Damiano, di ritorno da un’ambasceria presso il duca di Bari, è riconosciuto e fatto prigioniero dagli uomini del conte Patruno. Il fallito tentativo di liberarlo causa la cattura di Ignazio. I due prigionieri sono segregati nelle segrete del castello di Leuternia, torturati e giustiziati. Qualche tempo dopo la morte dei due alfieri della rivolta si manifesta il fenomeno della fonte sulfurea.
Capitolo diciannovesimo
I corpi de li carcirati, cu le mazzare ‘mpise alli razzi e alli pedi, li jentulisciara intra alla crutta Ferrata e li llassara cu se sponzane all’acqua de mare. U currente li sbattiu de quai e de ddhrai sulli cuti pizzuti ca li scuartavane tutti li carni e ne faciane mangime pe’ li pisci ca se ne bbinchiara senza ritegnu. Ddoi settimane dopu de a crutta ssiu ddhra scomareddhra janca ca mmurbau a città de Leuternia e tuttu lu circondariu.
Strana è la vita, imprevedibili le vicende che si rincorrono e si accavallano nel suo incedere, e in mezzo ad esse, come una barca sballottata nella tempesta dalle forze cieche e inconsapevoli del vento e delle onde a cui è impossibile opporre resistenza, gli uomini. Potenti o reietti, forti o deboli, ricchi o poveri, superbi o umili, non fa differenza di fronte all’imponderabile; anche se i forti ricchi potenti superbi ecc. credono di poter dominare gli eventi, di indirizzarli a loro vantaggio, e qualche volta ci riescono, non sempre, e anche quando ci riescono il merito è solo parziale. Il resto è il Fato o il Destino o le Parche. Come se da qualche parte, in un libro custodito dagli dei fosse già tutto scritto e ogni umano sforzo fosse vano e ogni azione dettata dal desiderio di sopravvivenza o di ricchezza o di onori o di giustizia altro non fosse che una lenta, inconsapevole marcia di avvicinamento lungo la strada tracciata nel libro del destino.
O è il capriccio degli dei a indirizzare gli eventi?
Gli dei, annoiati nella loro solitudine beata, si divertono a complicare l’esistenza degli esseri umani, cambiano il corso degli eventi e per qualche tempo ne godono osservandone con indolente compiacimento le evoluzioni. Poi se ne disinteressano fino alla prossima noia. E se qualche umano nella sua tracotanza sopravvaluta le proprie forze e vuole farsi artefice del proprio destino, gli dei lo puniscono e ne mortificano l’orgoglio arrogante.
Ma forse il mio pensiero è blasfemo, pecco a pensarlo e a non ricordare che il Dio della nostra religione ha elargito agli uomini il dono del libero arbitrio, lasciando che ciascuno sia artefice della propria sorte. Allora è il caso, la combinazione imprevedibile delle scelte dei singoli attori sul palcoscenico della vita a decidere i destini degli uomini?
A giudicare dagli sviluppi della lotta per la libertà del popolo di Leuternia c’è da credere che fu proprio il caso a deciderne l’esito.
Tra le decisioni che influirono vi fu quella del duca di Bari, il cui ruolo era tenuto sotto traccia per volontà dell’egumeno di Casole. Il duca aveva aderito controvoglia all’invito del monaco che lo impegnava a prestare il suo intervento a sostegno della causa popolare qualora le sorti della contesa avessero favorito i Giganti. A toglierlo d’impiccio era intervenuta, con sua malcelata soddisfazione, la soluzione della controversia dinastica tra il conte Patruno e i gemelli Giganti, ora visconti. Non che il suo disimpegno fosse giustificato da una qualche clausola dell’accordo con il monaco, ma per la supposta (e non provata) impossibilità di prevalere contro le due forze nobiliari riunite. I monaci avevano inviato al duca un’ambasceria, alla quale si era aggregato Damiano, e neanche questa fu una scelta priva di conseguenze.
Perché Damiano aveva voluto far parte dell’ambasceria? Egli, pur conoscendo la giustificazione fittizia, non aveva argomenti convincenti per far desistere il duca dalla sua decisione, né la presenza gli era stata richiesta dai monaci, che anzi lo avevano sconsigliato. I monaci di Casole argomenti convincenti ne avevano e sapevano anche farli valere, ma non avevano messo in conto la nobiliare suscettibilità del duca, indispettito dall’indesiderata presenza del ribelle contestatore dell’autorità feudale costituita.
Ritroviamo, dunque, l’alfiere della libertà di Leuternia alla corte del duca di Bari, in un’appassionata perorazione delle istanze popolari.
Egli, che pure aveva esperienza diplomatica e conosceva l’arte della persuasione, non si rese conto che nel confronto con il duca c’era un di più di ethos (etica) da parte sua e un grave difetto di pathos (emotività) da parte del duca. Il duca era capace di emozionarsi, non era insensibile e alieno ai sentimenti, ma in lui la difesa dell’ordine costituito (Chiesa e Imperatore, con una propensione per la supremazia della Chiesa che garantiva maggiore autonomia e libertà d’azione) prevaleva sugli interessi del popolo e le ragioni del suo benessere. Così, quando Damiano pronunciò questa frase:
«Il popolo di Leuternia soffre nel corpo e nello spirito l’arroganza e l’insipienza del conte Patruno e ciò giustifica la reazione contro il tiranno. Ribellarsi è un suo inderogabile diritto», il duca la ignorò e rivolto al rappresentante dell’egumeno di Casole disse:
«Il mio ducato sostiene il diritto e gli interessi dell’abbazia, i quali non sono conculcati dal conte Patruno. Se i Giganti tenteranno di violarli onorerò il sacro impegno che mi lega a Casole».
Le parole del duca furono fonte di grande imbarazzo per il monaco ambasciatore, il quale in presenza di Damiano non poteva esporre i suoi argomenti di persuasione, molto terreni e poco spirituali, e probabilmente, ma questo non è dato saperlo con certezza, difficili da condividere da parte di Damiano e dei suoi amici. Quindi si limitò ad una risposta di circostanza, riservandosi di rinviare l’esposizione delle intenzioni dell’Abbazia a un successivo incontro riservato.
«Gli interessi della Chiesa sono anche gli interessi del suo popolo. Noi preghiamo perché lo Spirito Santo illumini e guidi le vostre decisione e vi riveli la strada maestra della verità», disse il monaco, poi volto lo sguardo su Damiano aggiunse:
«Figliolo, comprendiamo la vostra impazienza. Il duca si duole della triste situazione della contea di Leuternia e non lesinerà il suo aiuto, ma se voi pensate a un suo impegno diretto nel conflitto, questo al momento è impossibile».
Le parole del monaco, incombenti sulla sala come un soffio ghiacciato di borea, congelarono le speranze di Damiano. Un brivido gli percorse la schiena. Non era di freddo, forse di paura, accompagnato da immagini di sofferenza e dalla consapevolezza che la lotta per la libertà avrebbe incontrato difficoltà ulteriori, che la retromarcia del duca, combinata con il cambio di campo dei Giganti, sopravanzavano a usura l’acquisito sostegno di Alcide. Furono la forza evocativa delle immagini e la sensazione di paura a suggerirgli le parole che dichiararono l’insuccesso dell’ambasceria:
«Il popolo di Leuternia – disse – non si arrenderà all’evidenza dei fatti; a volte è necessario il martirio per testimoniare le idee e alimentare la speranza. Se tanto ci è richiesto ci prepariamo ad affrontarlo con fermezza».
Le pronunciò con rassegnazione, come se parlasse a se stesso, ed era ben conscio della caduta di un ulteriore velo sul palcoscenico della rappresentazione del potere signorile. Si era fidato dell’egumeno di Casole e sapeva della sua leale disponibilità, ma erano le logiche del potere a insospettirlo, da sempre.
Duchi, conti e marchesi sono sempre pronti ad allargare la loro zona d’influenza, ad accrescere il loro potere; a volte si fanno la guerra col pretesto di ristabilire qualche diritto violato, come nel caso dell’attuale gigantomachia. Pronti ad approfittare delle disgrazie di qualche vicino, non sono mai in disaccordo quando in discussione è il ruolo della casta, quando il popolo cerca di alzare la testa per rivendicare il diritto all’autogoverno. Canis canem non est (cane non mangia cane) dice la saggezza popolare, fin dagli antichi tempi, ed è vero. Il comportamento del duca di Bari ne è l’ennesima prova. Agirebbe contro i Giganti, ma non contro il conte in soccorso ai cittadini: negherebbe se stesso e la sua funzione, ed è concetto lontano dal comune pensare del duca e dei suoi pari.
Quando un emissario dell’egumeno gli aveva comunicato l’impegno del duca, Damiano aveva sperato, ora si ricredeva e gravato dalla delusione si congedò dal duca dopo aver chiacchierato senza costrutto sulle prospettive della contesa.
La delusione per l’esito dell’ambasceria portò Damiano a commettere un secondo, imperdonabile errore. Decise di partire dal castello di Balsignano per rientrare a Leuternia senza attendere prudentemente, travestito da monaco anch’esso, la compagnia degli ambasciatori casoliani. Partì accompagnato da due fidi compagni e mal gliene incolse.
Era un uomo prudente e riflessivo nelle vicende della vita, mentre la vicenda che lo vedeva impegnato in quel periodo senza lesinare tempo ed energie era cosa diversa dalla sua vita di prima. E non solo, era questione complicata che non si esauriva nell’elaborare e confrontare concetti e teorie e idee per comprendere gli uomini e il mondo, le azioni compiute dagli uomini e le loro credenze o le aspirazioni o gli intrighi o gli scopi della vita. Per solcare il mare della sua vita precedente, fatta di studi e di meditazione, di cauta gestione degli affari di famiglia, erano sufficienti la logica il rigore morale una buona dose di sagace avvedutezza; le vele spinte da quelle sane virtù come da un vento costante e benigno consentivano una navigazione tranquilla. Se, in qualche occasione, atteggiamenti incauti o sproporzionati sollevavano reazioni non volute, folate di venti sostenuti e irregolari, si trattava pur sempre di vicende governabili i cui effetti potevano essere assorbiti con il minimo danno, mantenendo la rotta, l’integrità delle vele e dello scafo, non cambiavano la sua vita in un pelago vasto e profondo, in una navigazione perigliosa, esposta al furore delle tempeste e ai naufragi.
Nella sua seconda vita, quella di uomo d’azione e d’armi, le virtù che lo avevano accompagnato fin lì non erano più sufficienti. E non bastava neanche il coraggio, di cui era pure provvisto, che in qualche occasione gli aveva fatto dimenticare la prudenza, da sempre compagna fidata di chi per mestiere affronta il pericolo.
Ma questo era il punto: lui non si sentì mai, non poteva esserlo e non voleva esserlo, un uomo d’armi. Si era ritrovato alla guida di una rivolta quasi senza volerlo, per spontanea germinazione si direbbe, perché quando predichi un’idea e infiammi gli animi degli ascoltatori, i quali riconoscono nelle tue parole il riflesso della loro condizione umiliata e nella strada che indichi intravedono una speranza e una possibilità di riscatto, devi essere anche disposto a percorrerla fino in fondo quella strada, marciando alla testa del gruppo. Così era stato, e al fianco di Ignazio e di Alcide aveva affinato le virtù del comando, aveva appreso le tecniche della guerra per bande, approfondito le questioni di strategia nelle quali primeggiava grazie al suo acume logico e alla conoscenza dell’animo umano.
Ciononostante, la delusione che macerava il suo animo quando cadde la maschera dal viso del duca e gli si presentò nella nuda e fredda versione di inutile esponente di un potere screditato e sordo, avvinghiato ai privilegi garantiti dalla violenza: quella delusione cocente e premonitrice gli fece smarrire la consueta prudenza consegnandolo inerme in potere di quella stessa violenza per la seconda volta nel breve periodo di qualche stagione.
Accadde, infatti, che sulle infide strade di Leuternia, andando per carrarecce sconnesse, a buon motivo ritenute meno perigliose delle strade maestre, s’imbatté in un nutrito drappello di armigeri del conte. Damiano e i suoi compagni alla vista del possibile pericolo, essendo preclusa ogni possibilità di fuga, si fermarono al lato della strada per lasciare il passo ai cavalieri al galoppo. Le probabilità che fossero riconosciuti erano minime, rimasero tranquilli e in fiduciosa attesa. Il drappello si fermò e il comandante chiese con tono inquisitorio:
«Chi siete? Quali motivi vi portano per quest’insolita strada?»
Un compagno di Damiano si apprestava a rispondere, quando dal folto del gruppo si levarono una voce e un indice accusatore: «Comandante, quell’uomo è Damiano Polifemo», che decisero il destino dell’uomo segnato a dito e dei suoi due compagni.
Era stato il caso a condurre i soldati sulla strada di Damiano? O la coincidenza era stata instradata dal sussurro di uno spiffero canaglia volato veloce dal castello di Balsignano fino alle orecchie del conte Patruno?
Alla delusione che lo aveva gravato fino a quel momento si aggiungeva anche il sospetto: la muta e fredda immagine del duca, effigie eterna del potere senz’anima, gli si parava dinnanzi beffarda, come per ricordargli ch’era vano agitarsi, che non si poteva sfidare impunemente l’ordine costituito, la sovranità unta dalla benedizione divina. Tale si riteneva, quando nella realtà era insudiciata dalle tentazioni diaboliche, dalle promesse di ricchezza e di gloria di Mammona.
La cattura di Damiano inferse un colpo mortale allo schieramento popolare. Con lui veniva a mancare la mente politica e la guida morale, si disperdeva quel patrimonio di relazioni e di legami che lo teneva unito e lo indirizzava su obiettivi il cui compimento era contemplato dalla consuetudine, dal patto originario tra i depositari del potere e il popolo sovrano. Perché era il popolo, anche se spesso i re e i loro delegati se ne dimenticavano, il titolare della sovranità, delegata per esigenze pratiche e amministrative.
Come la gallina a cui è stata mozzata la testa e per l’imperizia del suo carnefice continua a scorrazzare per l’aia prima di accasciarsi priva di vita con un ultimo sussulto d’ali, così il movimento popolare, nonostante non ne fosse stata intaccata la forza militare, si smarrì e continuò a girare a vuoto. Per iniziativa di Ignazio fu organizzato un rapido consulto tra i capi militari e gli esponenti popolari più influenti e nell’incertezza della situazione si decise un’incursione per tentare la liberazione del prigioniero. La scelta sembrava praticabile senza gran rischio a ragione del luogo di detenzione, una masseria fortificata difesa da una guarnigione non molto numerosa. L’incarico fu affidato a Ignazio che avrebbe agito di sorpresa alla guida di un reparto di uomini scelti, mentre Alcide avrebbe attuato un’azione diversiva con un attacco in forze ad un casale strategicamente importante e ben difeso dalle guardie del conte.
Il piano era ben congegnato ma, come qualche volta accade, le azioni semplici si complicano per l’intervento di variabili impreviste: il caso, l’imperizia, gli errori di valutazione o, così accadde in detta occasione, a causa della scaltra abilità dell’avversario.
Il piano dei Patruno, di cui s’incaricò Cocidio, è da scommetterci che non fosse farina del suo mulino, troppo sofisticato e scaltro per essere partorito dalla logica lineare del giovane rampollo. Il mulino era quello di Sofia che macinava farina fine e, nell’attesa di risolvere l’irricevibile pretesa di Porfirio, si arrovellava sulle strategie più opportune per farlo.
Damiano dunque era imprigionato in una masseria isolata nelle campagne impaludate a ovest dei laghi Limeni ed era a torto ritenuta sguarnita di sufficienti difese. In realtà, questo il suggerimento di Sofia, sul posto si concentrarono alla spicciolata tutti gli uomini di Cocidio con il preciso scopo di sopraffare gli attaccanti ed eliminare o farne prigionieri i capi. Cocidio sperava che fosse Alcide a guidarli, per averne il risarcimento del tradimento, l’appagamento del trionfo. Dovette accontentarsi di Ignazio il quale, nonostante la strenua resistenza, ferito e circondato, capitolò nell’impari confronto e raggiunse Damiano nella torre della masseria, spettatore impotente e preoccupato dell’infausto succedersi degli eventi.
«Scusami per averti deluso, amico mio».
Ignazio si presentò con umili frasi di scusa per non essere riuscito nell’intento. Ma era lui a essere in credito, coinvolto in quell’avventura dall’amore per gli uomini, non da materiali interessi, dalla ricerca di gloria e ricchezze. Quale fu la ricompensa della sua generosità? Un soffrire silenzioso e intenso e un profondo sentire che persino nella tortura sa scorgere la propria segreta ricompensa, trionfando sulla morte e della morte facendo una vittoria.
«Non dovevate preoccuparvi per me. In qualche modo ne sarei venuto fuori…», rispose Damiano, riconoscente con l’amico per l’azione generosa e le indebite scuse che semmai avrebbero dovuto viaggiare in senso inverso.
Come avrebbe potuto sfuggire alla vendetta del conte?
«…Sarebbe stato più utile informare l’egumeno di Casole e pregarlo di intervenire con i suoi buoni uffici».
Sarebbe stata una strada percorribile se solo si fosse premurato di spianarla per tempo. Non lo aveva fatto con i monaci, né aveva messo a parte i suoi compagni. Ora nessuno ci avrebbe pensato. Forse il notaro Rizzo che aveva dimestichezza con l’abbazia; forse ci avrebbe pensato lo stesso egumeno. Magari Alcide si sarebbe inventato qualcosa per tirarli fuori.
Andò proprio come aveva pensato. Giovanni Rizzo conosciuto l’esito del generoso tentativo di Ignazio si fece portavoce presso l’Abbazia per invocarne la liberazione in cambio di un congruo riscatto e la contemporanea liberazione di alcuni eccellenti prigionieri dei ribelli.
Fu lo stesso egumeno a far visita al conte Patruno per impetrare clemenza per un figlio di Casole e il suo amico.
La risposta di Teo fu sprezzante:
«Se i figli di Casole hanno in odio l’autorità legittima che li governa, non c’è perdono per loro né clemenza».
«Il perdono è gradito al Signore. Egli rimette i peccati ai peccatori e apre loro le porte del Paradiso. Tanto può anche il cuore dell’uomo generose e il suo gesto è benedetto sulla terra e nella sfera celeste più alta e luminosa», disse l’egumeno con umiltà e devozione, attendendosi qualche reazione positiva da parte del conte. Il quale si dimostrò irremovibile e sordo al richiamo della religione. Il Paradiso per lui era sulla terra e l’Inferno una remota possibilità, alla quale non sarebbe scappato per i tanti peccati di cui il suo cammino terreno era costellato.
«Il perdono e la clemenza negli affari di Stato sono come il tradimento, portano alla rovina. Non posso permettere, non me lo perdonerebbero né in terra né in cielo, che la mia debolezza demolisca le fondamenta sulle quali è costruita la nostra civiltà», disse il conte, quasi fosse il perno dell’impero e dalla sua determinazione ne dipendessero le sorti.
Il colloquio terminò con una minaccia di Teo all’Abbazia e ai monaci basiliani che presidiavano con i loro cenobi rupestri la religione di una buona parte del territorio rurale della contea:
«I vostri monaci, reverendo padre, sono fonte di grandi preoccupazioni per la religione e per lo stato, non vorrei essere costretto a chiederne al vescovo l’allontanamento».
Damiano e Ignazio, che per vie traverse e intricate erano stati informati del tentativo e anche del suo fallimento, per ragioni di sicurezza erano stati trasferiti in una prigione più sicura e infine nel castello di Leuternia, nelle stesse segrete in cui si era consumata la prima detenzione.
Quando vi furono segregati, le speranze coltivate fino ad allora cedettero alla sfiducia e alla rassegnazione.
«Questa volta Alcide non riuscirà a beffare il conte», aveva detto Ignazio in un momento di sconforto.
«Speriamo che non ceda alla tentazione di sfidare la sorte…», e la frase gli s’impigliò nella gola, perché sapeva che, caduta quella speranza, per loro sarebbe stata la fine certa. E i pensieri di Damiano, e anche quelli di Ignazio andarono agli affetti familiari che lasciavano nelle rispettive case.
Poi parlarono a lungo di quegli affetti e delle loro vite, ripercorsero i momenti più belli e anche i giorni difficili vissuti con determinazione e speranza. Un racconto lungo, che li impegnò per molti giorni. A volte interrompevano quel racconto e ne riprendevano un altro, che Damiano aveva iniziato il giorno in cui parlando di Alcide gli si era impigliato in gola quello spezzone di frase, il cui contenuto era pressappoco questo:
«Adesso le sorti della libertà di Leuternia sono tutte nelle sue mani».
E Ignazio, come per rassicurare l’amico, aveva aggiunto:
«Sono mani grandi e forti, non è suo costume lasciare incompiute le sue fatiche».
Mentre i due prigionieri svolgevano i rotoli delle loro vite, qualche piano più in alto se ne decideva la sorte e fu una sorte atroce. Prima furono torturati per estorcer loro informazioni sui sostenitori della rivolta, quindi furono colpiti a morte con lugubre soddisfazione da Cocidio, il cui ghigno beffardo accompagnava parole incomprensibili biascicate con risentimento.
I loro corpi agonizzanti, mazzerati da pesanti pietre, furono sprofondati nella botola sovrastante un’ampia camera della grotta Ferrata e lì lasciati a macerare nelle acque salmastre, orrido pasto degli ignari abitatori del mare, esposti al rifluire delle maree, lacerati dagli scogli duri e aguzzi che ne cingono il perimetro e il fondale.
Dopo due settimane da quell’orribile scempio si manifestò il fenomeno sulfureo che aveva ammorbato la città di Leuternia e il suo circondario.
Le mani in cui Damiano e Ignazio avevano riposto le speranze della liberazione della contea erano legate. Non per aver perso la libertà, per l’impossibilità di agire susseguente al fallito assalto alla masseria.
Alcide con i suoi uomini il giorno precedente, per distrarre le attenzioni dell’avversario, aveva ingaggiato un aspro scontro con la guarnigione di stanza nel casale di Casaranello: un mordi e fuggi, attacchi a ripetizione da più direzioni. Durò tre giorni, fino all’arrivo della ferale notizia dalla masseria-prigione. Arrivò il messo e di lì a poco i rinforzi nemici. Alcide, che stava già ripiegando, fu intercettato dagli uomini di Porfirio e impegnato in uno scontro sanguinoso dal quale riuscì a sganciarsi con difficoltà. A quel punto, essendogli preclusa la strada del rientro verso le zone controllate dai popolari, fu costretto a sconfinare nella vicina contea di Nardò dove attese notizie prima di organizzare il rientro.
Le notizie che lo raggiunsero non furono incoraggianti. L’esercito popolare si era di fatto sciolto e da quel momento il sogno di una Leuternia libera e democratica fu solo il ricordo di quanti per realizzarlo avevano impegnato se stessi, l’intelligenza e la volontà, il tempo, le forze e gli averi. Fu anche il ricordo delle vite che si erano spente per realizzarlo, che i familiari e gli amici coltivarono nei loro cuori e che tramandarono ai posteri come esempi fulgidi di umanità e di civismo.
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