di raccoglimento. I suoi gesti mi colpirono al cuore,
come se il turbamento fosse legato a conoscenze raccapriccianti che ancora mi
fossero ignote.
Gli chiesi se, a sua
conoscenza, le cause e le modalità della morte di Damiano fossero diverse da
quelle emerse fino ad allora. Rispose evasivamente:
«Niente di diverso. Se è
stato il mio turbamento a dettarvi la domanda, ritenetelo un omaggio alla
memoria di un uomo giusto, morto senza colpe».
Quel riconoscimento mi
commosse, ma non cancellò la convinzione che il monaco ne sapesse di più.
Ad attivare la diplomazia
dell’Egumeno non erano state solo le sollecitazioni esterne; c’era un esplicito
motivo d’interesse dell’Abbazia nel caldeggiare la destituzione e
l’allontanamento del conte, e non era un motivo morale, o almeno non
esclusivamente: l’Abbazia avrebbe ottenuto il riconoscimento del suo diritto,
fino ad allora disconosciuto dal conte, su alcuni casali della contea; forse i
monaci potevano addirittura sperare nell’assegnazione all’Abbazia dell’intera
contea, unificandone la gestione sotto la medesima amministrazione.
Il frate su
quest’aspettativa era stato reticente, mi riferì che a convincere l’Abate sarebbe
stata l’indignazione per i gravi peccati del conte, i suoi efferati crimini
contro gli uomini e contro la giustizia. Furono questi motivi, confermò, a indurre
il Papa a far pressioni sul Re napoletano; anche se, ho ragione di ritenere,
gli argomenti realmente addotti non corrispondevano a quelli da lui elencati e a
lui cari.
Parlai successivamente con
il duca di Andria.
Come il lettore ricorderà, dopo
la fuga da Leuternia seguita al coinvolgimento di Ignazio, suo figlio naturale,
nella sommossa popolare contro il conte Patruno, suo marito, Lucina era
ritornata alla corte di Andria. Qui, dopo la morte di Ignazio, il suo cuore
colmo di risentimento e di un materno impulso di vendetta, la spinse a
sollecitare l’intervento del duca suo fratello nella contesa, per tutelare i
propri diritti e punire il marito omicida. Il duca, impegnato in altre contese,
non ne assecondò le aspettative, ma fu ben disposto, dopo l’eliminazione dei Giganti,
a perorarne la causa presso la corte reale denunciando i crimini del cognato.
«Lucina – mi confidò il
duca – alla corte di Leuternia aveva dei buoni e fedeli informatori, i quali
l’avevano dettagliatamente informata delle mosse e della condotta del marito.
Ciò le aveva fornito elementi formidabili per accusarlo, e li avrebbe usati
senza remore per soddisfare la sua sete di vendetta».
Di fronte ai suddetti intendimenti,
un dubbio mi sorse spontaneo: non temeva, la contessa, che le accuse nei
confronti del marito avrebbero coinvolto anche il figlio Cocidio?
Rivolsi la domanda al duca,
il quale mi palesò l’errore di cui la sorella era stata vittima
inconsapevole.
«Al contrario – disse – la
contessa sperava che la condanna del marito, oltre a liberarla da un legame mal
sopportato fin dai primi anni di matrimonio, avrebbe fatto succedere il figlio
Cocidio al soglio comitale».
Io pensavo con il senno di
poi, alla luce di ricostruzioni postume; Lucina forse non conosceva la dinamica
reale dei fatti, e se la conosceva aveva cercato di occultarla per
salvaguardare Cocidio, il quale, nonostante tutto, era pur sempre suo figlio.
Le aspettative della
contessa, alla prova dei fatti, furono del tutto disattese ed ella ne fu tanto
scossa da non resistere a lungo al dolore e al rimorso: che l’annientarono.
La convergente pressione
del Papa e del Duca, influenti alleati del Re, produsse gli effetti sperati. In
gran segreto fu incaricato delle indagini il Giustiziere della Provincia di
Terra d’Otranto, al quale fu raccomandata assoluta discrezione e rapidità
d’azione.
Onde evitare sospetti, il
real funzionario raggiunse la contea di Leuternia per l’annuale, prevista
perlustrazione del territorio e nell’occasione, in un colloquio informale,
comunicò al conte l’incarico ricevuto.
«Al Sovrano sono pervenute
lettere di denuncia che vi accusano di crimini indeterminati. Siamo costretti a
procedere con le indagini del caso, che non approderanno a niente, ne siamo
sicuri», aveva detto il funzionario, suscitando nell’incredulo conte un allarme
a mala pena represso.
Pur nello stato di
apprensione causato dall’inattesa informazione, il conte, recuperata la
consueta impassibilità, rispose: «Ho dovuto fronteggiare sommosse popolari e
pretese dinastiche infondate; e in questi casi capita che qualcuno soccomba»,
non negando i morti né le violenze, e dichiarando la completa disponibilità ad
agevolare il compito del giustiziere.
In realtà non era per
niente tranquillo né disposto a collaborare, e per fronteggiare l’imprevista
evenienza approntò le opportune contromisure. Che poi erano nient’altro che la
chiamata di correità per tutti gli uomini (e le donne) implicati nella vicenda,
figli compresi, imponendo il silenzio e la negazione dei misfatti loro
eventualmente contestati.
Il Giustiziere svolse il
suo incarico con discrezione e rapidità. Conclusa una prima fase di
ricognizione dei fatti, ordinò ai suoi armigeri l’arresto per reticenza di
alcuni servi del conte e di altri cittadini e la loro immediata traduzione
nella sede del giustizierato. La qualcosa, per la subitaneità dell’esecuzione,
disorientò il conte, che non fu in grado di opporre alcuna obiezione o
resistenza.
Che fare? Teo Patruno,
indispettito dall’evoluzione dell’indagine, tergiversò nell’incertezza. Voleva
dimostrarsi calmo e consapevole, eppure l’agitava un timore incontrollato che
ne paralizzava l’azione. Sofia cercava di tranquillizzarlo; Cocidio, al
contrario, lo assillava con i suoi turbamenti e la paura che la verità venisse
scoperta.
Sofia era l’unica a non
perdersi d’animo. Ragionando sull’elenco dei soggetti arrestati, avanzò la
convinzione che il giustiziere non avesse scoperto alcunché, e che, di
conseguenza, tutto doveva continuare come se niente fosse.
«D’altronde, il giustiziere
lo ha premesso: “Le indagini non approderanno a niente”. Vedrete è tutta una
messinscena per accontentare i traditori che tentano di screditarvi dinnanzi al
Re».
Così andava dicendo Sofia, rivolta
al padre, e non era lontana dal vero, stando alle apparenze.
Il Giustiziere, infatti,
era stato cauto e previdente. Aveva arrestato per reticenza soggetti che
davvero non erano al corrente della verità, che conoscevano soltanto fatti
marginali e ininfluenti, di dominio comune si direbbe, ed aveva lasciato in
libertà quelli (pochi, tre o quattro) che cose da raccontare ne avevano avute e
le avevano raccontate, seppure a modo loro e minimizzando le proprie
responsabilità. Ad essi fu imposto di ritornare alle consuete occupazioni e di
mantenere il più assoluto riserbo.
Gli arrestati dopo qualche
tempo furono liberati, e liberi fecero ritorno a Leuternia con evidente
sollievo del conte, che sembrò riprendersi dal precedente stato di
inquietudine.
Egli, tuttavia, non aveva
ragione di rilassarsi nella convinzione del pericolo scampato.
Perché il Giustiziere
avesse agito con quella cautela non fu subito chiaro; si chiarì col passare del
tempo ed evidenziò l’acume indagatore del funzionario. Egli si comportava con
il conte come il gatto con il topo: gli aveva dato una zampata impietrendolo di
paura, poi lo aveva osservato con occhi indifferenti e attenti, pronto a
concludere il lavoro quando la preda, rassicurata dall’inerzia del predatore,
avesse cercato una via di scampo nella fuga. Con l’intuizione dell’uomo
navigato che conosce l’animo umano, aveva mirato a intaccare il prevedibile
muro di omertà innalzato dal conte. In che modo? Nel modo più diretto ed efficace:
offrendo una via d’uscita ai servi esecutori o coadiutori dei delitti, in
cambio della delazione: verità in cambio di un salvacondotto per espatriare,
più una somma di denaro per temperare il peso del tradimento. Un’alternativa allettante
e immorale, che metteva in gioco la fedeltà e la lealtà del servo verso il
signore: quell’identificarsi col signore nella buona e nella cattiva sorte,
quel rapporto che afferma la forza l’onore e l’orgoglio del servo che nel
riconoscimento del suo signore fonda la ragione della sua esistenza e del suo
stato. Una scelta obbligata, la cui alternativa era la condanna a morte che, se
salva l’onore e l’orgoglio, se testimonia lealtà e fedeltà, non salva la vita
né l’anima del servo, tantomeno quelle del suo signore, e comunque richiede una
forza d’animo non comune, che quei servi non possedevano.
Così
fu e se ne ricavò un incartamento sufficiente a intentare un processo criminale
nei confronti del conte e dei suoi figli. Le risultanze delle indagini furono
quindi inviate al Re, le cui decisioni costituirono i prodromi dell’agitato
seguito di quella travagliata vicenda.
Certo, nel nome della
funzione esercitata e dell’autorità che rappresentava, il giustiziere avrebbe
potuto procedere direttamente all’arresto di tutti i soggetti implicati,
compreso i membri della nobile famiglia; egli temeva, tuttavia, e non a torto,
che un tale comportamento avrebbe scatenato la reazione del conte che poteva
contare su un numero di armati ben più numeroso del risicato drappello di
guardie che lo accompagnavano nella missione. Meglio la cautela, allora, lasciare
che la situazione decantasse in attesa delle mosse successive del conte, che
certo non sarebbe rimasto inattivo, e delle necessarie valutazioni del Sovrano.
Il quale, letto e ponderato il caso, disgustato per l’abominevole e indecoroso
comportamento del conte descritto nelle carte rassegnate dal Giustiziere, convocò
a Corte l’imputato per esaminarlo egli stesso e, se del caso, farlo processare
da una corte criminale.
Nell’attesa che la
situazione evolvesse verso il suo naturale esito, il conte, con la consueta protervia,
aveva a sua volta esaminato tutti i testimoni escussi dal giustiziere, in
specie i servi più fidati, per conoscere le informazioni di cui il giudice
disponeva. Tutti confermarono quanto dovevano: chi, impaurito, riferì per filo
e per segno; chi, con naturalezza (i traditori), negò il vero e inventò risposte
ingannevoli. Solo uno di questi, intimorito dall’irruenza dell’interrogante, si
dimostrò incerto e contraddittorio, tanto da alimentare i sospetti del conte; che
non si fece scrupolo di esercitargli violenza per fiaccarne la resistenza e
costringerlo a rendere piena confessione.
L’ottenne, e aprì la strada
alla vendetta.
Si salvò solo il servo più
vicino al signore, senz’altro il più scaltro e il più ardito. Questi, sempre
sul chi vive dopo l’accordo col giustiziere, subodorato il crollo emotivo del
suo compare, senza por tempo in mezzo si eclissò, mettendosi sotto la
protezione del funzionario reale.
Quasi nello stesso torno di
tempo, il Re aveva inviato un messo a Leuternia per consegnare al conte un rescritto
con l’ordine di presentarsi senza indugio a Corte “per consultazioni inerenti al riscontrato disordine fiscale della
contea, al numero dei fuochi da tassare, all’elezione dei tassatori e dei
collettori delle imposte, causa di innumerevoli suppliche dei Parlamenti
cittadini”.
L’oggetto della
consultazione era e non era un sotterfugio ad hoc: aveva il pregio della
plausibilità, ma non trasse in inganno il precario signore di Leuternia.
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