lunedì 28 agosto 2023

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

 Il capitolo ventiduesimo introduce il quinto e ultimo libro della "Cronica". Cisario Polifemo vi narra le vicende personali e famigliari precedenti il suo ritorno a Leuternia, trent'anni dopo la morte del padre Damiano; ci aggiorna, infine, sui risvolti che agitarono la contea e la famiglia comitale dopo la morte dei fratelli Giganti e la sconfitta della rivolta popolare.

                             San Giorgio e il drago, dipinto del  veneziano Vittore Carpaccio (1465–1525/1526). Venezia, Scuola di S. Giorgio degli Schiavoni.

Capitolo ventiduesimo

 Dopu ca hia vistu tuttu e hia ‘ntisu tutti li testimoni, u justizzieri scrisse nnu ‘ncartamentu e lu mannau allu re de Napuli cu la ‘ntizzione de ‘ncuminciare nnu prucessu criminale contru lu conte Patrunu e li fiji soi. La decisione ca poi pijau lu re fose lu primu passu pe’ decidìre la sorte de lu conte ca la ribbellione de l’habbitanti de Leuternia nunn’hia rrisuluta. 

 Feci ritorno a Leuternia trent’anni dopo. Ero già un uomo fatto, all’epoca, esperto della vita e del mondo, educato dagli insegnamenti di una madre affettuosa che non aveva lesinato premure e impegno per elevarmi agli ideali di mio padre.

Mio padre Damiano, del quale non abbiamo conosciuto la sorte fino a quando mi assunsi l’impegno di redigere questa Cronica. Che è un omaggio a lui e alle altre vittime immolatesi con lui sull’altare della giustizia e della libertà, e anche un monito e un’esortazione per i cittadini di Leuternia: un monito perché non dimentichino che la libertà e la giustizia sono diritti inalienabili dei popoli, non graziose concessioni dei sovrani; un’esortazione a mantenerne alta la bandiera perché quei diritti vanno difesi, tutelati ogni giorno dalle aggressioni dei potenti di ogni risma, bramosi di tenere il popolo in catene, di umiliarlo per meglio realizzare i propri indicibili fini.

 Il buon Cisario l’aveva scritta nella lingua popolare di Leuternia, ostica a chi non la conosce e dura, ma meravigliosamente ricca ed espressiva per i parlanti che ne assorbono il lessico col latte materno e ne conoscono le più intime sfumature. Avrebbe potuto scriverla nel greco di Bisanzio che in Leuternia era ancora la lingua colta dei chierici e degli eruditi, o nella lingua del poeta Quinto Ennio, il padre della letteratura latina, nativo di Rudiae in questa nostra terra japigia; aveva scelto la lingua del popolo perché desiderava che dal popolo tutto fosse ascoltata e compresa. A ben vedere fu una scelta azzeccata e non è azzardato ritenere – così ci piace pensare, anche se non ne abbiamo le prove – che nei decenni successivi alla sua pubblicazione, quando ancora era vivo il ricordo di quella tragedia, gli anziani la narrarono ai giovani intorno al focolare nelle sere d’inverno, mentre nella bella stagione i cantastorie la rappresentarono nelle piazze dei paesi con l’ausilio di fondali dipinti che ne rendevano visivamente la drammaticità.

Poi il tempo l’obliò, come accade a tutte le cose terrene, e se ne perse la memoria. Fino ad oggi quando il caso ne riportò alla luce l’incompleto manoscritto nascosto sotto cumuli di polvere e di altri scartafacci.

Non so, non si può prevederlo, se questa traduzione traslata nel tempo avrà una qualche risonanza nel cuore e nella mente dei contemporanei. So però con certezza che l’esortazione di Cisario ai suoi concittadini sulla libertà, la giustizia e i diritti inalienabili dei popoli è ancora attuale, tratta questioni che coinvolgono il vissuto dei contemporanei, titolari dei diritti che le Carte costituzionali riconoscono e tutelano, ma che di fatto e sempre più di frequente sono disconosciuti ed erosi dall’azione silenziosa subdola e anonima di interessi particolari sbandierati come esigenze inconfutabile e imprescindibili della crescita economica che assicura (??) il benessere collettivo (??). Una menzogna insopportabile che va smascherata. Ma questo è un tema che richiede di essere trattato a parte ed a fondo, non di passaggio come in questo intermezzo, e allora ritorno volentieri alla traduzione del testo di Cisario che ci racconta delle vicende che lo portarono a intraprendere la stesura della “Cronica”. 

 Diventai uomo anzitempo, responsabilizzato dall’essere l’unico maschio della famiglia, il braccio che avrebbe dovuto proteggere mia madre e le mie sorelle dalle insidie del mondo.

Così, almeno, pensavo a quel tempo, negli anni precedenti la mia pubertà.

Avevo appena dieci anni quando il peso della tragedia che aveva sconvolto le nostre vite si palesò nella concretezza dell’esilio: un cambiamento che non modificò soltanto i panorami ai quali ero abituato, le abitudini e le amicizie, scavò nel profondo della mia coscienza con domande alle quali non sapevo rispondere, alle quali nessuno rispondeva. Tutti quelli a cui rivolgevo le mie ingenue richieste le eludevano per rimandarle all’incerto futuro della mia maturità.

Mi fu detto con chiarezza solo che mio padre era morto e che il responsabile della sua morte era il conte cattivo oppressore di Leuternia. La vicenda mi veniva raccontata come una specie di favola in cui i buoni capeggiati da Damiano avevano combattuto contro il drago che terrorizzava la città per affrancarla dalla paura e restituire ai cittadini la libertà e la speranza in un futuro migliore. Il drago simboleggiava il potere assoluto e irrazionale del conte, mentre Damiano, novello san Giorgio, veniva dipinto come il cavaliere intrepido e vittorioso che aveva sconfitto il drago immolandosi per il bene della collettività.

L’iconografia di San Giorgio mi era familiare e la comprendevo, l’avevo vista più e più volte nella chiesa della mia città e in altre chiese; ciò che mi lasciava perplesso era l’esito dello scontro. Nell’agiografia del santo guerriero era questi a sconfiggere il drago mentre il mio impavido padre aveva ceduto alla forza maligna del mostro e ciononostante gli veniva tributata la palma della vittoria. Questo lo compresi più tardi, quando ero già uscito dalla pueritia e mi addentravo nell’adolescentia. Ma per tutti quegli anni, quasi un decennio, m’interrogai dubbioso ed esitante. Mi aiutò a comprendere la nobiltà dell’opera di Damiano e il suo esito vittorioso il mio maestro di filosofia. Queste furono le sue parole, rimaste scolpite nella mia mente come su una lastra di marmo:

«San Giorgio è morto per mano delle forze contro cui aveva combattuto, ma il vigore della sua testimonianza e della sua azione ha contribuito ad affermare i valori della vera fede, confermata anche di fronte al sacrificio della vita. Così è stato anche per Damiano, la cui testimonianza e il cui sacrificio hanno contribuito in modo determinante alla caduta del conte», che al tempo della mia illuminazione era già avvenuta.

Nonostante il sentirmi adulto non potevo essere io il protettore di mia madre e delle mie sorelle.

A proteggere tutta la famiglia, me compreso, provvide prima il fratello di mia madre che ci ospitò nella sua abitazione e in seguito ci accasò in un quartiere indipendente assegnandoci una piccola rendita che, unita alle disponibilità assicurateci dalla previdenza di Damiano, contribuì a garantirci un’esistenza tranquilla e dignitosa. Successivamente, nonostante le sue resistenze, convinse mia madre a congiungersi in seconde nozze con un agiato mercante, rimasto precocemente vedovo, che aveva conosciuto la nostra famiglia e apprezzato le qualità muliebri di mia madre.

Non finirò mai di ringraziare il mio patrigno (e con lui anche mio zio) per le opportunità che la sua generosità e il suo affetto ci garantì, soprattutto a me e alle mie sorelle. Ad esse destinando ricche doti che consentirono loro buoni matrimoni, a me con l’assecondare la mia predisposizione allo studio, affidandomi prima a precettori di valore e poi consentendomi di seguire i corsi universitari nei migliori atenei italiani e stranieri.

A mia madre egli portò sempre un grande rispetto e la onorò di un affetto sincero e duraturo riconoscendone le doti di umiltà, di saggezza e di sapienza nella gestione della casa e della servitù.

Per sei anni girovagai per le università italiane e mi spinsi persino a Parigi dove conobbi il rampollo di una nobile famiglia napoletana. Iniziò grazie a questa amicizia la mia vita adulta come segretario del principe di Salerno che m’introdusse nei pericolosi e ambigui meandri delle relazioni politiche e diplomatiche di quel tempo incerto, oppresso dalle contese dinastiche per la corona regale e le rivendicazioni di autonomia dei grandi feudatari che ne insidiavano il potere.

Durò circa quindici anni quel mio apprendistato, fino a quando fui da mia madre richiesto di tornare con urgenza in Apulia per ricevere le ultime volontà del mio patrigno, arrivato oramai all’ultimo miglio della sua esistenza terrena.

Lasciai il servizio alla corte del principe. Lo feci non senza qualche intima resistenza, pur nella consapevolezza di non potermi esimere dall’assecondare il desiderio del mio secondo padre e l’auspicio di mia madre.

Sapevo che sarebbe stato un viaggio senza ritorno, una prospettiva fino ad allora non ipotizzata che interrompeva un’utile esperienza nel divenire della storia e dei destini di questa nostra martoriata Italia, pastura di appetiti stranieri incuranti delle sue sorti e del benessere del suo popolo.

Raggiunsi la mia famiglia appena in tempo per rivedere il mio patrigno, il cui stato non lasciava speranze. Quasi non lo riconoscevo tanto era provato e smagrito: gli occhi infossati, opachi, la pelle grigia e vizza, la parola ridotta a un soffio appena percettibile, le mani congiunte sul petto quasi a contenere i battiti del cuore che gli squassavano il torace. La mia presenza sembrò rianimarlo. Mi riconobbe. Io gli presi le mani e pronunciai parole di speranza, incoraggiandolo alla resistenza contro il male che lo affliggeva.

«Il mio tempo è finito, figlio mio», disse.

Avrei voluto consolarlo, dirgli ancora qualche parola di conforto; fui bloccato da un nodo alla gola che m’impedì di parlare. Cosa avrei potuto dire? Sapevamo ambedue che sarebbe stato un’inutile espressione compassionevole. Meglio il silenzio, la partecipazione emotiva spontanea e sincera.

Egli aveva pronunciato quelle parole a fatica, una sofferenza indicibile sembrava vincerlo. Chiuse gli occhi, radunò le flebili forze residue per continuare:

«Ti affido tua madre [ansito, silenzio]. Assistila e proteggila e abbi cura di te [di nuovo silenzio, respirazione affaticata, flebile] coltivando il ricordo del tuo vero padre [sguardo spento, rigidità, lento cenno della mano ad avvicinarmi ulteriormente]. Io ho cercato di sostituirlo come meglio potevo [silenzio, spossatezza], spero di meritare le tue preghiere e il tuo ricordo affettuoso».

Non disse altro. Un’espressione di appagamento sembrò rasserenargli il viso e, chiusi gli occhi, predispose il suo nobile animo all’ultimo, inevitabile passo.

Morì di lì a qualche giorno e mi lasciò erede di una discreta fortuna che mi avrebbe garantito una sicura agiatezza. In eredità mi lasciò anche l’impegno morale di coltivare il ricordo di Damiano.

Ci pensai a lungo e quel lascito non finì mai di meravigliarmi.

Non riuscivo a trovare un nesso tra la triste vicenda di mio padre, conclusa da una morte misteriosa ben presto elevata dalla credenza popolare alla soglia del mito, e la vita di quell’uomo vissuto lontano da Leuternia. La devozione di mia madre aveva contribuito a tenerne viva la memoria, questo è certo, ma non poteva dipendere solo da quel legame indiretto. Ci doveva essere qualche altra vicenda a legare le due esistenze!

Ma cosa? E dove cercare? Forse tenendo fede all’esortazione pronunciata sul letto di morte dal mio patrigno e benefattore – «coltiva il ricordo di tuo padre» –  avrei potuto individuare il nesso mancante?

Un’altra inevitabile domanda seguiva la precedente: Come avrei potuto onorare la memoria di Damiano?

Era evidente, così almeno mi pareva, che non si trattasse di mantenerne vivo il ricordo privato. Quel ruolo lo aveva svolto egregiamente mia madre. Ero stato gravato di un ruolo più impegnativo e più nobile: coltivare il ricordo pubblico degli accadimenti connessi alla morte di Damiano, per salvarli dall’oblio a cui sono destinate tutte le vicende minori che la Storia trascura.

La forza di questa convinzione mi costrinse ad agire e così prese corpo l’idea della ricerca che mi riportò a Leuternia.

 Erano passati circa trent’anni dal giorno in cui la mia famiglia era stata bandita dalla contea di Leuternia. Sotto i ponti della Storia era passata molta acqua, e anche in quei territori periferici si erano verificati eventi di rilievo.

Dell’avvelenamento dei fratelli Giganti e della loro gente ho già detto; ora è necessario dire di quel che accadde dopo.

Il dopo fu introdotto dalle iniziative dell’Egumeno di Casole e del duca di Andria, fratello di Lucina, nei confronti del quale Teo Patruno, per via delle note vicende, aveva assunto atteggiamenti ostili.

Incontrai dapprima il segretario dell’Abate casoliano, all’epoca dei fatti giovane ed energico frate fresco di studi, ora influente monaco dell’Abbazia nella quale era sempre rimasto. Egli aveva ancora vivido il ricordo di quella missione e ricordava con precisione, avendone redatto un dettagliato resoconto conservato negli archivi dell’abbazia, i passaggi e le implicazioni.

«Ricordo – disse all’inizio dell’incontro – che all’Egumeno erano pervenute sollecitazioni da parte di diverse persone, soprattutto dal notaro Giovanni Rizzo, uno dei capi della rivolta contro il duca, amico dell’Abbazia e intimo di vostro padre. L’Egumeno aveva in grande considerazione anche Damiano ed era rimasto molto addolorato dalla sua atroce morte».

Pronunciata quest’ultima frase su mio padre, il monaco fece il segno della croce e congiunte le mani chinò la testa in segno di raccoglimento. I suoi gesti mi colpirono al cuore, come se il turbamento fosse legato a conoscenze raccapriccianti che ancora mi fossero ignote.

Gli chiesi se, a sua conoscenza, le cause e le modalità della morte di Damiano fossero diverse da quelle emerse fino ad allora. Rispose evasivamente:

«Niente di diverso. Se è stato il mio turbamento a dettarvi la domanda, ritenetelo un omaggio alla memoria di un uomo giusto, morto senza colpe».

Quel riconoscimento mi commosse, ma non cancellò la convinzione che il monaco ne sapesse di più.

Ad attivare la diplomazia dell’Egumeno non erano state solo le sollecitazioni esterne; c’era un esplicito motivo d’interesse dell’Abbazia nel caldeggiare la destituzione e l’allontanamento del conte, e non era un motivo morale, o almeno non esclusivamente: l’Abbazia avrebbe ottenuto il riconoscimento del suo diritto, fino ad allora disconosciuto dal conte, su alcuni casali della contea; forse i monaci potevano addirittura sperare nell’assegnazione all’Abbazia dell’intera contea, unificandone la gestione sotto la medesima amministrazione.

Il frate su quest’aspettativa era stato reticente, mi riferì che a convincere l’Abate sarebbe stata l’indignazione per i gravi peccati del conte, i suoi efferati crimini contro gli uomini e contro la giustizia. Furono questi motivi, confermò, a indurre il Papa a far pressioni sul Re napoletano; anche se, ho ragione di ritenere, gli argomenti realmente addotti non corrispondevano a quelli da lui elencati e a lui cari.

Parlai successivamente con il duca di Andria.

Come il lettore ricorderà, dopo la fuga da Leuternia seguita al coinvolgimento di Ignazio, suo figlio naturale, nella sommossa popolare contro il conte Patruno, suo marito, Lucina era ritornata alla corte di Andria. Qui, dopo la morte di Ignazio, il suo cuore colmo di risentimento e di un materno impulso di vendetta, la spinse a sollecitare l’intervento del duca suo fratello nella contesa, per tutelare i propri diritti e punire il marito omicida. Il duca, impegnato in altre contese, non ne assecondò le aspettative, ma fu ben disposto, dopo l’eliminazione dei Giganti, a perorarne la causa presso la corte reale denunciando i crimini del cognato.

«Lucina – mi confidò il duca – alla corte di Leuternia aveva dei buoni e fedeli informatori, i quali l’avevano dettagliatamente informata delle mosse e della condotta del marito. Ciò le aveva fornito elementi formidabili per accusarlo, e li avrebbe usati senza remore per soddisfare la sua sete di vendetta».

Di fronte ai suddetti intendimenti, un dubbio mi sorse spontaneo: non temeva, la contessa, che le accuse nei confronti del marito avrebbero coinvolto anche il figlio Cocidio?

Rivolsi la domanda al duca, il quale mi palesò l’errore di cui la sorella era stata vittima inconsapevole. 

«Al contrario – disse – la contessa sperava che la condanna del marito, oltre a liberarla da un legame mal sopportato fin dai primi anni di matrimonio, avrebbe fatto succedere il figlio Cocidio al soglio comitale».

Io pensavo con il senno di poi, alla luce di ricostruzioni postume; Lucina forse non conosceva la dinamica reale dei fatti, e se la conosceva aveva cercato di occultarla per salvaguardare Cocidio, il quale, nonostante tutto, era pur sempre suo figlio.

Le aspettative della contessa, alla prova dei fatti, furono del tutto disattese ed ella ne fu tanto scossa da non resistere a lungo al dolore e al rimorso: che l’annientarono.

 La convergente pressione del Papa e del Duca, influenti alleati del Re, produsse gli effetti sperati. In gran segreto fu incaricato delle indagini il Giustiziere della Provincia di Terra d’Otranto, al quale fu raccomandata assoluta discrezione e rapidità d’azione.

Onde evitare sospetti, il real funzionario raggiunse la contea di Leuternia per l’annuale, prevista perlustrazione del territorio e nell’occasione, in un colloquio informale, comunicò al conte l’incarico ricevuto.

«Al Sovrano sono pervenute lettere di denuncia che vi accusano di crimini indeterminati. Siamo costretti a procedere con le indagini del caso, che non approderanno a niente, ne siamo sicuri», aveva detto il funzionario, suscitando nell’incredulo conte un allarme a mala pena represso.

Pur nello stato di apprensione causato dall’inattesa informazione, il conte, recuperata la consueta impassibilità, rispose: «Ho dovuto fronteggiare sommosse popolari e pretese dinastiche infondate; e in questi casi capita che qualcuno soccomba», non negando i morti né le violenze, e dichiarando la completa disponibilità ad agevolare il compito del giustiziere.

In realtà non era per niente tranquillo né disposto a collaborare, e per fronteggiare l’imprevista evenienza approntò le opportune contromisure. Che poi erano nient’altro che la chiamata di correità per tutti gli uomini (e le donne) implicati nella vicenda, figli compresi, imponendo il silenzio e la negazione dei misfatti loro eventualmente contestati.

Il Giustiziere svolse il suo incarico con discrezione e rapidità. Conclusa una prima fase di ricognizione dei fatti, ordinò ai suoi armigeri l’arresto per reticenza di alcuni servi del conte e di altri cittadini e la loro immediata traduzione nella sede del giustizierato. La qualcosa, per la subitaneità dell’esecuzione, disorientò il conte, che non fu in grado di opporre alcuna obiezione o resistenza. 

Che fare? Teo Patruno, indispettito dall’evoluzione dell’indagine, tergiversò nell’incertezza. Voleva dimostrarsi calmo e consapevole, eppure l’agitava un timore incontrollato che ne paralizzava l’azione. Sofia cercava di tranquillizzarlo; Cocidio, al contrario, lo assillava con i suoi turbamenti e la paura che la verità venisse scoperta.

Sofia era l’unica a non perdersi d’animo. Ragionando sull’elenco dei soggetti arrestati, avanzò la convinzione che il giustiziere non avesse scoperto alcunché, e che, di conseguenza, tutto doveva continuare come se niente fosse.

«D’altronde, il giustiziere lo ha premesso: “Le indagini non approderanno a niente”. Vedrete è tutta una messinscena per accontentare i traditori che tentano di screditarvi dinnanzi al Re».

Così andava dicendo Sofia, rivolta al padre, e non era lontana dal vero, stando alle apparenze.

Il Giustiziere, infatti, era stato cauto e previdente. Aveva arrestato per reticenza soggetti che davvero non erano al corrente della verità, che conoscevano soltanto fatti marginali e ininfluenti, di dominio comune si direbbe, ed aveva lasciato in libertà quelli (pochi, tre o quattro) che cose da raccontare ne avevano avute e le avevano raccontate, seppure a modo loro e minimizzando le proprie responsabilità. Ad essi fu imposto di ritornare alle consuete occupazioni e di mantenere il più assoluto riserbo.

Gli arrestati dopo qualche tempo furono liberati, e liberi fecero ritorno a Leuternia con evidente sollievo del conte, che sembrò riprendersi dal precedente stato di inquietudine.

Egli, tuttavia, non aveva ragione di rilassarsi nella convinzione del pericolo scampato.

Perché il Giustiziere avesse agito con quella cautela non fu subito chiaro; si chiarì col passare del tempo ed evidenziò l’acume indagatore del funzionario. Egli si comportava con il conte come il gatto con il topo: gli aveva dato una zampata impietrendolo di paura, poi lo aveva osservato con occhi indifferenti e attenti, pronto a concludere il lavoro quando la preda, rassicurata dall’inerzia del predatore, avesse cercato una via di scampo nella fuga. Con l’intuizione dell’uomo navigato che conosce l’animo umano, aveva mirato a intaccare il prevedibile muro di omertà innalzato dal conte. In che modo? Nel modo più diretto ed efficace: offrendo una via d’uscita ai servi esecutori o coadiutori dei delitti, in cambio della delazione: verità in cambio di un salvacondotto per espatriare, più una somma di denaro per temperare il peso del tradimento. Un’alternativa allettante e immorale, che metteva in gioco la fedeltà e la lealtà del servo verso il signore: quell’identificarsi col signore nella buona e nella cattiva sorte, quel rapporto che afferma la forza l’onore e l’orgoglio del servo che nel riconoscimento del suo signore fonda la ragione della sua esistenza e del suo stato. Una scelta obbligata, la cui alternativa era la condanna a morte che, se salva l’onore e l’orgoglio, se testimonia lealtà e fedeltà, non salva la vita né l’anima del servo, tantomeno quelle del suo signore, e comunque richiede una forza d’animo non comune, che quei servi non possedevano.

Così fu e se ne ricavò un incartamento sufficiente a intentare un processo criminale nei confronti del conte e dei suoi figli. Le risultanze delle indagini furono quindi inviate al Re, le cui decisioni costituirono i prodromi dell’agitato seguito di quella travagliata vicenda.

Certo, nel nome della funzione esercitata e dell’autorità che rappresentava, il giustiziere avrebbe potuto procedere direttamente all’arresto di tutti i soggetti implicati, compreso i membri della nobile famiglia; egli temeva, tuttavia, e non a torto, che un tale comportamento avrebbe scatenato la reazione del conte che poteva contare su un numero di armati ben più numeroso del risicato drappello di guardie che lo accompagnavano nella missione. Meglio la cautela, allora, lasciare che la situazione decantasse in attesa delle mosse successive del conte, che certo non sarebbe rimasto inattivo, e delle necessarie valutazioni del Sovrano. Il quale, letto e ponderato il caso, disgustato per l’abominevole e indecoroso comportamento del conte descritto nelle carte rassegnate dal Giustiziere, convocò a Corte l’imputato per esaminarlo egli stesso e, se del caso, farlo processare da una corte criminale.

Nell’attesa che la situazione evolvesse verso il suo naturale esito, il conte, con la consueta protervia, aveva a sua volta esaminato tutti i testimoni escussi dal giustiziere, in specie i servi più fidati, per conoscere le informazioni di cui il giudice disponeva. Tutti confermarono quanto dovevano: chi, impaurito, riferì per filo e per segno; chi, con naturalezza (i traditori), negò il vero e inventò risposte ingannevoli. Solo uno di questi, intimorito dall’irruenza dell’interrogante, si dimostrò incerto e contraddittorio, tanto da alimentare i sospetti del conte; che non si fece scrupolo di esercitargli violenza per fiaccarne la resistenza e costringerlo a rendere piena confessione.

L’ottenne, e aprì la strada alla vendetta.

Si salvò solo il servo più vicino al signore, senz’altro il più scaltro e il più ardito. Questi, sempre sul chi vive dopo l’accordo col giustiziere, subodorato il crollo emotivo del suo compare, senza por tempo in mezzo si eclissò, mettendosi sotto la protezione del funzionario reale.

Quasi nello stesso torno di tempo, il Re aveva inviato un messo a Leuternia per consegnare al conte un rescritto con l’ordine di presentarsi senza indugio a Corte “per consultazioni inerenti al riscontrato disordine fiscale della contea, al numero dei fuochi da tassare, all’elezione dei tassatori e dei collettori delle imposte, causa di innumerevoli suppliche dei Parlamenti cittadini”.

L’oggetto della consultazione era e non era un sotterfugio ad hoc: aveva il pregio della plausibilità, ma non trasse in inganno il precario signore di Leuternia.

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