martedì 2 maggio 2023

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

 

Dopo la diserzione di Alcide, Teo Patruno, conscio del pericolo mortale rappresentato dalla nuova situazione, accetta l’alleanza con i Gigante e li associa al potere. I Giganti esultano e progettano nuove strategie fraudolente a danno del conte. Intenti altrettanto equivoci sono coltivati dalla famaglia comitale. I contenuti e gli effetti dell’accordo. Nel frattempo le tre brigate di partigiani del popolo di Leuternia marciano sulla contea ignari dei recente sviluppi. 

 

Capitolo diciottesimo

 È tiempu de parlare de comu Cocidiu tradiu Alcide, frate sou e puru capitanu de la cuerra contru li Giacanti. Era nnu pinzieri ca li era trasutu ‘ncapu de u primu giurnu ca Sufia hia ‘ncuminciatu a muntuare lu nome de Alcide e ‘nci pinzau finu allu ggiurnu ca li Giacanti la secuestrarene. Rrivati a ddhru puntu, i pinzamenti ca prima li erane paruti strausi li parera ‘nduvinati e se dicise all’attu.

 

«Vi siete lasciato ingannare dal sentimento, padre».

Cocidio tratteneva a stento l’ira da cui era stato travolto alla notizia della fuga dei prigionieri. Dopo il trambusto della scoperta e le sommarie indagini che non erano approdate a nulla se non alla constatazione dell’assenza, era venuto il momento del chiarimento. Lo aveva chiesto con petulanza Cocidio, contrario fin dall’inizio a ricorrere ai servigi di Alcide, per rivalersi della miopia di Sofia e dello stesso conte che sì tanto la teneva in pregio.

«Dalle necessità, Cocidio, non dal sentimento. Chi ha responsabilità di governo non può lasciarsi travolgere dalle passioni, le sopisce e si adopra consigliato dalla ragion di Stato», rispose Teo, tra l’irritato e il didascalico. Era irritato per l’impudenza del figlio che si ergeva a giudice del suo comportamento, ma lo era ancor di più per il tradimento di Alcide. Non lo era con se stesso, come avrebbe dovuto, limitato dal narcisismo e dalla presunzione che lo possedevano.

Cocidio non perse l’occasione per ricordarglielo e inchiodarlo alle sue responsabilità: «Avete confidato che il rispetto di un figlio, seppure di un figlio bastardo, prevalesse sulla solida amicizia che lega fraternamente Alcide e Ignazio», disse, calcando il tono e l’espressione sui termini “figlio” e, soprattutto, “bastardo” che volevano rivendicare la propria posizione di “figlio legittimo” e quindi di unico legittimato a stargli affianco.

«Ora basta, Cocidio, non aggravare la pena e non disperiamo. Se Alcide, pagato il debito dell’amicizia, consigliasse Ignazio a ritirarsi dalla lotta e tornasse a combattere con noi, sarebbe un grande vantaggio», rispose Teo ingenuamente speranzoso, scosso dall’accusa del figlio.

L’aveva coltivata, allora, quella speranza! Non era stata la fiammella accesa dalla missiva di Alcide, presto spenta, peraltro, dopo averne letto qualche rigo. Sperare nella lealtà filiale di Alcide era stata solo ingenuità o c’era dell’altro? E cos’altro poteva dargli fiducia? Saperlo è impossibile perché, come Alcide ha imparato e Damiano ha sperimentato nei lunghi anni successivi al suo ritorno a Leuternia, l’anima di Teo era impenetrabile, se un’anima ce l’aveva, se non se n’era disfatto in un patto col diavolo per averne potere e ricchezza.

Cocidio, nonostante il richiamo paterno, non si lasciò sfuggire l’occasione, era troppo ghiotta per desistere. Teo che parlava di pena e che invitava a non disperare non poteva sopportarlo, andava oltre la sua comprensione, sollecitava risposte caustiche, irrispettose, come questa:

«Voi avete pena per il vostro bastardo? A me siete voi, padre, a far pena se ponete ancora fiducia nella sua lealtà. Eppure eravate stato avvisato e non avete preso alcuna cautela».

Due volte era stato avvisato. Dallo stesso Cocidio in occasione della messinscena dell’impiccagione; una supposizione che aveva colto nel segno, accantonata come il frutto di un risentimento. Fu così anche per l’informazione proveniente dai Giganti.

Teo non sopportò che gli fosse ricordata la sua leggerezza. D’altronde, pensava, “Chi avrebbe mai immaginato un’operazione del genere all’interno del castello?” 

Irritato dalla supponenza del figlio, rispose con tono minaccioso: «Basta così, Cocidio, non osare oltre o sarò costretto ad allontanarti da me».

Cocidio non insistette e si congedò con un’ultima battuta al veleno: «Parto per un’altra campagna, padre, vado a combattere i nostri nemici. È questa la speranza ch’io coltivo», lasciando Teo a sbollire la rabbia per la sua impertinenza.

Il contrattempo che più indisponeva Cocidio non riguardava il disinganno di suo padre che aveva dovuto prendere atto di una realtà diversa da quella immaginata, quanto l’impossibilità di attuare il piano da lui escogitato a danno di Alcide. Lo aveva impedito l’incursione di Polisano e il cambio di programma conseguente al ritorno a Leuternia di Alcide, richiamato dalla cattura dell’amico. Cocidio si era più volte rimproverato per non averne compreso la ragione e le finalità. Aveva ipotizzato un suo intervento presso il conte per rimetterlo in libertà, magari con l’impegno ad abbandonare la contesa; mai avrebbe pensato a un’azione di forza per liberarlo. Invece Alcide aveva ignorato l’evento ed era stato cordiale con Teo nelle sporadiche occasioni in cui si erano incontrati, ragguagliandolo sull’andamento delle operazioni militari che, in pratica, gli disse: «Sono in una fase di stallo, della quale non so darmi conto». Non riusciva a comprendere per quali motivi i Giganti le avessero di fatto sospese e rimanevano rintanati nei loro acquartieramenti. A quel punto aveva pensato di prendersi qualche giorno di riposo per inseguire i capricci del cuore invaghito delle belle forme e degli ardenti occhi neri di una donzella sensibile al suo fascino o forse solo al mito del cavaliere invitto.

Ma poiché, come dice il proverbio: “La molta cortesia, fa temere che inganno ci sia”, lui, Cocidio, avrebbe dovuto stare in campana. Ma in campana non era stato, si era chiuso nel suo rancore indispettito, aveva coltivato un’ira smodata, esplosa a cose fatte, quando ormai non si poteva porre rimedio.

Gli dei, a volte, sono beffardi e non hanno pietà, Cocidio, e i loro inganni sono feroci.

Egli con l’inganno aveva cercato di perdere Alcide, gettandolo in pasto agli appetiti dei Giganti, ma poiché come non di rado accade: “chi scava la fossa agli altri, rischia di cadervi dentro egli stesso”, il povero e iracondo Cocidio fu vittima dell’inganno di Alcide, doloroso e andato a buon fine senza colpo ferire.

E adesso, dopo averlo annunciato, è venuto il momento di entrare nei dettagli del temerario tentativo messo in atto da Cocidio contro l’ignaro Alcide, suo fratello e compagno d’armi.

Ci aveva pensato fin dal giorno del suo arrivo. Aveva esplorato numerose possibilità, nessuna era praticabile, vicoli ciechi che non portavano a niente. Fino al giorno del rapimento di Sofia. A quel punto l’impensabile non fu più tale.

Incontrò Porfirio nell’ambito dei parlamenti connessi alla proposta di pacificazione, ma in verità se ne disinteressò per dar corso al suo turpe proposito. 

«Sofia per Alcide», prospettò a un incredulo Porfirio che si aspettava tutt’altra proposta.

«La nostra richiesta era un atto di pacificazione, su quella vorremmo una vostra risposta. Se l’intenzione di Teo è renderci complici e strumenti di un tradimento, quale vantaggio ne avremmo?», disse Porfirio, rimasto spiazzato e incredulo di fronte alla disinvoltura di Cocidio e, riteneva, del conte suo padre. Egli temeva un raggiro, una trappola, e rimase sulla difensiva, in attesa.

«La questione da voi posta rimane in campo, a breve il conte vi darà una risposta. Lo scambio sono io a proporlo e vorrei che restasse un affare segreto del quale nulla dovrà sapere Sofia, tantomeno il conte».

Porfirio intuì qualcosa, le ragioni che avevano mosso Cocidio a rivoltarsi contro il fratello, e cercò di volgerle a proprio favore. Rispose alzando la posta: «Se il vostro problema è la concorrenza di Alcide e volete liberarvene con il nostro intervento, allora lo scambio non è tra Sofia e Alcide, ma tra Alcide e il servizio che vi rendiamo. Sofia ne sta fuori».

Il pigro e rudimentale inferire di Porfirio intravedeva una possibilità insperata: eliminare Alcide, indebolire il conte Patruno e usare Sofia come merce di scambio per ottenere contropartite più sostanziose dal conte. O addirittura il suo abbattimento e l’insediamento sullo scranno comitale di Leuternia.

Pensieri dello stesso tipo balenarono anche nella testa di Cocidio. Si sarebbe liberato di Alcide e di Sofia allo stesso tempo. La controproposta di Porfirio semplificava i suoi piani, due piccioni con una fava; poi, sfruttando l’irritazione di Teo contro i Giganti, avrebbe brigato per spingerlo a non sottostare alle loro pretese e a continuare la guerra fino alla vittoria finale.

Contrattarono ancora un po’: tira di qua, molla di là, fino a quando, assicuratasi la complicità e l’omertà della controparte, Cocidio espose il piano ideato per il sacrificio di Alcide.

Analizziamola, allora, l’alzata d’ingegno di Cocidio, che non era né volpe né leone e che per un giorno, tradendo la sua stessa carne, volle farsi stratega di una battaglia che alla fine avrebbe finito per indebolire la sua parte e mettere a rischio le sue stesse aspettative.

Poiché, come sappiamo, compito esclusivo di Alcide era la lotta senza quartiere ai Giganti, Cocidio lo avrebbe informato di uno spostamento della compagnia di Porfirio verso un acquartieramento più avanzato all’interno della contea e gli avrebbe proposto di attaccarlo da due direzioni diverse in modo da chiuderlo in una morsa da cui sarebbe stato difficile sganciarsi. A questo punto subentrava l’inganno. La colonna guidata da Cocidio, che avrebbe dovuto attaccare da est, si sarebbe defilata per lasciare il posto alla compagnia di Alcino che sarebbe intervenuta a sostegno del fratello in modo da capovolgere lo schema della battaglia e di stringere tra due fuochi il malcapitato Alcide, al quale sarebbero state precluse le possibili vie di fuga.

Al termine dell’esposizione con tanto di mappe e di movimenti di eserciti, disse: «Ve lo consegno su un vassoio d’argento, a voi l’onore di una vittoria che sarà ricordata nel tempo».

La possibile vittoria dei Giganti non dichiarava soltanto la sconfitta e la morte di Alcide, contemplava anche la sconfitta di Cocidio e con essa il suicidio della dinastia dei conti Patruno.

Come poteva Cocidio sperare che, eliminato Alcide, la guerra avrebbe avuto l’esito da lui sperato?

Sovente chi agisce con l’inganno, se le doti di astuzia non sono temperate da perspicacia e accortezza, rischia di essere ingannato a sua volta. Non fu così, ma non certo per merito di Cocidio, direi per colpa (o per merito) di suo padre che, in concomitanza con l’operazione segreta pensata dal figlio, aveva a sua volta ordito il tradimento di Polisano a cui seguirono le inattese vicende narrate nel precedente capitolo.

 Teo intanto, travolto dalle circostanze, si dibatteva in una situazione d’incertezza della quale Cocidio cercò di approfittare. I suoi tentativi furono vani perché, più avveduto di lui, il padre conosceva il valore delle forze in campo e disperava della possibilità di prevalere. E poi c’era di mezzo la vita di Sofia, e se nel cuore di Teo albergava un sentimento di affetto paterno, questo era riservato a lei prim’ancora che a Cocidio. Pensarla nelle mani dei suoi nemici, esposta al loro arbitrio, lo metteva in una tale condizione di avvilimento da impedirgli qualunque altra attività. Le sue giornate trascorrevano lente e indolenti, immerse nella contemplazione solitaria del soffitto dello studiolo privato, a cui alternava svogliate passeggiate sugli spalti, indifferente alla luminosità del mare, al profumo del vento, alle nuvole che rapide o pigre solcavano il cielo sospinte ora dalla brezza ora dai venti tesi di tramontana e di maestrale.

Le altre attività, tipo la cura degli affari della contea o le proteste popolari che la scuotevano, non riuscivano a destarne l’interesse. Fiaccato dall’afflizione dell’impotenza riuscì a liberarsene solo quando, non sopportando oltre lo stallo in cui era inchiodato, con un estremo sforzo di volontà, chiamò a sé Cocidio per comunicargli la sua sofferta decisione. Le insinuazioni e gli strepiti di Cocidio non sortirono effetti, scavarono solo il solco che li divideva.

Cocidio aveva proposto: «Almeno trattate, padre, ponete condizioni, i Giganti non oseranno rivalersi su Sofia, si priverebbero del talismano su cui fanno affidamento».

Teo aveva tranciato di netto la perorazione: «Accetteresti per te il rischio dell’incertezza? O piangeresti la tua disgrazia invocando l’aiuto a qualunque condizione?»

«Il fatto è che voi la preferite a me…».

L’accusa di Cocidio, pronunciata con il tono lamentoso di un bambino capriccioso, rivelava il disagio di un’esistenza incompiuta, vissuta all’ombra di un padre distaccato e insensibile. Forse era la carenza di affetto che gli stava rinfacciando, e forse quella mancanza era anche la causa delle trame contro Alcide e contro Sofia. Qualunque cosa fosse, aveva   modificato il piano del confronto tra i due, aveva introdotto un elemento imponderabile che nessuno dei due sapeva riconoscere e controllare.

L’addebito aveva causato un inconsapevole imbarazzo nel conte, l’irritazione precedente si era sciolta in un dubbio e il dubbio in un gesto di tolleranza e nella frase: «Preferisco avervi ambedue qui con me», che doveva suonare pacificatrice e che, al contrario, confermò la convinzione del figlio e ne inasprì l’animo esasperato.

E l’esasperazione gli mise in bocca la frase tenuta in serbo per impressionarlo: «Allora preparatevi a consegnare la contea ai Giganti. Io me ne andrò in esilio per non avallare il vostro suicidio».

Posto di fronte alla radicale risoluzione del figlio, Teo volle tranquillizzarlo; con calma e una certa condiscendenza, disse: «Non ci consegniamo ai Giganti con le mani legate. Ho in serbo qualche idea che ci farà trionfare, qualunque sia la portata delle concessioni necessarie per concludere l’alleanza», che poteva significare molto, ma anche niente finché restava inespressa e inattuata nella testa del conte.

«Ah, le vostre idee! …la venuta di Alcide, il fidanzamento di Sofia…», fece Cocidio con perfidia, lasciando attonito il conte e riconsegnandolo alle sue incertezze.

 Poteva Teo Patruno accogliere la richiesta di Cocidio? Poteva sacrificare Sofia, la sua fidata consigliera, alle gelosie del figlio? Non cedette. Nonostante le molte incertezze e le tentazioni, trovandosi in una condizione militare di debolezza, si risolse a dar corso all’offerta dei Giganti.

A discutere le clausole dell’accordo pensò d’inviare Cocidio. Nelle sue intenzioni era il tentativo di dimostrargli fiducia e stima, né aveva sottovalutato il risvolto della medaglia: l’umiliazione di affidargli una trattativa alla quale si era opposto. Gli propose l’incarico con molta cautela: «Mi fido solo di te, figlio mio».

Cocidio, sorpreso dall’inattesa proposta, fu attraversato da sensazioni contrapposte, combattuto tra rifiuto sdegnato e tentazione di rivalsa. Si adagiò su una risposta interlocutoria:

«Non ti preoccupa la mia contrarietà all’accordo?»

«Sono certo della tua lealtà e della tua devozione», disse Teo, fiducioso che le resistenze del figlio non sarebbero andate oltre. D’altronde, restando ben custodito il segreto del proditorio incontro con i Giganti, non aveva motivo di dubitare, non lo agitavano sospetti d’infedeltà e tradimenti.

Cocidio si convinse ad accettare.

Istruito a dovere sui limiti delle concessioni e delle richieste, s’incontrò con i gemelli Giganti e nel volgere di pochi giorni di incontri serrati e nel complesso amichevoli, la trattativa fu portata a termine con soddisfazione reciproca. Le richieste dei Giganti si rivelarono meno esose di quanto i Patruno fossero disposti a concedere, cosa che potrebbe suonare strana, considerati i pensieri e i detti che avevano contrassegnato il percorso del confronto; che al contrario, contro ogni aspettativa, conseguiva a necessità e propositi reconditi. La necessità si era materializzata con il passo cadenzato e rumoroso dell’esercito del popolo di Leuternia che ai confini della contea aveva avviato con successo l’attacco al cuore del potere comitale e alle posizioni dei Giganti, e marciava spedito verso l’interno.

Beh, parlare di esercito è forse eccessivo e pomposo. Si trattava di nuclei di armati che, per ognuna delle tre colonne di cui si componeva, non arrivava alle cinquecento unità, numeri destinati probabilmente ad aumentare a seguito della liberazione di casali e borghi, ma fino ad allora definiti e limitati.

Il piccolo esercito, rinforzato dalla presenza di Alcide e dei suoi uomini, aveva comunque allarmato, e non poco, gli altri due contendenti, ora alleati. Li spaventava la possibilità di contare sulla collaborazione di cittadini e braccianti, sull’entusiasmo di molti giovani spinti dagli ideali di giustizia e libertà ad arruolarsi nelle sue fila.

I propositi reconditi di Teo erano impliciti nell’espressione: “Ho in serbo qualche idea che ci farà trionfare ecc.”, pur restando formula astratta e generica, semplice velleità o desiderio.

Qualche idea dello stesso tenore, sottaciuta, inespressa, la coltivavano anche i gemelli Giganti in quella sorta di partita a scacchi senza esclusione di colpi la cui posta era il motivo che li aveva mossi a far guerra ai Patruno.

In realtà i propositi non resteranno pensieri, né desideri; troveranno pratica attuazione in un futuro non lontano, s’incarneranno in azioni, saranno causa e produrranno gli effetti risolutivi che metteranno la parola fine alla gigantomachia in atto. 

 Il patto fu stipulato con soddisfazione reciproca. Le forze in campo furono riequilibrate e l’iniziale contesa triangolare ricondotta all’ordinaria, millenaria contrapposizione tra patrizi e plebei, per riandare allo storico conflitto di epoca romana, che a intervalli irregolari e disordinatamente esplode, ora qui ora là, ogni qualvolta la pressione sulla plebe diventa insopportabile: come quando un cappio troppo stretto intorno al collo rischia di spegnerne il soffio vitale, o il brontolio delle viscere reclama nutrimento e preannuncia la morte per consunzione.

Nel XIV secolo la contesa, a seguito della peste nera che aveva decimato la popolazione europea e distrutto l’economia, si era inasprita oltremodo provocando rivolte popolari diffuse in tutti i paesi del continente.

Era la situazione verificatasi a Leuternia, sovrappostasi a un’annosa questione dinastica e a quel punto ritornata nel suo ordinario ed esclusivo alveo di lotta sociale.

I termini del patto non andavano tanto al di là delle notizie di cui ho già riferito. Qualche casale in più a soddisfare gli appetiti dei visconti Porfirio e Alcino Giganti, insediati nel loro scranno con cerimonie ufficiali e investiture formali che di formale, nel senso della tradizione, avevano ben poco.

Si tennero due cerimonie: Porfirio fu investito nel castello di Ausento; Alcino in quello di Palmarice.

In ambedue i casi, dopo la celebrazione religiosa officiata da don Procopio, il conte Teo Patruno bardato di tutto punto con mantello d’ordinanza e corona cimata da sedici perle, aveva consegnato nelle mani degli investiti la corona e la spada. Le corone erano state forgiate per l’occasione dal fabbro di corte a Leuternia, in ferro, non d’oro gemmato, cordonato ai margini e cimato da quattro perle; le spade erano quelle degli stessi Giganti.

I novelli visconti quando si presentarono davanti al conte non avevano le mani giunte in segno di sottomissione né le posero, come d’uso, nelle sue. In piedi si presentarono e in piedi restarono anche quando avrebbero dovuto inginocchiarsi per ricevere sulla spalla l’imposizione della spada e sulla testa la corona. La cerimonia si concluse con il reciproco abbraccio e non con il previsto bacio sulla bocca. Un cerimoniale sui generis si direbbe, oggetto di serrate discussioni tra le parti, molto più delle questioni territoriali e successorie. I Giganti ne avevano fatto un’irrinunciabile questione di principio, come a significare che non essendoci omaggi e giuramenti di fedeltà (né di mano né di bocca) i visconti non si ritenevano sottoposti al conte bensì loro pari con diritti del tutto autonomi sui feudi ricevuti e nessun obbligo di assistenza, se si esclude l’impegno da entrambi accettato del reciproco soccorso armato in caso di attacchi esterni.

Non ci furono neanche riferimenti agli obblighi morali dei cavalieri investiti. Don Procopio avrebbe voluto, ma sul punto furono d’accordo sia il conte che i novelli visconti. D’altronde, riesce il lettore a immaginare i Giganti che si impegnano a mantenersi fedeli alla parola data, a proteggere i deboli, le vedove e gli orfani, a combattere l’ingiustizia? Li vede dichiarare di volersi mantenere puri di cuore, generosi, dolci, umili e poco chiacchieroni?

La contea, in definitiva, fu divisa in tre autonome entità e con quell’atto si diede avvio ad una nuova fase della lotta.

Ah, dimenticavo. Sofia, dopo l’accordo e prima delle celebrazioni, era stata liberata e aveva fatto ritorno a Leuternia dove era attesa con trepidazione da Teo e da don Procopio, ma non da Cocidio. Il quale, con la scusa di dover fronteggiare le bande popolari che con baldanza e rapidità stavano conquistando importanti posizioni, non partecipò neanche alle cerimonie d’investitura.

 Quando Gualtiero, conte di Leche, venne a conoscenza della gigantesca capriola del conte Patruno non ne fu contento, né poteva restarsene tranquillo. Il suo progetto d’impossessarsi di una parte del territorio di Leuternia, affidato alle armi dei fratelli Giganti, era svanito con il loro insediamento nei feudi confinanti con la sua contea. La situazione era delicata, gli faceva paventare sia l’invadenza dei gemelli, sia il risentimento di Teo.

Per tale ragione si fece promotore di un’iniziativa per riproporre l’alleanza tra conti in origine prospettata da Teo. Gli ambasciatori al seguito di Ugo fecero il tragitto inverso tra Leche e Leuternia portando con sé una conveniente proposta matrimoniale accompagnata dalle scuse di Gualtiero per il precedente rifiuto, dovuto, a sua discolpa, alle arroganti pressioni dei Giganti insediati nella contea contro la sua volontà.

Teo non avrebbe avuto difficoltà ad accettare l’offerta; avrebbe volentieri sorvolato sul precedente rifiuto, simulando di accettare con riluttanza le scuse, tanto per incassare un credito di riconoscenza nei confronti del futuro consuocero. Egli nell’accordo matrimoniale intravedeva, qualora l’insediamento dei Visconti non fosse stato superato dai successivi maneggi, un’ottima possibilità di difesa dalle loro pretese espansionistiche, la cui eventualità non era difficile da prevedere.

La proposta non poté concretizzarsi e Ugo per la seconda volta fu costretto a rinunciare al suo sogno d’amore. Si vide sfilare da sotto gli occhi il miraggio inseguito fin dal primo giorno in cui aveva visto Sofia e ne era rimasto folgorato. Non solo, gli fu anche impedito di vedere l’amata perché nel tempo intercorso tra l’investitura dei Giganti e l’arrivo di Ugo al castello di Leuternia un’altra richiesta della mano di Sofia era stata presentata al conte-padre.

La permanenza di Sofia nella dimora dei Giganti e la consuetudine con essa aveva invaghito Porfirio e prospettato questa possibilità. Egli aveva chiara la conseguenza di tale passo ed era anche disposto a rinunciare alla resa dei conti con Teo, intravedendo un altro percorso per realizzare il sogno di insediarsi sullo scranno comitale. Ci sarebbe stato da risolvere il problema dei diritti di Cocidio, ma questo era poca cosa per uomini di quella fatta, insofferenti verso qualsivoglia precetto morale.

Grave fu l’imbarazzo di Teo e della figlia di fronte all’inattesa richiesta. A recapitarla era stato Alcino per conto di Porfirio.

Era una di quelle situazioni scomode alle quali è difficile sottrarsi senza subirne nefande conseguenze, e infatti Teo non si sottrasse. Prese tempo e convenne con Porfirio di rinviare il fidanzamento a tempi più propizi, dopo aver domato la rivolta popolare. Prendere tempo era essenziale. Sofia mai avrebbe accettato di farsi strumento delle voglie e dei progetti di Porfirio, né poteva volerlo suo padre. Presero tempo e nell’attesa fu proprio Sofia a trovare la soluzione e a salvar capra e cavoli.

 

Nessun commento:

Posta un commento