mercoledì 19 aprile 2023

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

La rivolta contro i Patruno continua con l’aiuto di Alcide liberato dall’interessato abbraccio di Teo. Il capitolo sviluppa il tema delle libertà che anima i tre condottieri della rivolta e lo pone in relazione con la precaria situazione in cui si barcamenano l’Italia e il suo popolo.

Capitolo diciassettesimo

 De quannu nascera erane sempre stati hommini libberi e mai n’hiane ‘ntisa caristìa. A libertate ete comu l’aria, la rispiri e nu te mancu ‘ncorgi ca te serve: te ne ‘ncorgi sulu quannu te manca se cuarchedunu te stringe nnu cacchiu ‘ncanna, o se te manca lu rispiru percè a mare spunnatu si scisu mutu ‘nfunnu. Cusì ete puru pe’ la libertate: nu te ne curi finu a quannu nu te manca, te la godi senza pinzieri e quarche fiata te ne ‘mbriachi e faci puru dannu all’autri cristiani.

 Liberi! Damiano e Ignazio dalle ristrettezze di celle umide e buie, scavate nella nuda roccia, spelonche non dissimili dalla grotta sottostante dalla quale risaliva il profumo del mare e il debole sciacquettio delle onde. Ci erano rimasti per pochi giorni, forse una settimana, forse meno; ricordarlo era impossibile. Incatenati alle dure pareti di roccia, nel buio assoluto interrotto una volta al giorno dalle torce dei vivandieri: quel bagliore, pur tenue che offendeva i loro occhi disabituati alla luce; un gradino di roccia per letto, non c’era neanche la compagnia di un topo con il quale intessere una relazione che potesse dare il senso della vita e del tempo che scorre. Lì il tempo non scorreva, era come un macigno incombente che ti teneva sospeso in attesa dell’inevitabile fine che sarebbe arrivata come una liberazione. Invece era arrivato Alcide e avevano respirato a pieni polmoni il debole vento fresco della notte spirante dall’alto della serra, avevano rivisto le stelle e una sottile falce di luna illuminare il cielo e brillare sul mare nei riflessi intermittenti delle onde, chiarori flebili che non offendevano l’occhio disabituato alla luce, eppure sufficienti a mostrare il mondo, la linea di costa, la massa scura della serra, il cavo accogliente della tartana che li portava lontano dall’incubo nero e privo di dimensioni delle segrete in cui erano stati ristretti.

Liberi, come mai si erano sentiti prima di allora.

Erano ed erano stati uomini liberi fin dalla nascita, né mai avevano avvertito la mancanza della libertà. La libertà è come l’aria, la respiri senza accorgerti della sua utilità e dei suoi benefici, te ne accorgi quando ti manca perché qualcuno ti stringe un cappio alla gola o ti sei immerso nelle acque profonde del mare indugiando oltre il dovuto e ti ritrovi a corto d’ossigeno e annaspi per risalire in superficie e i polmoni ti sembrano scoppiare. Così è la libertà: non te ne curi finché non ti manca, la dai per scontata e la usi e qualche volta ne abusi esercitandola a danno di altri.

I tre amici ne avevano discusso nelle lunghe giornate di ozio per ritemprarsi dalle fatiche della guerra e dalle privazioni della prigione.

 Libero si era sentito anche Alcide, sottratto alle attenzioni ipocrite di Teo che nulla avevano del benevolo sguardo paterno, protettivo e rassicurante. Nel tempo della sua permanenza a Leuternia egli aveva sondato l’animo del genitore, lo aveva osservato e interrogato in diverse occasioni per conoscerlo e comprendere i motivi del suo silenzio durato troppo a lungo, interrotto per ragioni estranee al sentimento, di semplice utilità, come tra estranei. Che senso aveva, allora, quel richiamo al legame di sangue, se il padre non aveva fatto alcun passo per costruire una relazione con il figlio, impacciata e difficoltosa quanto si vuole e quanto le reciproche vite concedevano, ma pur sempre un inizio, tentativi di grattare la crosta d’indifferenza depositata dal tempo che ha sì il potere di rimarginare le ferite ma anche di allontanare irrimediabilmente ciò che per natura dovrebbe essere unito. Non aveva alcun senso, infatti, se Alcide di fronte ai tentativi di penetrare nell’animo di Teo e del fratello aveva trovato il muro dell’indifferenza, più solido dei bastioni del castello e della roccia sulla quale era edificato, inscalfibile. Non perché non ci fossero le parole adatte ad aprire percorsi confidenziali, dialoghi sul tempo passato e da lì, con cautela, un passo alla volta, passi brevi e sicuri, poggiati sul terreno solido della fiducia che agisce come un solvente, scioglie i grumi induriti dell’indifferenza e del rancore, aprire la strada al flusso caldo e accogliente di un abbraccio. 

Non aveva alcun senso, o meglio, a rifletterci con raziocinio scevro da implicazioni sentimentali, un senso ce l’aveva ed era spaventoso. Esprimeva la superficialità dell’animo di Teo, un’essenza piatta dove non trovavano appiglio i sentimenti e gli affetti, sulla quale lo spirito scorreva come acqua di scolo senza fermarsi, dove non albergava alcuna facoltà morale, il cui spazio era affollato da appetiti materiali che lo degradavano. Ad essi aveva dedicato la sua esistenza, subordinato pensieri e azioni, fino a costruirsi come l’uomo insensibile che era, incapace di partecipazione emotiva, incapace di amare, di provare sentimenti come l’amicizia, la riconoscenza, la gratitudine, la gentilezza, la disponibilità, la cordialità, sentimenti inutili per chi come lui aveva in odio il genere umano e in ogni uomo vedeva alternativamente un nemico e un ostacolo al raggiungimento dei suoi spregevoli fini o un semplice strumento da usare per raggiungerli.

Aveva sperato di trovare una sponda in Cocidio, il fratellastro, per penetrare e comprendere l’animo del padre; n’ebbe una delusione cocente. In Cocidio c’erano ostilità e diffidenza pregiudiziali, represse per paura di attirarsi le ire di Teo, ma evidenti, palpabili, pronte a manifestarsi con violenza, come in effetti avvenne dopo il colpo di mano nei sotterranei del castello e la fuga dei prigionieri. Risvolto, questo, che merita un’attenzione specifica in un altro capitolo della Cronica, che a trattarlo ora, mentre indugiamo sugli ozi dei tre paladini della libertà di Leuternia, si rischia di sminuirne il valore. Poiché non di pigra inattività si trattava ma, per dirla con i classici, di σχολή (scholé), di otium, di tempo impiegato nello studio e nella riflessione. Soprattutto nella riflessione sulla libertà, sulla quale dovremo tornare dopo aver detto, per esaurire l’argomento, che certo sarebbe un atto di scortesia non farlo, del rapporto tra Alcide e Sofia. In effetti Sofia era stata l’unico componente della famiglia Patruno (se si esclude Lucina, i cui sentimenti erano cambiati dopo la scoperta dell’amicizia fraterna di Alcide con Ignazio) ad entrare in contatto affettivo con lui. Forse di Alcide l’attraeva il comune stato anagrafico, o forse era l’orgoglio sororale che partecipava della fama di lui, fatto sta che non solo era stata lei a perorarne la venuta a Leuternia, gli aveva dimostrato simpatia e dato utili suggerimenti sul modo di rapportarsi con il padre. Questa sua apertura le aveva alienato la confidenza di Cocidio il quale, sospettoso com’era, iniziò a dubitare di tresche tramate ai suoi danni e reagì di conseguenza. Le vicende della guerra e le limitate occasioni d’incontro impedirono di approfondire e rinsaldare il rapporto fraterno, anche se è da dire, senza tema di postume smentite, che troppo differenti erano gli interessi e le aspettative dei due. Il tradimento di Alcide, tale fu considerato unanimemente dai Patruno, anche da Sofia, soffocò sul nascere il percorso di reciproca conoscenza; non va sottaciuto, tuttavia, che quella conclusione lasciò in tutti e due uno strascico di rimpianto che non credo abbia trovato future occasioni di superamento.

 Era Damiano, tra tutti, il più incline al filosofare, quello che avviava conversazioni impegnative e nell’affrontare il tema della libertà non dimenticava la ragione per la quale si trovavano insieme dopo la fuga da Leuternia.

Alcide e Ignazio tendevano a circoscrivere la libertà nell’assenza di limiti all’iniziativa e alla volontà individuale:

«Sono libero se posso fare quanto desidero e nessuno me lo impedisce».

«È un’idea che condividerebbe anche Teo Patruno. La sottoscriverebbe perché ha la forza per realizzare e imporre la sua volontà», aveva sottolineato Damiano suscitando espressioni di perplessità sui volti dei suoi interlocutori.

«Teo usurpa e limita i diritti del popolo, è una questione che attiene all’esercizio del potere», disse Ignazio che forse non coglieva la contraddizione tra questa osservazione e l’affermazione precedente.

«Quindi è necessario limitare la volontà di Teo per garantire le libertà dei cittadini di Leuternia?» aveva chiesto Alcide.

«È la ragione contingente per la quale combattiamo Teo. Ma l’obiettivo finale è più ambizioso, deve affermare un principio generale irrinunciabile», aggiunse Damiano.

«Pensi al governo del popolo, come avviene in molte città della nostra bella Italia?» osservò Ignazio, che di quelle realtà vantava una vasta esperienza. Come Alcide, d’altronde.

E Damiano: «Non solo. La questione del governo ne deriva a cascata, è conseguenza del riconoscimento preliminare dell’uguaglianza».

Alcide: «Perché c’è bisogno di un esplicito riconoscimento? Gli uomini sono uguali in quanto creati da Dio a sua immagine e somiglianza. Non è sufficiente?»

Ignazio: «Lo sarebbe se non fosse che viene spesso dimenticato».

«Per interesse e in virtù di un equivoco di cui sono responsabili in parti uguali il Papa e l’Imperatore», affermò Damiano.

Alcide aggiunse: «Papa e Imperatore sono i pilastri della nostra società, ma qual è l’equivoco?»

Era una buona domanda, fatta con un po’ di apprensione perché temeva che la risposta potesse squassare dalle fondamenta il suo sistema di riferimento.

Damiano, conscio del turbamento dell’amico, esplicitò il suo pensiero con le parole seguenti, meno perentorie di quanto avrebbe voluto: «I due pilastri governano il mondo, e litigano tra loro per averne la supremazia, sulla base di un’indebita appropriazione…».

«Il potere del Papa promana da Dio e quello dell’Imperatore è riconosciuto dal Papa. In cosa consisterebbe l’appropriazione ingiusta?», lo interruppe Ignazio.

«…Nell’aver accentrato il potere di curare il mondo e di custodirlo nelle proprie mani, privandone il popolo che ne è il legittimo detentore», concluse Damiano.

Non sono sicuro che sia stato proprio questo l’andamento del confronto sulla libertà che impegnò a lungo i tre amici. Furono discussioni articolate e complesse, questo è certo, che sondarono diversi settori della conoscenza; sintetizzarle in una paginetta (dilungarmi oltre non oso) è arduo in sé e lo è ancor più per il povero cronista poco versato in materie così complesse e gravi. Furono anche discussioni proficue concluse con un impegno che all’inizio non era scontato.

 La domanda che aleggiava incerta e inespressa sulle giornate dell’inconsueta compagnia in attesa di definire linee di condotta per il futuro prossimo, riguardava l’impegno di Alcide. Cosa avrebbe deciso dopo lo strappo con Teo Patruno? Avrebbe continuato per la sua strada accompagnato dalla riconoscenza di Ignazio e di Damiano per la generosità dell’atto che li aveva riportati alla vita?

Alcide aveva attuato d’impeto la liberazione di Ignazio, senza valutarne le conseguenze, concentrato esclusivamente sull’azione. S’interrogò a posteriori e si diede la risposta implicita nello stesso impeto dell’azione, inevitabile conclusione di lunghe, meditate osservazioni accumulate nel tempo della sua permanenza a Leuternia al fianco di Teo, della sua famiglia e della sua corte. Non era soltanto la freddezza delle relazioni, l’incomunicabilità a influenzarlo e ad allontanarlo dal padre, lo spaventava l’anima di Teo, vuota di sentimenti positivi, incapace di accogliere gli altri in sé, tantomeno il popolo su cui governava con quella mano insensibile che il lettore ha avuto occasione di conoscere. Non fu facile riconoscere tale condizione, non fu a cuor leggero che guardò in quel lugubre vuoto prima di ritrarsene sconcertato, incredulo. Ciononostante non si sentì rinfrancato.

Che cosa avrebbe fatto adesso che sapeva? Ritornare alle occupazioni consuete per cercare di dimenticare quell’esperienza amara? Era possibile dimenticare? E sarebbe stato giusto? Erano le domande sulle quali si arrovellava l’inquieto pensiero di Alcide. Che si aggiungevano all’insopportabile peso, duro come un macigno, dell’idea di tradimento, nonostante le parole lenitive di Damiano che lo aveva rassicurato con riferimenti sapienti e un argomentare stringente.

A dare una svolta al suo pensare fu una frase pronunciata da Damiano nel mezzo della discussione sulla libertà e su Leuternia.  Egli senza giri di parole, in modo diretto ed esplicito aveva affermato: «Ora che sai, sei pronto per sostenere le giuste rivendicazioni del popolo di Leuternia».

«Contro mio padre?» aveva replicato Alcide a testa bassa, con sofferenza. 

«Non contro tuo padre, a favore della libertà e della giustizia».

Quell’opposizione: “Non contro … a favore”, lo confondeva.

Era solo uno stratagemma dialettico che non modificava l’essenza della proposizione o la reggeva una verità sostanziale?

Lo scontro riguardava concezioni ideali contrapposte e inconciliabili: libertà contro tirannide, giustizia contro ingiustizia. Questo lo comprendeva. Ma la collocazione dei singoli sull’uno o sull’altro versante poteva essere considerato alla stregua di un accidente? Gli uomini non erano altro che strumenti inconsapevoli? E se erano strumenti consapevoli e senzienti, non mantenevano anche nello scontro di idee la loro umanità e individualità? In definitiva, suo padre non manteneva la sua paternità, e lui, Alcide, la sua condizione filiale, con tutto ciò che ne consegue e implica, anche nel contesto di contrapposizione considerato?

Damiano aveva replicato ponendo a sua volta altri interrogativi: «Si può restare indifferenti di fronte al calpestamento del diritto naturale delle genti? Ci si può chiamar fuori e restare neutrali sol perché chi calpesta i diritti è un nostro congiunto o un amico?»

Alcide non aveva opposto altre obiezioni, non poteva averne senza negare le scelte di una vita, gli insegnamenti dei suoi maestri e di Lorenzo, il padre putativo la cui generosa decisione aveva salvato lui e sua madre Matelda dal ripudio e da un’esistenza precaria. Ora una scelta analoga toccava a lui: come Lorenzo gli toccava decidere tra le convenzioni e la vita.

Il ricordo di Lorenzo e le argomentazioni di Damiano agirono nella sua coscienza come un lievito, si espansero lentamente, conquistarono e annullarono gli spazi d’incertezza che lo frenavano. Ricordò una massima appresa ai tempi della sua giovinezza: «Non si è liberi quando si è schiavi dei pregiudizi». Allora non l’aveva compresa, non gli raccontava niente della vita reale, era una bella frase che restava nell’empireo delle idee senza incarnarsi in niente di concreto, poi l’aveva dimenticata. Gli era ritornata in mente e l’aveva compresa riflettendo su una frase di Damiano: «La libertà è innanzitutto una condizione dello spirito». La massima sul pregiudizio l’aveva associata a Lorenzo, il tramite era stata l’affermazione di Damiano.

Allora capì e scelse di servire la vita.

Fino a quel momento, prima dell’epifania che aveva squarciato il velo dell’incertezza, Alcide si era aggirato inquieto e assorto, evitando, per quanto gli concedeva il dovere dell’ospitalità, le occasioni di socializzazione. Preferiva restarsene da solo, riflettere sulla sua condizione e quando l’affollarsi dei pensieri s’ingarbugliava in matasse inestricabili, sfogarsi con l’esercizio fisico, fino ad arrendersi alla fatica liberatrice.

Il giorno in cui gli fu chiaro il da farsi era una meravigliosa giornata di sole. Forse era solo una normale giornata d’autunno, scaldata dai raggi tiepidi, vibranti nell’aria trasparente, statica in assenza di vento; sembrò meravigliosa ad Alcide perché era ricettivo il suo stato d’animo, aperto dalla novità che l’aveva inondato di una nuova consapevolezza capace di sciogliere i dubbi e i pregiudizi sui quali si era arenato per troppo tempo.

Mentre Ignazio e Damiano elaboravano piani di ritorno a Leuternia, li raggiunse e li salutò con allegria.

I due, quando Alcide era entrato nella loro sfera visiva, avevano abbassato lo sguardo come per ignorarlo; si erano abituati alla sua presenza solitaria, comprendevano il suo disagio e cercavano di non fargli pesare lo starsene appartato. Grande fu la loro meraviglia, inatteso il saluto e soprattutto l’allegria nella voce che lo pronunciava. Si guardarono, sollevarono lo sguardo e prima ancora di rispondere furono sovrastati da una domanda:

«C’è posto anche per me nella spedizione che state approntando?», aveva chiesto un Alcide trasformato.

Damiano sorrise, si alzò per andargli incontro e abbracciarlo. Fu un abbraccio commosso, di quelli in cui senza dire parole senti la compenetrazione affettiva che ti lega e ti unisce, i cui lacci si stringono in un vincolo indissolubile che nessuna spada, neanche quella di Alessandro Magno, avrebbe potuto recidere. Prima di sciogliersi dall’abbraccio, sottovoce Damiano sussurrò all’orecchio di Alcide: «Benvenuto a Leuternia, amico mio».

Poi fu la volta di Ignazio, che lo accolse alla sua maniera, con una virile pacca sulla spalla accompagnata da una sonora risata e da un auspicio pronunciato a piena voce, pressappoco di questo tenore: «Tremino i nostri nemici, Alcide è con noi», che risuonò allegra attirando l’attenzione di quanti si aggiravano nei dintorni. E come giusta conclusione di quel momento saturo di emozione ordinò un brindisi a cui furono convocati tutti i presenti.

Il vino fu portato, i calici furono alzati, gli “evviva” ripetuti e solenni, inneggianti ad Alcide e alla liberazione di Leuternia risuonarono nell’aria tersa di quel giorno fortunato propagandosi per le valli di quelle ampie colline e di valle in valle forse arrivarono fino al castello del conte Patruno portandovi l’annuncio di un ulteriore motivo di preoccupazione.

Se gli “evviva” di giubilo non arrivarono all’orecchio distratto di Teo e dei suoi famigli o si persero nelle valli e nelle pianure dell’Apulia, la notizia della scelta di Alcide gli fu comunque recapitata da un messo al quale egli aveva affidato una missiva scritta di suo pugno. Contenuto della missiva era la summa delle riflessioni fatte prima e dopo la violazione delle segrete del castello, quanto ho riassunto in precedenza con la possibile fedeltà delle notizie di seconda mano, ché l’esplorazione del cuore e dell’anima degli uomini (ancor di più delle donne) è esercizio difficoltoso e incerto per tutti, preminentemente per chi non ha la sensibilità del poeta o la capacità d’introspezione del filosofo; arduo per il vostro umile cronista, comprensivi lettori, come la scalata di una montagna alpina perennemente innevata.

 Il resoconto dei travagli di Alcide sarebbe stato più fedele se Teo Patruno, dopo aver letto l’epistola di Alcide, non avesse assecondato la collera soffocante che lo possedeva. Il conte si era stupito di ricevere notizie dal figlio traditore. Stretto dalle urgenze della duplice contesa aveva osato sperare nel suo pentimento: lo avrebbe accolto magnanimamente come il figliol prodigo della parabola, senza sacrificare vitelli grassi né magri per non eccitare le prevedibili reazioni e le rimostranze di Cocidio, magari sermonando sull’errore di sacrificare i sacri affetti famigliari al richiamo illusorio dell’amicizia; in ogni caso sollevato dalla nefasta prospettiva di rinuncia al decisivo contributo di un così forte e valoroso soldato con tutta la sua compagnia di veterani esperti e fedeli.

Teo era ricaduto, essendogli tale stato ricorrente, nella disposizione di confondere realtà e desiderio, disposizione che lo induceva a inseguire l’inconsistenza del desiderio fino a scontrarsi con la dura materialità delle evidenze.

L’illusione non durò a lungo.

Aperto il plico e letto l’incipit, un velo di freddo sudore gl’imperlò la fronte, scese lentamente lungo la schiena irrigidendogli le membra, procurandogli brividi di sgomento.

Gli astanti si accorsero del disagio del conte, qualcuno lo aiutò a sedersi, il medico di corte lo interpellò sulle cause; egli allontanò tutti con un gesto della mano e alquanto rinfrancato continuò la lettura senza dare alcuna spiegazione. Procedendo nella lettura della lunga epistola, la sua reazione emotiva cambiò di segno: l’iniziale sgomento divenne incredulità, poi dispetto, fino a montare, come i nembi nel corso di un temporale il cui scontro provoca tuoni e fulmini, in un’ira cieca e distruttiva. La prima reazione fu un grido quasi disumano seguito da parole che a fatica i presenti compresero: «Maledetto bastardo!», accompagnate da movimenti frenetici delle mani, accanite sui fogli dell’epistola quasi volesse cancellarne il contenuto.

E dopo qualche secondo, il cui scorrere sembrò dilatato e sospeso: «Leuternia sarà la tua tomba».

Intorno a lui il silenzio era assoluto, teso. Nessuno osava muoversi, sembravano trattenere perfino il respiro tanta era l’apprensione, né osavano chiedere lumi sulla tragicità delle notizie che lo sconvolgevano. Che il “maledetto bastardo” fosse Alcide ognuno lo dava per scontato, come lo era anche la condanna e il rammarico per la sua diserzione; ciò che restava oscuro erano le ragioni che lo avevano spinto a scrivere. Nell’incertezza un moto di paura iniziò a serpeggiare tra i presenti, lo si percepiva dalle espressioni del viso allungato e smorto, dalla postura delle teste ripiegate in avanti, dalle schiene ricurve, dalle braccia inerti lungo il corpo. A guardare la scena da lontano sembrava che un incantesimo avesse fermato il tempo e immobilizzato tutti i viventi nella plasticità dell’ultimo movimento. Con una sola eccezione: le mani del conte freneticamente indaffarate nell’atto di annientamento dell’epistola.

Fu lo stesso Teo a movimentare l’azione. Riacquistato un minimo di autocontrollo, il tono della voce dimesso, disse:

«Qualcuno porti una candela accesa».

La sala sembrò rianimarsi dal lungo letargo in cui l’incantesimo l’aveva immobilizzata, qualcuno si diede da fare per accendere un candeliere, altri si rivolsero sguardi smarriti interrogandosi a vicenda, altri ancora si affacciarono alle finestre per rinfrancare lo sguardo e accertarsi che ogni cosa lì fuori fosse ancora al suo posto: il mare ondeggiasse come aveva sempre fatto, il vento lo increspasse con le sue folate impertinenti, le foglie sugli alberi continuassero a vibrare incerte, gli uomini e gli animali continuassero a vivere. 

Ogni cosa era al suo posto e tutto era normale.

Normalmente, sfogando la sua collera, Teo Patruno diede fuoco all’epistola e la guardò bruciare fino all’ultimo lembo, fino a quando non fu ridotto a un ammasso nero accartocciato su se stesso, fragile, esposto al primo soffio di vento che l’avrebbe disperso in minuscoli brandelli di cenere. Non contento, vedendo ancora una minaccia in quel simulacro inconsistente, Teo lo calpestò sostituendosi al vento che nella stanza non c’era e finalmente acquietato si avviò verso l’uscita seguito dal medico di corte e da don Procopio, preoccupati: l’uno per la salute del corpo del suo signore, l’altro per la salute dell’anima. Tutti e tre sospettavano, non essendo lontani dal vero, che fosse l’anima ad avere più bisogno di cure.

 Dopo lo strappo e dopo essersi smarrito nell’intricata foresta dei propri sentimenti, disboscando di qua e di là per aprirsi una strada, riposando nelle rare radure libere dagli intrichi delle sue pulsioni contrastanti, Alcide era giunto al suo limitare dove si apriva un’ampia distesa di terra incolta e in lontananza s’intuivano campi coltivati e fumaioli, la serenità delle cose semplici che riempiono la vita. Aveva attraversato quello spazio ed aveva ritrovato l’amico che con il fumo del proprio camino gli aveva indicato la strada.

Alcide si era presentato al cospetto di Damiano e di Ignazio chiedendo umilmente: «C’è posto anche per me nella spedizione che state approntando?»

Il posto che egli chiedeva gli era stato assegnato da tempo, doveva solo prenderne possesso e mettersi alla testa del piccolo esercito che si apprestava a marciare su Leuternia, al fianco degli altri due capitani. Non c’erano patti da sottoscrivere, né comande[1] da contrattare, però due richieste Alcide le aveva avanzate, non come condizioni, solo rassicurazioni morali che avrebbero tranquillizzato la propria coscienza pacificata. Ambedue riguardavano Teo e la sua famiglia.

«La guerra, come ben sai, Ignazio, è crudele. Trovarmi di fronte nelle mischie delle battaglie mio fratello o mio padre, mi sarebbe penoso», aveva affermato con tristezza.

Ignazio aveva risposto con leggerezza: «Per te ci sono i fratelli Giganti; con loro troverai pane per i tuoi denti, non avrai modo d’incrociare altri duelli».

Sì, la guerra è crudele. Come avrebbe reagito se si fosse trovato di fronte Cocidio? Se questi si fosse ostinato a voler incrociare le sue armi con lui? E se rifiutando di battersi gli avesse gridato che era un vigliacco e un traditore sarebbe riuscito a controllare la sua furia?

«Lasciami perdere, cerca gloria altrove – gli avrebbe detto – c’è Alcino che ti cerca», rammentandogli il terrore provato di fronte allo spadone del Giganti.

Pensieri ipotetici. Comunque gli avrebbe salvato la vita.

Venne, quindi, alla seconda richiesta: «Promettetemi che nessuna violenza sarà agita nei confronti del conte e della sua famiglia».

Com’era prevedibile, promisero, perché, con le parole di Damiano: «Il giudizio sulle colpe del conte e dei suoi sarà deciso in un regolare processo».

Che rispondeva al principio per cui si battevano, per superare il dominio dei tanti inutili “signorotti”, mani inette e menti stolide, incapaci di guardare oltre il proprio ristretto orizzonte, dediti come avvoltoi a spolpare le carcasse debilitate di popolazioni stremate da guerre e da pestilenze.

D’altronde era vivo in loro il ricordo del rischio corso. Teo li avrebbe giustiziati sommariamente, senza processo, come un ladro che di notte si aggira furtivo per le strade appostandosi negli angoli bui: «La borsa o la vita». Spesso l’alternativa è solo nominale e accoltella la preda se la borsa è vuota, come per reazione stizzita alla delusione del fallimento o di fronte a una timida resistenza.

Così, per stizza, Teo li avrebbe giustiziati: Ignazio per liberarsi di un’ossessione; Damiano per soffocare del tutto le antiche consuetudini e le leggi di natura.

Loro non avrebbero potuto senza rinnegarsi perché avevano chiaro che la fonte del potere è il diritto, non l’ingiustizia; che “fra un tiranno e un principe c’è questa sola differenza, che questo ubbidisce alla legge e secondo il suo comando governa il popolo, del quale si considera servitore”[2]; quello pensa che gli sia lecito discostarsi dall’equità e dalla giustizia.

Così rassicurato Alcide si apprestò ad affrontare quella nuova e inattesa fatica.

I giorni del riposo e dell’ozio erano finiti, i piani di combattimento erano stati approntati, i compiti distribuiti. Ognuno, dai capitani all’ultimo fante, conosceva il suo compito ed aveva giurato di adempierlo fino alla vittoria o alla morte.

Diviso in tre colonne, battendo strade diverse, l’improvvisato esercito del popolo di Leuternia marciava gagliardo verso la sua meta con l’intento di penetrare nella contea con un’azione a tenaglia: Alcide da ovest, come una catapulta, lungo la costa jonica per sollevarne i fertili casali e prendere il porto di Kallipolis; Ignazio da est, lungo la costa adriatica per prendere il porto di Hudrento e da lì verso il cuore della contea e il suo capoluogo; Damiano, infine, doveva sfondare dal centro puntando su Malliae per poi ricongiungersi con Ignazio.

A Leuternia, intanto, per bilanciare la diserzione di Alcide e il suo cambio di schieramento, grandi novità si affacciavano all’orizzonte della politica del conte Patruno.



[1] Nel Medioevo indicava la remunerazione pagata dal committente (conte, principe ecc.) per l’ingaggio di una compagnia di ventura.

[2] Così Giovanni di Salisbury nel Policratus, sec. XII.

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