giovedì 15 giugno 2023

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

Dopo gli scontri ai laghi Limeni, soffocata nel sangue la rivolta popolare, il conte Patruno proclama tre giorni di festa per celebrare la vittoria e il fidanzamento di Sofia e Porfirio. Intanto nella spezieria di Medardo Greco si trama per il boicottaggio dei festeggiamenti. La cerimonia ufficiale e il pranzo a corte. Il disinteresse popolare deprime e irrita il conte e i suoi ospiti. 

                      Corteo nuziale  (Particolare del Cassone Adimari dipinto da Giovanni di ser Giovanni, detto Lo Scheggia, fratello del Masaccio) 

 Capitolo ventesimo

 L’urtimu attu se tinne intra allu castiddhru de Leuternia tuttu ‘mbandieratu pe’ la festa de a zzitulanza de Sufia cu lu Purfiriu Giacanti. A Leuternia nunn’era ‘mbamndieratu sulu lu castiddhru ma tutta la cittade pe’ lu fattu ca u conte tinia nnu cranne disideriu (nu dittu e puru fastitiusu) de festeggiare a vittoria a scapitu de lu desiteriu de libertate de lu populinu, puru ca sapia cu nunn’era nna cosa de fare.

La rivoluzione decapitata non si riebbe dalla sconfitta. I tentativi di rianimarla sull’onda dell’inquietudine popolare accesa dal persistente evento sulfureo durarono il breve volgere di una stagione eroica. Nelle principali città della contea, nei borghi e nei casali, le assemblee dei capifamiglia tentarono il ripristino delle antiche guarentigie e animarono una sedizione tributaria sospendendo il pagamento delle tasse e l’erogazione delle corvè: invano, purtroppo.

L’opzione militare, che pure non era stata abbandonata dopo la disfatta dei laghi Limeni e l’esodo forzato della banda di Alcide, trovò un ostacolo insormontabile nei tempi lunghi necessari alla costituzione di un forte nucleo armato capace di tener testa alle intatte forze del conte e dei Giganti. I quali, superato il primo momento di smarrimento e di confusione ripresero in pieno il controllo della situazione senza lesinare l’uso della forza e la vendetta contro gli esponenti più in vista delle assemblee cittadine.

Nell’attività repressiva, com’era facile attendersi, si distinsero i due visconti gemelli che diedero, se ce ne fosse stato bisogno (ma non ce n’era, essendo viva e cruda la memoria della loro trista fama), un memorabile saggio della loro innata crudeltà, lasciando dietro sé una lunga scia di sangue, di scannamenti, di ruberie, d’incendi e distruzioni, tali da oscurare perfino le scorrerie dei barbari pirati saraceni.

Tuttavia, se la rivoluzione fallì e la sua dirigenza soppressa o consegnata alla diaspora con grave pregiudizio delle speranze di rinascita incarnate nell’attivismo della nascente borghesia cittadina, il sacrificio non fu senza conseguenze. Il clamore dei disordini e le efferatezze perpetrate dal conte Patruno avevano attraversato le pianure di Puglia e gli Appennini scortate da un misto di pietà e d’incredulità, giungendo fino alle orecchie del Re. In verità l’attenzione del sovrano fu sollecitata da una valanga di petizioni popolari che ne invocavano la mano protettrice, ma furono soprattutto il discreto intervento dell’egumeno di Casole e le preoccupate informative dei feudatari confinanti a indirizzarne l’intervento.

Sull’ulteriore sviluppo della vicenda avrò occasione di indagare nel quinto e ultimo libro della Cronica, adesso è ancora il tempo di procedere alla rappresentazione dell’ultimo e definitivo atto della gigantomachia di questo tempo infelice, dove si decidono le sorti della mortale contesa tra il conte Teo Patruno e i gemelli Porfirio e Alcino Giganti che vollero incoronarsi visconti di feudi fittizi e rabberciati.

 L’ultimo atto si svolse nel castello di Leuternia allegramente pavesato a festa per la cerimonia di fidanzamento di Sofia e Porfirio. Ad essere pavesato a festa non era soltanto il castello, lo era l’intera città, per l’evidente (e inopportuno e sottaciuto) desiderio del conte di celebrare anche la sua vittoria sulle (per lui) incomprensibili pretese del volgo, nonostante non ne ignorasse l’inopportunità. Ma il conte non aveva dimestichezza con le negazioni e con i contrari; il suo desiderio, norma positiva e vigente, doveva essere esaudito a qualunque costo, indifferente agli orrori e alle sofferenze patite dal suo prossimo. Che egli non riconosceva. Teo non era prossimo ad alcuno, viveva nella stolta pienezza del suo ego il cui alone lo isolava in una sorta di bolla dove le grida di dolore, le suppliche, i patti, le convenzioni, i diritti non avevano corso, si degradavano sulla soglia, nell’impatto con la superficie trasparente, eppure resistente, della bolla protettiva.

Pavesare a festa la città era inopportuno per il popolo di Leuternia che ne aveva ben compreso il significato e non aveva mancato di far conoscere il proprio sentimento con eloquenti azioni di notturni sabotaggi. Azioni che il conte non tollerava, che aveva represso senza discrimine arrestando e mettendo in ceppi quanti venivano sorpresi, a torto o a ragione (più facilmente a torto che a ragione), in luoghi o atteggiamenti arbitrariamente ritenuti sospetti dagli sgherri sguinzagliati per seminare terrore.

Il fidanzamento era solo l’esca di un dissimulato progetto, la resa dei conti definitiva di una vicenda le cui radici profonde si alimentavano nella sentina putrida di antiche colpe inconfessabili e reiterate. Ma andiamo con ordine. La mattina in cui i cittadini percepirono il clima d’insolita animazione che percorreva la città e ne conobbero il motivo era l’esordio di una giornata inclemente. Il vento di scirocco agitava il mare con una furia pari a quella del conte: ma se le onde infrante sulla nuda granitica scogliera si arrendevano ad essa e si concedevano ai capricci del vento che ne disperdeva gli sbuffi nell’entroterra prima di ricadere innocue sugli scogli, la malevolenza del conte scuoteva l’intera contea come i sussulti di un terremoto stizzoso. Le nuvole basse e minacciose, gravide di pioggia, correvano compatte e veloci verso i contrafforti della serra incontro ad altre masse nuvolose veleggianti in senso contrario; di tanto in tanto il cielo era squarciato da saette luminescenti alle quali seguiva il roboante frastuono dei tuoni che copriva il rumoreggiare sordo e continuo del mare. Per le strade i rari passanti si muovevano veloci, ingobbiti dalla resistenza agli elementi, desiderosi di sottrarsene in fretta.

Di buon mattino, intanto, incuranti del vento e della pioggia intermittente che inasprivano il freddo umido di fine novembre, squadre di manovali si aggiravano per le strade del centro intenti a piazzare bandiere e stendardi che il vento e la pioggia riducevano ben presto a poveri straccetti inutili e informi, attorcigliati alle aste e sfilacciati. Sarebbe stato senz’altro opportuno rimandare quell’inutile impegno, ma il tempo cronologico in quella specifica circostanza era più tiranno del solito perché il tempo atmosferico ne aveva già consigliato il rinvio nelle giornate precedenti e a quel punto il rinvio era impossibile essendo imminente l’evento che bandiere e vessilli annunciavano.

Gli abitanti di Leuternia ne furono informati quella stessa inclemente mattina dal banditore uscito dal palazzo del capitano in groppa ad un lento ronzino gualdrappato col suo infreddolito seguito di trombettieri e guardie. Erano stati indetti tre giorni di festa scanditi da un nutrito programma, come a memoria d’uomo non se ne ricordavano, ma erano soprattutto altre le comunicazioni sulle quali l’araldo insisteva con parole alate e mielose. Non tanto la cronologia degli eventi mondani e religiosi ai quali

il fedele popolo di Leuternia con solerte ed entusiastica partecipazione era invitato a esprimere il proprio compiacimento e la fedeltà al suo signore,

quanto il messaggio di riconciliazione, di pace e di prosperità che le giornate di festa e il fidanzamento contenevano.

Non furono in molti ad ascoltare le parole dell’araldo, qualche sfaccendato e i pochi bottegai affacciatisi alla porta delle botteghe, incuriositi dal rauco suono delle trombe, ma il messaggio corse ugualmente di bocca in bocca e nel volgere di poche ore tutta la città, fanciulli compresi, ne era venuta a conoscenza. Il passa parola corse in tutte le direzioni e ben presto s’intrecciò con un elaborato flusso di spontanee valutazioni espresse con unanime sentimento nei capannelli occasionali dove s’incontravano gli uomini sottratti dal maltempo agli usuali lavori quotidiani.

Quale riconciliazione si doveva celebrare? Forse quella parentale tra i Patruno e i Giganti? O quella men certa tra il conte e il popolo ribelle oramai vinto? Ma s’era quest’ultimo ad essere invocato, poteva il rio Patruno sperare di cogliere nel segno? E quale prosperità si poteva celebrare se, dopo aver rubato, rapinato, massacrato, non restava nient’altro che il dolore e la solitudine del tradimento? Se la contea era diventata un deserto di desolazione morale e materiale, quella condizione poteva essere chiamata pace?

Nella bottega di Medardo Greco, lo speziale amico di Damiano e del notaro Rizzo, dopo la lettura del proclama comitale si era radunato un gruppetto di uomini. Tra essi non c’era il notaro che non sarebbe mancato per nulla al mondo se non fosse stato costretto al volontario esilio dalle avverse circostanze che altrimenti lo avrebbero perduto. Medardo era riuscito a mimetizzarsi con successo. Lo aveva salvato la bottega dove passavano in tanti e gli era stato possibile svolgere il delicato compito di collegamento senza sollevare sospetti. Egli soffriva per la maligna sorte dei suoi amici e per l’esito del generoso e sfortunato tentativo di emancipazione, eppure non rinunciava a scrutare con speranza gli umori del popolo di Leuternia. A conti fatti, le vicende dei successivi tre giorni di festa gli avevano riacceso una fiammella di speranza che, purtroppo, il soffio del malevolo vento spirante dal castello aveva spento inesorabilmente.

«Avete sentito, don Medardo, le nuove di quest’oggi?». Aveva esordito così il velaio Grimaldi appena varcata la soglia della spezieria. Egli si trovava in piazza per caso e fu naturale rifugiarsi nella bottega del Greco per averne dei lumi.

«Cosa vi posso dire, don Francesco. Povera figliola…», rispose Medardo ostentando indifferenza e un mondano disgusto.

«Pensate che sia il suggello definitivo dello status quo?»

Lo speziale non rispose. Sembrava assorto, indeciso; si espresse laconicamente con un «Mah!», mentre aveva un’opinione ben precisa che non aveva intenzione di esporre per evitare conseguenze spiacevoli, considerato che nel locale non c’erano solo amici fidati e che le orecchie del conte erano lunghe e sensibili. Per lui rispose uno dei presenti: «A dar fede a quanto si dice in giro sembrerebbe di no».

«Volete dire che la partita è ancora aperta?» disse un secondo avventore.

E il primo, di rimando: «Dipende dalla partita a cui pensate… potrebbero essercene più d’una… o nessuna».

La conversazione continuò con allusioni, mezze frasi, auspici vaghi, senza affondare giudizi specifici sugli eventi che si preparavano né sul malcontento popolare da essi suscitato.

Francesco Grimaldi perse presto interesse per quel parlare vago. Sentiva il pressante bisogno di fare una confidenza compromettente all’amico speziale e per farlo disse ad alta voce perché tutti lo sentissero: «Don Medardo, ho una certa premura, avete preparato la mistura che vi avevo commissionato?»

Lo speziale, non essendogli stata commissionata alcuna mistura, sulle prime sembrò sorpreso. Si riebbe subito e con cortesia rispose: «Certo, don Francesco, se venite un momento di là vi ragguaglio sulla posologia».

Nel retrobottega, con evidente concitazione, il velaio rivelò il vero motivo della sua visita. Disse: «Il malcontento popolare per i festeggiamenti è reale ed evidente, dobbiamo fare qualcosa».

«Lo penso anch’io», rispose Medardo e nel breve conciliabolo che ne seguì i due convennero di far circolare tra il popolo l’idea di disertare le celebrazioni ufficiali e le parate della nobiltà.

 Il primo dei tre giorni di festa si aprì con la cerimonia di accoglienza del fidanzato promesso e del suo seguito. Allo scoccare dell’ora quinta (le 11,00 del nostro tempo), preceduto da squilli di tromba e dal rullio dei tamburi, dal castello si riversò nella sottostante piazza il corteo comitale guidato dal conte Teo in persona seguito da una nutrita schiera di cortigiani e di guardie. Il conte, riccamente drappeggiato, cavalcava un baio altezzoso scortato da due impettiti scudieri con le bandiere e le insegne del rango. La spianata della piazza era quasi deserta, i pochi spettatori schierati lungo il percorso si guardavano intorno dubbiosi, ingobbiti sotto le folate del freddo Grecale che se aveva spazzato via la pioggia e lo scirocco dei giorni precedenti ne aveva anche rincrudito il clima, per niente beneficiato dal pallido sole invernale a tratti oscurato da nuvole rapide e leggere, veleggianti veloci e sfilacciate in vaporosi sbuffi in dissolvenza. Anche il conte sembrava perplesso. Dietro la maschera dell’ufficialità necessitata s’intravedeva il suo umore contrariato, l’insofferenza per quella messinscena superflua… e ne aveva ben donde. Egli (come anche sua figlia) si sarebbe sottratto volentieri a quell’impegno e a tutti gli altri in programma, ma aveva dovuto sottostarvi per l’irremovibilità dei fratelli Giganti che nello sfarzo dell’ufficialità vedevano il coronamento della loro ambizione e il riconoscimento formale della situazione di fatto.

Le resistenze della famiglia Patruno non erano dovute alle ragioni di opportunità politica formalmente accampate. Esse s’imponevano nella precarietà della condizione socio-conomica corrente, sarebbe stato conveniente rispettarle in omaggio al proclamato spirito di pacificazione e riconciliazione, ma non erano quelle le ragioni reali. Di esse per il momento non è possibile anticipare alcunché, se non che erano indicibili e che il motivo sarà chiaro alla fine del presente capitolo.

Il corteo comitale attraversò la città fino alla porta ovest, detta di Calavita, oltre la quale si era fermato il corteo guidato da Porfirio venuto colà a chiedere ufficialmente la mano di Sofia. Il protocollo prevedeva l’incontro dei due cortei oltre la porta cittadina, ma vuoi per l’impazienza di Porfirio vuoi per la perfidia di Teo, fatto sta che il paludato drappello del Giganti trovò la porta cittadina ancora chiusa e nessuna accoglienza alle viste. Grande fu il dispetto del visconte Porfirio che avrebbe volentieri dato l’assalto alle mura e che per l’occasione si limitò a far squillare le trombe araldiche e ad annunciarsi con la voce roboante che metteva paura ai nemici in battaglia. Fu costretto ad attendere.

L’arrivo del conte fu preannunciato dal rullo dei tamburi che ne accompagnava la cavalcata e dall’abbassamento del ponte levatoio oltre il quale prese immediata posizione la guardia d’onore per fare ala al passaggio dello svogliato corteo comitale.

Dopo gli squilli di tromba di prammatica, mentre i due gruppi si fronteggiavano a distanza, le figure dei due parenti promessi si fecero incontro l’un l’altro salutandosi con una vigorosa stretta di mano.

«Benvenuto, nobile Porfirio, la contea di Leuternia ti accoglie come suo figlio diletto e festeggia la ritrovata concordia tra le nostre famiglie a lungo agognata da entrambe», disse il conte, mentre il pensiero correva ben oltre le parole e lo sguardo cercava di dissimularlo con la sua fissità inespressiva.

«M’inchino alla vostra… ehm… benevolenza, grato dell’amicizia e della… (pausa, seguita da un profondo respiro) protezione che mi accordate. Per me sarete il padre che non ho conosciuto, alla cui saggezza… ehmm… non mi stancherò di attingere… in futuro».

Porfirio pronunciò quelle poche parole di circostanza a fatica e con molte incertezze. Dava l’impressione di ripetere frasi malamente apprese delle quali non comprendeva il senso e buon per lui se non si avvide, poiché il suo sguardo era fisso sulla criniera del suo cavallo, del sorriso di scherno che affiorava sulle labbra di Teo.

Esaurite le formalità dell’incontro i due, appaiati alla testa di un unico gruppo, fecero il loro ingresso in città per strade quasi del tutto deserte. Lungo il percorso non si rivolsero più la parola, ognuno perso nella solitudine dei propri pensieri, ambedue increduli e delusi per quell’accoglienza gelida da parte del popolo che avrebbero voluto partecipe e festante. Lo avrebbe preteso Porfirio, ignaro, per negligenza e incomprensione proprie, dei reali sentimenti popolari verso il conte e verso di lui; Teo forse no perché aveva contezza di quel sentimento, ma riteneva che a suo vantaggio avrebbe agito la paura di ulteriori provvedimenti repressivi. Il loro orgoglio, soprattutto quello dello sposo promesso, ne fu ferito e Porfirio se ne lamentò con i suoi imputando tutta la colpa alla scortesia del conte.

La mesta cavalcata, accompagnata dal monotono rullo dei tamburi, interrotto a tratti dalla voce involontariamente cupa dell’araldo declamante il nome e i titoli dell’ospite, aveva un che d’insolito, di spettrale, un funerale più che un ingresso trionfale in un giorno di letizia. L’arrivo al castello nel cui cortile erano schierati una guardia d’onore, i membri della corte e perfino (seppure nelle retrovie, per fare numero) la servitù agghindata a festa, sciolse infine il disagio che aveva annichilito l’intera compagnia. I battimani dei presenti, le grida di evviva e di benvenuto riscaldarono l’atmosfera dandole una parvenza di allegria e di compiacimento, mentre tutti erano coscienti della realtà contraffatta, della finzione che sarebbe durata il tempo breve della messinscena. Che non durò più di mezz’ora tra saluti, presentazioni, chiacchiere di circostanza e un formale brindisi di benvenuto, prima che gli ospiti si ritirassero nei rispettivi quartieri per ristorarsi del viaggio e prepararsi alle successive cerimonie previste dal protocollo.

 La seconda giornata sarebbe trascorsa tra un Te Deum nella chiesa matrice, il pranzo di gala nel salone delle udienze del castello, per chiudere con un’elegante serata dedicata alla musica e alla danza. Le ore tra i numerosi e impegnativi appuntamenti sarebbero trascorse veloci per non lasciare spazio alla noia dell’attesa ed evitare confronti ravvicinati dall’esito imprevedibile tra il conte o suo figlio Cocidio con i Giganti che avrebbe potuto compromettere i segreti fini riposti dai Patruno in quell’incontro. Niente era stato trascurato, neanche il tentativo di conquistare la benevolenza del popolo minuto, invitato a partecipare alla mensa del conte per l’occasione imbandita in piazza in concomitanza con il pranzo riservato agli ospiti e alla corte.

Il mattino si aprì su una giornata luminosa e tersa, fredda però, tagliata dal vento teso e secco di Borea che sferzava la superficie del mare piatto con rapide folate rabbiose; sullo sfondo di quell’azzurro intenso si stagliavano nitidi i biancheggianti monti Acrocerauni, alti e aspri che sembravano sorgere dal mare, vicini come un miraggio irraggiungibile, eppure reali nonostante si celassero quasi sempre alla vista, schermati dall’umida foschia marina e dal vibratile riverbero solare che l’alimenta. 

Non era ancora suonata l’ora quarta che dal castello si riversò sulla sottostante spianata una processione di uomini guidati da Alcino, impettiti nelle vesti cerimoniali, una mano piegata sulla testa per proteggere i fantasiosi cappelli piumati dalla subdola aggressione del vento. Il solo Porfirio, ostentando il suo stato, indossava un mantello orlato di bianca pelliccia su una tunica finemente lavorata e con fare altezzoso in mezzo ai suoi accompagnatori volgeva lo sguardo a dritta e a manca soffermandolo con compiacimento sui pochi curiosi fermi ai bordi della strada.

La celebrazione del rito era stata oggetto di un aspro scontro tra i chierici della collegiata e don Procopio incaricato dal conte di scongiurare durante la liturgia ogni accenno agli eventi dell’ultimo anno. Don Procopio, in qualità di cappellano di corte, rivendicava a sé il compito, mentre il collegio dei canonici non cedette alle pressioni e mantenne la prerogativa saldamente nelle proprie disponibilità. Il conte costretto a rassegnarsi tremò per questo, perché in ogni imprevisto vedeva un possibile intralcio al perseguimento del fine che lo aveva convinto a quel passo.

Mezz’ora dopo la processione degli ospiti si affacciò fuori dal castello il corteo comitale con al centro la splendida Sofia, sontuosamente vestita e acconciata al braccio del conte padre. Chiunque la vide (e non furono molti come già rilevato in precedenza) se ne rammaricò pensando allo spreco di beltà caduta nelle rozze mani del primo Giganti che non avrebbero saputo che farne, l’avrebbero sgualcita e fatta appassire come un fiore di serra reciso e deposto in un angolo buio.

I timori del conte non si rivelarono del tutto infondati. Nel mezzo della cerimonia quando gli anelli tra gli sposi erano stati scambiati e la promessa solennemente pronunciata, il celebrante si lanciò in un’appassionata omelia celebrativa del sacro istituto della famiglia. “Niente di cui preoccuparsi”, pensò il conte, e con lui analoghi pensieri formularono i suoi figli e il cappellano, mentre l’oratore si avviava verso la conclusione. Ma poiché, come ben sappiamo, in cauda venenum, la puntura dello scorpione arrivò fulminea e mortale, portata da queste chiare e inequivocabili frasi con cui il celebrante congedò il suo discorso:

«…Voglia il Signore, quindi, che la formazione della nuova famiglia, di cui oggi poniamo la prima pietra, non sia solo un contratto suggellato per porre fine a una contesa dinastica. Confidiamo che sia il baluardo di un rinnovato patto tra il sofferente popolo di Leuternia e i suoi reggitori, i vecchi e i nuovi: un patto informato a criteri di giustizia, libertà e umanità. Preghiamo perché così sia!».

Il conte a quelle parole sobbalzò in preda a una furia impotente. Sobbalzarono anche i Giganti e Porfirio, perfido, sussurrò all’orecchio di Sofia: «Metteremo in riga anche i monaci».

E intanto si meravigliava dell’arroganza dell’oratore e della presunta tolleranza del futuro suocero. “Sotto il mio tallone – pensava – non ci sarà tolleranza; tutti dovranno aver paura dei loro stessi pensieri e dei desideri contrari ai miei voleri, se oseranno pronunciare parole che li esprimono li immobilizzerà il terrore della mia punizione”.

Un programma terribile che preparava tempi ancora più bui per la contea, che gli eventi successivi s’incaricheranno di scongiurare.

La perfidia di Porfirio andò ancora oltre gli spietati pensieri e le arroganti parole sussurrate a Sofia. Egli non resistette allo sconveniente impulso di ripeterle al conte, il quale con fredda determinazione rispose:

«Ricorda che mi devi obbedienza come vassallo e altrettanta me ne dovrai come genero. Per te non è ancora tempo di spadroneggiare su questa contea», mentre gli balenavano nell’occhio della mente immagini del giorno dopo, immagini che aveva già accarezzato innumerevoli volte.

Porfirio non replicò, si limitò ad eseguire un ossequio esagerato e ad allontanarsi con un eloquente ghigno di supponenza stampato sul viso.

Il programma dei festeggiamenti seguì il suo corso senza riservare soddisfazioni di sorta né all’uno né all’altro. Semmai fu Porfirio a confermarsi nelle convinzioni esposte al conte, e da questi ascoltate con freddezza e arginate con acrimonia, quando iniziarono a diffondersi le voci sull’affluenza popolare alla mensa apparecchiata in piazza. Certo, il vento e il freddo non invitavano a sostare all’aperto, ma non fu per quelle ragioni che le attese andarono deluse. Il popolo di Leuternia aveva risposto solidalmente all’incitamento alla tacita protesta, in pochi avevano approfittato della munificenza pelosa del conte, quando in altri tempi sarebbe stata un’occasione di festa senza pari. Le marmitte colme di zuppa di legumi e le tinozze pressate di pesce marinato allo scapece, le ceste traboccanti di fragrante pane d’orzo e le generose botti di vino furono appena intaccate dalle ricolme gavette dei pochi disperati spinti dalla fame ad accostarsi a quella mensa invisa alla gran parte del popolo leuterno.

Finì tutto in gran fretta, anche il pranzo riservato ai signori del castello e ai loro ospiti; né, com’era stato previsto, i commensali si attardarono in conversari e passeggiate sui bastioni per ammirare il limpido tramonto che avrebbe fatto sfoggio di sé lungo la sottile linea di costa del capo Japigio. 

 

 

 

 

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