Terza e ultima giornata di festeggiamenti per il fidanzamento di Sofia e Porfirio: regata remiera, giostra cavalleresca e banchetto di commiato per gli ospiti. Il conte Teo è agitato, le ore che lo separano dal culmine della sera trascorrono lente, ma non lo tradiranno.
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Capitolo ventunesimo
Teu Patrunu quardau li corpi friddi de li Giacanti e pe’ dispiettu diciu ‘ste parole: “Hiti ulutu troppu. L’anime ošce, niure comu li crauni, se ne su ulate allu ‘nfiernu, e li catauri ošci stanotte stessa sarannu jentulisciati a mare spunnatu. Quiste suntu le sule cunquiste ca ve spettane”. Dopu cumannau allu servu cu ne li porta, ca nu ‘mbulia cchiui cu li vìšcia e alla fine, diciu: “Prima cu li minati a mare, mmazzaratili comu se deve e nfucatili armenu a ddoi mije allu largu”.
Il terzo giorno doveva essere movimentato e denso di eventi ancor più dei precedenti. Al mattino era prevista una regata remiera lungo la costa antistante il castello, nel pomeriggio una giostra dei cavalieri nell’ampia piazza d’armi e, per concludere, una cena allietata da canti e balli fino a tarda notte per salutare gli ospiti in partenza il mattino seguente.
Teo iniziò la giornata recandosi di buon’ora in visita nella dimora della cugina Morgana. La trovò, come d’abitudine, tra pentoloni e alambicchi, bollendo e distillando erbe officinali e bacche di ogni tipo, per preparare pozioni, unguenti e medicamenti spesso alternativi alla farmacopea ufficiale, prodotti in odor di magia e perciò ricercati e impiegati per malefici e incanti di varia natura.
«Buon giorno, cugina dilettissima», disse Teo con sostenuta ostentazione, facendo il suo ingresso nel laboratorio.
«Qual vento maligno ti ha condotto alla casa di quest'umile donna invisa al mondo?» rispose Morgana con un ghigno sarcastico.
«Oggi si decide il futuro di Sofia, è necessario che la festa di questa sera proceda senza intoppi».
«Il regalo per il tuo futuro genero è pronto e la sorpresa sarà grande».
«Saprò compensarti come meriti, dal prossimo anno avrai il tuo posto a corte com’è tuo diritto».
«Tua moglie non è più d’impedimento?»
«Non lo sarà e ho ragione di ritenere che l’oltraggio arrecatomi dal suo bastardo la terrà per sempre lontana da questa terra».
«Manda un tuo servo fidato due ore prima della cena che lo istruirò a dovere sulla consegna del regalo».
I due si scambiarono qualche altra battuta sul tempo e sugli eventi della giornata, quindi Teo si congedò per tornare ai suoi impegni ufficiali.
Il tempo lo preoccupava alquanto e per vari motivi. Il più importante era la percezione del suo corso. Per Teo il tempo, in quel giorno in cui “si decideva il futuro di Sofia” non scorreva con la cadenza usuale, egli lo percepiva lento e inutile, come fosse frenato da forze misteriose che tramavano contro di lui e impedivano alla ruota celeste di compiere il suo giro ordinato tra il giorno e la notte al ritmo usuale dell’autunno avanzato. A quell’ora presta del mattino in cui il sole non si era ancora levato sull’orizzonte egli già desiderava che il baluginio lento della luce fosse quello degradante del tramonto, non l’annuncio di una nuova alba. Invece a ogni passo constatava dolorosamente che le ore dell’attesa erano troppe e troppo lunghe, ognuna gli spalancava abissi d’incertezza, prospettava pericoli, alimentava sospetti, formulava dubbi e interrogativi che ne fiaccavano la volontà.
Lo preoccupava meno il tempo meteorologico, che pure qualche intoppo lo avrebbe causato. Il vento di Borea nella notte aveva accelerato il suo impeto e ora soffiava con veloci folate che mettevano a repentaglio l’andare per mare. Onde lunghe e profonde si rincorrevano da nord a sud e non bastava la debole protezione del corto promontorio della Mastefina ad assicurare acque tranquille alla regata remiera prevista nella tarda mattinata. Il vento rabbioso superato quel capo imprimeva una torsione alle onde e le spingeva, solo lievemente smorzata, all’interno del breve seno prospiciente la città, dove il moto primario del loro frangersi sulla scogliera si scontrava con il conseguente riflusso causando uno strano effetto di ribollimento pericoloso per le leggere imbarcazioni in gara.
Sarebbe stato necessario disdire la regata e intrattenere gli ospiti nel corso di inutili ore inderogabili.
Nessuno se ne dispiacque, neanche i Giganti e i loro uomini che non erano gente di mare, anzi ne avevano paura, preferivano la terraferma, stabile e affidabile, all’inconsistente fluidità del pelago; che di fronte allo spettacolo della glauca distesa mugghiante restavano attoniti e confusi.
Preferivano di gran lunga la giostra cavalleresca in programma nel pomeriggio. Che si tenne come previsto, seppure limitando da cinque a due i giochi di abilità in cui i cavalieri si sarebbero esercitati. Tale rimaneggiamento fu ben accetto da tutti perché si temeva, come puntualmente accadde, la defezione popolare e la conseguente mancanza di colore ed entusiasmo. E infatti senza strilli, battimani, cori e grida di entusiasmo, ohohohoh di delusione ed esclamazioni di evviva che solo una massa umana colorita e festante poteva assicurare, la giostra si rivelò di una noia mortale ed ebbe nel suo vincitore il degno rappresentante dello stato d’animo dominante. Vincitore fu il giovane Cocidio, codardo in guerra ma agile nel torneare, vittoria della quale fu felice soprattutto Sofia che evitò di premiare il suo promesso, terzo nella graduatoria di merito, e di stare al suo fianco nel corteo conclusivo e nella cena di fine serata. Liberarsi della compagnia di quell’energumeno, al fianco del quale, in chiesa e a tavola, aveva trascorso momenti di dissimulata disperazione che l’avevano fiaccata nello spirito e consegnata a una profonda angoscia esistenziale, fu un sollievo insperato. Ciò la mise di buon umore, ben disposta a sopportare lo squallore del convivio tra quella masnada di uomini rozzi e superbi, eccitati dalla tenzone pomeridiana, per l’occasione argomento di conversazione scontato e inderogabile e di inevitabili, altezzosi contrasti o più gravi contese.
Ed eccoci arrivati al momento cruciale del triduo festante: il banchetto di commiato.
Nell’occasione il conte non lesinò sulle portate né sul vino. Furono servite le più squisite prelibatezze locali: carni pesci formaggi verdure, in una fantasmagoria di colori e profumi che eccitavano l’occhio e predisponevano al piacere di gustarne i sapori prelibati. Ma fu soprattutto il vino a dominare la scena, ben servito da numerosi coppieri attenti a non lasciar vuoti i boccali degli ospiti e incoraggiandoli con declamazioni competenti ad abbinare a ogni pietanza il tipo più indicato ad esaltarne il gusto. A intervalli regolari qualcuno si alzava per proporre brindisi declamandoli in versi e dediche che rallegravano l’ambiente e invitavano al bere smodato.
Due ore dopo il tocco della campana di compieta tutti i commensali si erano ritirati, salutati dal conte anfitrione. Qualcuno era stato portato di peso negli appartamenti degli ospiti, altri affidati ai rispettivi servi in attesa dabbasso. Nel salone deserto si scambiarono occhiate fuggenti e sussurrarono caute parole il conte e Cocidio prima di ritirarsi anch’essi dopo aver dato le ultime istruzioni ai servitori incaricati di ripulire rapidamente il salone e di spegnere al più presto lampadari, candelieri e torce. Sofia e le altre dame si erano ritirate già prima dell’ora di compieta con l’intento della preghiera e per lasciar campo libero agli uomini e ai loro affari, ai frizzi e ai lazzi ai quali li disponevano le generose libagioni.
All’incirca nel tempo in cui nel convento dei frati minori la campanella annunciava l’ora delle laudi e i monaci incappucciati, le braccia incrociate sul petto, in fila e in silenzio si dirigevano in chiesa, all’incirca a quell’ora Teo era seduto nel suo studio in attesa. Forse quella notte non aveva dormito affatto, gravato dal peso di un’incerta attesa che a quel punto avrebbe avuto il suo compimento. Non credo che abbia pregato emulando i monaci infreddoliti ma ardenti di zelo e di carità, se lo avesse fatto sarebbe stato doppiamente blasfemo perché avrebbe pregato per il buon esito di un grave peccato. Lo raggiunsero prima Sofia e successivamente Cocidio. Questi sì aveva dormito e ne portava i segni sul viso arrossato e negli occhi ancora gonfi e inappagati di sonno. Sofia no, lei si era solo cambiata d’abito e nonostante la veglia sembrava fresca e riposata.
I tre sedettero insieme scambiandosi poche frasi.
Parlò per primo Teo: «Sarà andato tutto per il meglio, non ho sentito alcun movimento sospetto».
«Dormono tutti beatamente», aggiunse Cocidio con nero sarcasmo, abbozzando un sorriso stiracchiato.
Sofia lo guardò con occhi di ghiaccio e fissandolo disse: «Mentre venivo ho visto un riflesso di luce nell’ala riservata ai Giganti».
Nel silenzio seguente si sentì un leggero tocco alla porta. Cocidio l’aprì pronto a difendersi da un’eventuale aggressione. L’attesa era finita, i tre si rilassarono e Teo diede l’ordine di procedere all’esecuzione della seconda parte del piano.
Porfirio e Alcino insieme agli ufficiali che li accompagnavamo si erano ritirati per ultimi dopo la lauta cena e le abbondanti libagioni. Si allontanarono sulle loro gambe traballanti, ridendo sguaiatamente e continuando con i motti e le trivialità da caserma che avevano accompagnato l’ultima parte della serata tra soli uomini. Un sonno profondo li rapì senza indugio e ognuno, scompostamente sprofondato nel letto, si abbandonò fiducioso all’incoscienza ristoratrice e rigenerante. Tutti i dormienti, credo si possa supporre, furono visitati da sogni in qualche modo grevi. Dopo qualche ora cominciarono ad avvertire disturbi che li facevano girare nel letto per cercare posizioni più comode. Dopo le prime giravolte non si mossero più, i sogni e il disagio fisico lasciarono il posto a un’inerzia assoluta che lentamente li separò dalla vita senza averne coscienza né dolore.
Il dono di Morgana era stato tempestivamente consegnato e aveva prodotto il suo effetto funereo.
I Giganti e i loro uomini erano stati avvelenati. Tutti: quelli ospitati ai piani nobili del castello e il ridotto corpo di guardia acquartierato nei locali adiacenti il cortile. La contesa era terminata e i Giganti, fiduciosi nella lealtà del conte, erano stati vinti senza colpo ferire, senza combattere. Li aveva sconfitti l’arte diabolica di Morgana cha sperava nella promessa di Teo di voler preparare per sua figlia Sofia uno splendido avvenire maritandola a un grande signore e nominandola erede della contea e del titolo nobiliare. Promesse da marinaio, si direbbe, pur non essendo Teo uomo di mare; lei lo sapeva e comunque lo aveva assecondato, sperando che sua figlia ne avrebbe in ogni caso beneficiato, almeno non sottostando alla sfrontata pretesa di Porfirio, relegata nella sua tenebrosa dimora, oggetto dei malsani desideri di un marito ripugnante e collerico.
Teo e i suoi rampolli preceduti dal servo si recarono nella stanza in cui alloggiavano i Giganti. Sofia doveva restare in attesa nello studiolo, ma più forte della richiesta paterna fu il desiderio di sincerarsi di persona della fine del suo incubo. Debolmente illuminata da una lanterna cieca la stanza fluttuava tra ombre e raggi di luce in costante movimento, nei letti i due gemelli sembravano dormire. Teo si avvicinò timoroso al giaciglio più vicino, la lanterna illuminava il viso di Porfirio arreso al mortal gelo. Di seguito osservò il corpo di Alcino irrigidito nello spasmo orrendo della morte. Intorno al padre loro Cocidio e Sofia osservavano increduli che tanta possanza fosse oramai inoffensiva.
Teo rimirò la scena e con supremo disprezzo, rivolto alle inanimate spoglie dei Giganti, disse: «Avete osato troppo. La vostra anima nera è già sprofondata nel tartaro, i vostri corpi conquisteranno presto le oscure profondità degli abissi marini: è l’unica conquista che vi riconosco».
Quindi si rivolse al servo: «Portateli via – ordinò – e fate attenzione che siano mazzerati a dovere e abbandonati almeno a due miglia dalla costa».
Sarebbe stato più semplice, com’era accaduto per Damiano Polifemo e i suoi amici, seppellirli nelle acque sulfuree della grotta Ferrata, ma il conte fu di avviso contrario. Aveva paura che fosse vera l’opinione popolare sull’insorgenza della pestilenza sulfurea e non desiderava, per nulla al mondo, correre il rischio di alimentarne l’inopportuna fonte. Egli sperava che il fenomeno si esaurisse nel volgere di un periodo non lungo e con il ritorno al precedente stato contava sul naturale decadimento di quella convinzione. Così non fu, per sua sfortuna, e anche per le future fortune di quel lido e di quella contrada, e per molto tempo persistette la forte convinzione popolare dello stretto rapporto tra la fonte sulfurea e il desiderio di libertà tenacemente coltivato.
Finì così, senza gloria, l’avventura dei Giganti in terra di Leuternia. Per quella contrada non fu certo un male perché niente di buono le avrebbe portato il loro governo. Fu un sollievo troppo magro, però, del tutto effimero, perché il vecchio conte restava in sella più forte di prima e più baldanzoso, deciso ad esercitare il suo potere senza limiti, senza giustizia e senza umanità. Giusto il contrario di quanto è scritto nel primo versetto del libro della Sapienza: Diligite iustitiam qui iudicatis terram[1].
A Leuternia s’era combattuta un’impari lotta per la giustizia sociale e la legalità e, come non di rado accade, contro questi valori avevano primeggiato l’arbitrio, la prepotenza e l’abuso.
Ma non fu tutto vano.
La baldanza del conte e dei suoi figli, nonostante i proclami e le aspettative, non durò a lungo e non solo perché le fortune mondane sono precarie, e preminentemente il potere, la ricchezza, la reputazione, la celebrità; soprattutto perché Teo Patruno non aveva saputo porre un freno alle ambizioni e su queste fondando il proprio imperio aveva apparecchiato la tavola della sua stessa rovina insieme a quella della sua stirpe.
Fu
una conclusione ineluttabile, una pervicace lezione della Storia. Soltanto chi
disprezza la conoscenza e non conosce la Storia non l’apprezza e non ne tiene
d’acconto gl’insegnamenti. Inebriandosi nella vertigine del successo egli cede
agli impulsi di onnipotenza che lo danneranno e lo faranno cadere con la stessa
velocità con cui la sua fortuna era cresciuta.
[1] Amate la giustizia voi che governate sulla terra. (Libro della Sapienza 1,1)
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