martedì 28 marzo 2023

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

Il conte Patruno incapace di affrontare sul campo le bande di Ignazio e di Damiano, ricorre al tradimento. Cattura di Damiano e Ignazio, loro traduzione nelle segrete del castello di Leuternia. Alcide, conosciutane la sorte, con un’ardita e repentina incursione libera i due prigionieri. La rocambolesca fuga dei tre.

 

  Capitolo sedicesimo

Alcide fice l’impresa de notte quannu intra allu palazzu tutti durmiane e puru i surdati de cuardia ogni tantu se ddurmisciane. Intra menu de menz’hura tutta la bricata cu li priggiunieri llibberati s’era ‘mbarcata sullu schifu mmazzaratu intra alla crutta e chianu chianu, citti citti, se ne ssiu a mare spunnatu e rrivau alla Mastefina addhru li spittava nna tartana ca li purtau dopu Hutrantu e de ddhrai, prima all’ampete e poi a ‘ncavaddhru, fore de la contea de Leuternia fino allu palazzu de Ignaziu ccucciatu a ‘mmenzu alle muntagne.

 Nell’incertezza delle soluzioni militari a Leuternia e dintorni lavorava la diplomazia e soprattutto si ordivano tradimenti e congiure. Fu l’azione subdola del tradimento e della simulazione ad attivare il tortuoso processo che modificò gli equilibri delle forze in campo e portò alla tragica conclusione della contesa.

Quando il conte Patruno fu informato delle azioni dei Giganti a danno della moglie e della figlia ebbe un momento di scoramento, si sentì accerchiato e impotente, nonostante l’integrità della sua forza militare e la presenza di Alcide al suo servizio. Per un momento fu tentato dall’idea di abbandonare Leuternia e di lasciare che a contendersi il campo fossero gli altri due antagonisti: i Giganti e i popolani in rivolta, per tornare più tardi con un esercito e il sostegno dei baroni e del re ai quali si sarebbe rivolto per ripristinare l’ordine costituito e il suo legittimo diritto. Fu solo il pensiero di un momento di sbandamento, l’incubo di una notte insonne le cui tenebre non gli facevano intravedere spiragli e soluzioni praticabili. La luce del giorno lo trovò in un tale stato di prostrazione da richiedere l’intervento del medico di corte per somministrargli qualche pozione che ne calmasse i nervi scossi e il tremore che ne invalidava le membra e il giudizio. Non so dire se la ritrovata calma e il ritrovato equilibrio furono indotti dalla pozione o dallo scaltro suggerimento che il medico si prese la libertà di offrire al paziente in quel momento di debolezza e di smarrimento.

«Se armi e forza non possono agire, l’astuzia deve farne le veci», aveva detto il medico, diffondendosi sul tipo di azioni che l’astuzia avrebbe potuto suggerire.

Come mai non l’avesse pensato da sé fu motivo di molta meraviglia per il conte e di altrettanto rincrescimento. Si era messo nelle mani di Alcide e riposava sereno confidando nella sua invincibile forza, come se non conoscesse l’universalità dell’aforisma di Lisandro[1]: «Quando la pelle del leone non basta, è il momento di cucirsi addosso quella della volpe» o l’efficacia dell’astuzia di Odisseo racchiusa nel grido di dolore del ciclope: «Nessuno mi uccide con l’inganno, non con la forza».

Dunque, l’inganno e il tradimento. Teo Patruno si mise al lavoro con alacrità per tessere una rete di delatori e acquisire informazioni sugli spostamenti e sulle intenzioni di Ignazio e dei Giganti. Nei confronti di questi, non potendo attaccarli per tema di nuocere alla figlia prigioniera, avrebbe adottato un atteggiamento di vigile attesa; contro le forze popolari, confidando nella tacita tregua imposta dalle trattative avviate con Alcino, avrebbe tentato il tutto per tutto per neutralizzarle e semplificare lo schema della contesa. Egli sapeva, glielo aveva confermato Sofia tramite l’ambasceria di don Procopio, che Alcide non avrebbe combattuto contro Ignazio e che, di conseguenza, su quel versante avrebbe dovuto provvedere da sé.

Teo non era il solo a tramare inganni e tradimenti, in quello stesso torno di tempo si dava da fare anche Cocidio con l’obiettivo di neutralizzare Alcide da lui considerato un pericoloso concorrente alla successione del padre. Egli aveva attivato un canale di comunicazione con Porfirio per informarlo degli spostamenti di Alcide e consentire ai Giganti di sorprenderlo ed eliminarlo.

 Tradimento spregevole, questo di Cocidio, di quelli che il poeta confina nella Caina, dove giacciono, lividi nel gelo della vergogna, i traditori dei parenti. Cocidio con un unico atto aveva ordito il tradimento del padre e del fratellastro e come tutti i traditori il suo viso indossava la maschera livida della menzogna che non lascia trasparire le emozioni che lo scuotono e lo animano: la speranza e la paura, l’invidia e l’orgoglio.

Il tradimento di Cocidio origina dall’invidia nei confronti del tradito, si alimenta della speranza della sua caduta, ma fino al giorno del suo positivo compimento lo condanna ad essere prigioniero della paura, annusata in ogni anfratto, nascosta dietro ogni angolo e ogni porta, nei comportamenti dei famigliari, degli amici e dei conoscenti: la paura di essere smascherato e di perdere tutto, la dignità e le ricchezze e le aspirazioni, soprattutto le ricchezze e le aspirazioni, la comoda posizione in cui senza merito si crogiola, che non ritiene sufficiente a compensare i suoi meriti e le capacità, limitate dalle sfavorevoli condizioni in cui si dibatte. Della dignità si cura meno perché è convinto che essa sia dovuta al vincitore e al potente e non rispecchi né doti morali né qualità intrinseche, anche se crede di possederle in massimo grado. E quando, infine, il tradimento si compirà e l’obiettivo sarà realizzato, il suo orgoglio, spazzando via ogni precedente timore, si gonfierà come la rana della favola per alimentare la propria vanità e godere dell’altrui disgrazia.

 L’iniziativa di Cocidio non produsse alcun risultato. I suoi piani furono scompigliati dalla piega presa dagli eventi conseguenti al ratto della sorella che aveva congelato ogni iniziativa militare nelle more della delicata trattativa, tirata per le lunghe da Teo impegnato nel districare l’ingarbugliata matassa delle rivendicazioni popolari.

 Teo, a differenza del figlio, raggiunse il suo obiettivo. Egli era riuscito a corrompere il segretario e uomo di fiducia di uno dei nobilucci da strapazzo sospettati di essere sensibile alle rivendicazioni popolari.

Il barone Basalù di Polisano, era un tipo singolare, amante della scienza e della natura alle quali dedicava tutto il suo tempo. Di problemi sociali e politici non s’interessava affatto, però aveva aderito con entusiasmo alle istanze del movimento popolare perché riteneva suo dovere, e dovere di tutti gli uomini di scienza, di contribuire al progresso dell’agricoltura, delle arti e della società nel suo complesso, compresi gli strati popolari più deboli e i diseredati. C’era in lui un misto di pietismo religioso, di umanesimo e di scientismo male assortiti in un sincretismo confuso e inconcludente, ricco di buoni propositi ma privo di basi teoriche e di prospettive concrete. Animato dai suoi buoni propositi aveva contribuito, all’interno del suo piccolo feudo, grazie anche all’impegno pratico e interessato del suo ambizioso segretario, al miglioramento delle coltivazioni e delle pratiche agrarie, all’espansione dei commerci e all’incremento della ricchezza collettiva. I risultati ottenuti dall’iniziativa del barone Basalù aveva suscitato l’interesse dei ceti borghesi emergenti e l’attenzione dei capi del movimento popolare che lo avevano contattato ricevendone l’adesione e l’incoraggiamento. Per le ragioni opposte aveva suscitato anche le attenzioni del conte Patruno e della maggioranza dei nobili feudatari della contea che gli rimproveravano un comportamento contrario agli interessi del loro ceto.

Il buon barone assorbito interamente dai suoi studi, aveva fama di uomo distratto e svagato, con la testa nei libri diceva il senso comune, intendendo di un uomo con la testa tra le nuvole, distaccato dal mondo e dalle questioni pratiche. Questa sua condizione facilitò di molto il tradimento operato ai suoi danni dal segretario Roberto Guideni il quale seppe con astuzia volgere a suo favore le distrazioni e le amnesie del barone.

Il Guideni era stato corrotto con la promessa di un’ingente somma di denaro e dell’attribuzione di un beneficio feudale sopra un casale, qualora l’operazione fosse andata positivamente in porto. L’ambizioso segretario con il miraggio di un cambiamento di status si adoperò con impegno e tenacia nell’opera di circonvenzione dell’ignaro barone fino al raggiungimento dello scopo.

Accadde che Ignazio e Damiano avevano in animo di costituire una sorta di testa di ponte nel cuore della contea e avevano puntato ad attestare una parte della forza militare nel casale di Quattromacine posizionato in alto sulla serra di Juianellum per dominare la pianura sottostante dalla masseria fortificata ubicata nei pressi del casale. Per conquistare quella postazione e controllare un ampio territorio (i tre casali di Polisano, Juianellum e Quattromacine) era necessario concentrare in gran segreto nella baronia di Polisano gli uomini che avrebbero dato l’assalto alla guarnigione comitale di stanza a Quattromacine.

La presenza di Damiano nella residenza del barone non passò inosservata agli occhi del Guideni che si adoperò per origliare e per carpire al distratto barone le informazioni utili al suo infedele scopo.

Il danno causato dalla distrazione del barone fu incalcolabile, tale da pregiudicare l’intero progetto dell’agognata autonomia delle Universitas. Quando fu chiaro che l’operazione sarebbe stata avviata entro qualche giorno, quando nella residenza del Basalù erano presenti Damiano e Ignazio, protetti solo da un gruppetto di guardie del corpo, il conte Patruno attuò il suo piano. La residenza baronale fu circondata, la guardia armata sopraffatta nottetempo da un ingente numero di soldati capeggiati da Cocidio, i presenti catturati e tradotti immediatamente nel castello di Leuternia dove li attendeva uno spavaldo e tronfio conte, certo di avere sbaragliato il primo fronte del conflitto.

Il barone, Damiano e Ignazio con i soldati che erano riusciti a sottrarsi al primo assalto avevano cercato invano di resistere; sopraffatti dal numero degli assalitori avevano confidato in una via di fuga attraverso un passaggio segreto che li avrebbe portati fuori dal casale. Dovettero desistere anche per quella via, ostruita e preclusa dalla preveggenza traditrice del Guideni che ne era a conoscenza all’insaputa dello stesso barone.

Nell’affanno della triste condizione Damiano non si perse d’animo. Egli, conscio delle gravi ripercussioni conseguenti alla decapitazione del movimento popolare e del vantaggio che ne avrebbe avuto il conte Patruno, si preoccupò di come, anche in quella condizione, avrebbe potuto comunicare con i compagni ancora in libertà. La prima questione di cui avere contezza era la fonte del tradimento. Poteva essere il barone Basalù? Damiano lo escluse. Confabulò con Ignazio e ne ebbe la stessa impressione. Protetti dall’oscurità della notte all’interno del carro coperto in cui erano stati incatenati per il trasporto, ne parlarono allo stesso barone. Questi versava in un tale stato confusionale per essere stato strappato alla sua tranquilla vita di studio da non riuscire a ragionare e a esprimersi con lucidità. Nello stato semi alienato in cui versava, tra le tante parole di autocommiserazione pronunciate come una preghiera, qualche informazione plausibile emerse e fu sufficiente a identificare la possibile figura del traditore.

«Roberto Guideni di Polisano è un traditore». Con questa frase ripetuta come una giaculatoria al cospetto della scorta e degli addetti alla loro custodia in carcere, Damiano sperava di far arrivare la notizia ai suoi amici, in modo da difendersi dalla sua perfida azione. La notizia, in effetti, arrivò alle orecchie giuste e contribuì a mettere al riparo gli altri membri della rete clandestina di resistenza.

Ciò che Damiano e Ignazio non riuscirono a impedire fu la loro segregazione nei sotterranei del castello di Leuternia e l’accusa di sedizione contro il potere del conte. Poiché un’accusa di tale portata era di competenza del giustiziere provinciale[2] di nomina regia e il conte non voleva esporsi ai rischi di una pubblica discussione sulle ragioni di quell’increscioso conflitto, aveva deciso di tenere temporaneamente segreta la cattura e di procedere all’eliminazione dei rivoltosi, ad eccezione del barone, legittimandola come un atto di guerra o come un fallito tentativo di fuga. Nell’attesa di realizzare l’intento Damiano e Ignazio furono sottoposti a dolorosi interrogatori per ottenere informazioni sui nomi degli altri congiurati e sulla dislocazione dei loro uomini.

 Rinchiusi nelle celle che il lettore ha già conosciuto, i prigionieri ebbero il tempo di riflettere sulla loro condizione e di prepararsi al peggio, qualunque fosse stata la decisione del conte. Il pensiero di Damiano seguiva i due percorsi, uno sentimentale l’altro intellettuale, che avevano plasmato la sua esistenza e si rammaricava per i contraccolpi che la sua sorte avrebbe avuto su di essi. Lo preoccupava la famiglia, la moglie abbandonata a se stessa con due figlie ancora giovani e il figlio ragazzino. Pensava ogni giorno, ogni momento a loro e si rammaricava di non aver provveduto ad allontanare la famiglia da Leuternia nel momento in cui aveva deciso di imbarcarsi in quell’avventura temeraria contro il potere dispotico del conte.

Era temeraria quell’avventura, eppure necessaria. Nella vita di un uomo che tiene al rispetto di sé ed è convinto e professa i principi in cui crede, che di essi ha nutrito il suo spirito ed ha permeato il suo essere, quell’uomo non può opporsi alle necessità che lo sollecitano. Se si opponesse si stimerebbe più bestia di una bestia, perché l’uomo possiede intelletto e coscienza che lo guidano, lo sollecitano, lo pungolano e deve agire in base ai suoi convincimenti per farli uscire dai libri sui quali li ha appresi e dalla coscienza personale nella quale li ha accolti e custoditi, per inverarli nella vita reale e farli agire a favore dell’intera società. Perché se restano nei libri e servono solo a farne sfoggio in dotte conversazioni o per indossarli come paramenti eleganti del proprio animo nobile, allora la loro funzione è svilita, tradita, ed è inutile anche la vita di chi li professa e li insegna. Damiano lo sapeva ed era disposto a pagarne il prezzo. Non aveva paura di affrontare il patibolo, se quello sarebbe stato il prezzo da pagare; si preoccupava per i suoi amici e commilitoni che adesso erano in pericolo. Si preoccupava per l’esito del conflitto e anche se sperava, perché la speranza nei forti non lascia mai il campo allo sconforto, era consapevole della gravità del colpo subito.

Ignazio come Damiano non aveva paura. Quell’esito lo aveva interiorizzato nelle precedenti, numerose occasioni in cui il pericolo lo aveva sfidato, era parte del gioco che aveva deciso di giocare e fino a quando avrebbe potuto contare su un refolo di vita, le sue certezze sarebbero rimaste incrollabili come salde mura di una fortezza ben costrutta. La sua certezza erano i suoi fidi compagni, soldati valorosi e impavidi che non avrebbero tralasciato alcun tentativo per liberarlo. Intanto rifletteva sulle possibilità di fuga e non disperava, qualcosa si sarebbe inventato, qualche occasione gli si sarebbe potuta palesare in qualunque momento, e lui stava sempre allerta, l’occhio e l’orecchio vigili per captare ogni pur minima possibilità.

Chi non trovava in se stesso né fuori di sé ragioni per sperare o per rassegnarsi al destino era il barone Basalù. Il pover’uomo, che quella condizione non avrebbe mai immaginato, si disperava. Rivolgendosi ai guardiani reclamava un trattamento degno del suo status e implorava un incontro con il conte per chiarire l’equivoco di cui, a suo dire, era rimasto vittima. Il conte, da parte sua, non aveva alcun interesse né alcun vantaggio ad eliminare un suo vassallo, per cui decise di perdonarlo dietro la solenne promessa di allontanarsi dalla contea e di nominare suo amministratore quel Roberto Guideni che lo aveva tradito. Il barone promise, partì ed ebbe salva la vita. L’umiliazione a cui era stato sottoposto, alla quale non aveva saputo opporsi per paura e per debolezza di carattere, lo prostrò a tal punto da corroderne l’animo e l’intelletto fino a sprofondarlo in uno stato di forte depressione che lo portò ben presto alla consunzione e alla morte.

 

Se la detenzione di Sofia da parte dei Giganti aveva concentrato l’attenzione del conte Patruno sull’altro fronte del conflitto dove aveva colto un insperato successo, allo stesso modo la cattura di Damiano e Ignazio fu causa di un ulteriore evento che tornò a revocare in dubbio il vantaggio acquisito dal conte. Egli ritenne, e commise lo stesso errore dei Giganti, di aver acquisito una posizione di vantaggio definitiva. Ma poiché le vicende umane non seguono un percorso lineare definito e controllabile, sia il conte sia i Giganti con le rispettive azioni avevano messo in moto una successione di eventi incontrollata, in qualche modo prevedibile (almeno in parte e con una certa approssimazione) da menti speculative e lungimiranti, non certo da quelle improvvide e ristrette dei nostri. Quali saranno gli effetti dell’azione dei Giganti li vedremo a tempo debito; di quelli connessi alla cattura dei cospiratori è d’uopo darne contezza nelle prossime pagine.

 La brillante operazione condotta a Polisano da Cocidio per realizzarsi appieno avrebbe dovuto concludersi con l’eliminazione dei prigionieri. Averne dilazionato l’esecuzione nella speranza di estorcere loro qualche utile informazione o godere della loro soggezione, scorgere i segni della paura e dell’impotenza nelle loro espressioni incredule, fu l’errore che diede un seguito a quella vicenda.

Quando nel segreto dei sotterranei del castello Teo si trovò faccia a faccia con i prigionieri li apostrofò con parole sarcastiche:

«Tremo di fronte al grande Ignazio. Per vendicar tuo padre t’ingraziasti i favori de popolo con il folgorio del fuoco. Ora paga la pena di questa frodolenza e impara a rispettare la signoria dei forti».

Ignazio non rispose. Il suo silenzio indispettì il conte che avrebbe voluto vederne la rabbia impotente per poterla schernire e affermare la propria posizione di forza. Ignazio, al contrario, se ne rimase tranquillo, rincorrendo un pensiero affettuoso per il padre.

«Hai perso la favella? La paura di morire ti inibisce il volere?», riprese a dire Teo con un tono ancora sarcastico ma meno sicuro di sé.

Ignazio nonostante le catene che lo ancoravano alle pareti della cella, opera del fabbro Fabrizio, si mosse repentinamente come per balzare addosso all’interrogante. Teo, impaurito nonostante fosse a distanza di sicurezza, diede un balzo all’indietro ponendo la mano sull’impugnatura dello stiletto assicurato alla cintola. Di fronte a quella reazione, Ignazio proruppe in una risata beffarda e con calma rispose:

«La tua perfida crudeltà sarà vendicata dal popolo di Leuternia che si affrancherà dal giogo del tuo potere scellerato».

Un brivido freddo corse lungo la schiena di Teo, assediato dal ricordo dell’ultima beffa ordita da Ignazio nella stessa villa in cui aveva consumato l’omicidio di Euro.

In occasione dell’incontro tra Alcide e Ignazio, questi aveva esposto all’amico le circostanze della morte di suo padre Euro, esprimendo il pressante desiderio di celebrare una sorta di rituale liberatorio, di vendicare e commemorare la morte del padre assassinato da Teo.

In gran segreto, Ignazio e alcuni fidi compagni avevano allestito una messinscena nella stanza del delitto (sbarrata e inutilizzabile per volere del conte) che avrebbe dovuto far rabbrividire l’assassino. Terminato l’allestimento e concluso il convegno tra i due capitani, la villa era stata abbandonata. Alcide aveva fatto riferire al conte che dalla stanza sbarrata e inaccessibile di notte fuoriuscivano rumori strani, come di catene agitate e di lamenti soffocati, che i suoi uomini si erano rifiutati di abitare la villa per paura di quei fenomeni infernali provenienti dalle fondamenta della casa o, come qualcuno diceva, dalle viscere dell’inferno.

Teo si allarmò oltremodo e incaricò i servi che avevano occultato il cadavere di Euro, gente che non aveva paura neanche del diavolo, di fare una ricognizione per accertarsi della situazione. Quando i servi, con molta cautela e una buona dose di superstiziosa paura, entrarono nella stanza si trovarono di fronte, così riferirono al conte, a una semplice pagliacciata. Essi avevano osservato la scena e non sapendo né leggere né scrivere non avevano potuto cogliere il senso simbolico della rappresentazione, in sé significativa e premonitrice, anche se del tutto innocua e priva di tracce o segni soprannaturali.

La descrizione della messinscena incuriosì Teo più della versione di Alcide, tanto da risolverlo a mettersi in viaggio per sincerarsene di persona. Quando arrivò in villa era sollevato e tranquillo; l’interrogativo sugli autori del gesto provocatorio non aveva ancora iniziato a insinuarsi nei suoi pensieri, si palesò nello stesso momento in cui decifrò il significato della rappresentazione e a quel punto fu posseduto da una paura profonda, insistente.

Cosa aveva osservato nella stanza? Cosa lo aveva colpito così a fondo da modificarne l’umore e sprofondarlo in uno stato di perenne incertezza?

Su un lato della stanza era rappresentata, con una folla di fantocci in forma di uomini e donne, un’ordinaria scena d’impiccagione, come se ne vedono nelle piazze delle nostre città. L’impiccato era contrassegnato da un cartiglio in cui campeggiava il nome del conte Patruno; altri cartigli esibiti dagli spettatori o trascritti sui muri della stanza riportavano frasi del tipo: “A morte il conte Patruno”, “Viva la giustizia del popolo” ed altre di simile fattura. Su un altro lato una seconda scena rappresentava un gruppo di cittadini intenzionati a infierire sul corpo inerme dell’impiccato.

La rappresentazione che nessuna impressione aveva suscitato nei servi del conte, su di lui produsse un effetto devastante che durava ancora nonostante Ignazio fosse in suo dominio, in balia della sua volontà, incatenato nelle segrete del suo castello, al suo cospetto.

Teo aveva sospettato da subito di Ignazio, ma ne ebbe l’inoppugnabile certezza solo dopo le ultime parole pronunciate nel corso di quello strano colloquio.

Per dissimulare il disagio cercò una battuta ad effetto, ma gli riuscì solo di dire, quasi come una giustificazione:

«È stata tua madre a vaticinare l’azione vendicatrice. Io le risposi che non potevo aver paura di un filantropo, che se tu avessi tentato di nuocermi il tuo destino sarebbe stato segnato da questo pugnale…».

Dopo una breve pausa, alzando la testa e guardando il prigioniero, come in un faticoso tentativo di attestare la sua posizione di vantaggio, concluse:

«Due volontà si sono confrontate e ad affermarsi è stata la mia».

Lo disse con voce malferma, il pensiero sempre assediato dalla premonizione igniaziesca.

Il quale Ignazio con baldanza, con la chiara volontà di provocare e ulteriormente destabilizzare l’interlocutore, rispose:

«Tu hai paura, Teo. Il tuo pugnale è ancora nel fodero, impastoiato dalle tue incertezze. Nel frattempo il popolo che ti giustizierà si è liberato dal basto con cui volevi tenerlo in soggezione», rispose Ignazio, consapevole del disagio crescente del conte, il quale, in un incontrollato eccesso di furore pronunciò le parole che dovevano rassicurarlo:

«Nessuno verrà a liberarti, la tua fine è segnata», e non sopportando di sostenere ulteriormente quel dialogo che aveva capovolto le posizioni, uscì dalla cella con il passo frettoloso di chi vuole uscire da un incubo.

Quell’ulteriore indecisione fu fatale. Se avesse avuto il coraggio di dar seguito alla minaccia di morte si sarebbe liberato dall’incubo che lo perseguitava da quando aveva aperto la stanza del presagio; la scena del corpo dell’impiccato segnato col suo nome era entrata persino nei suoi sogni, li aveva trasformati in incubi, lo aveva privato del sonno alimentando un irrefrenabile desiderio di vendetta che sembrava sul punto di essere appagato con la cattura di Ignazio. Sembrava ..., ma quando se lo ritrovò di fronte, lui libero e l’altro in catene, l’incubo era ritornato a materializzarsi nella penombra dell’umida cella. Le parole di Ignazio gli avevano letto nell’intimo, nell’inquieta coscienza che lo tormentava.  «Tu hai paura, Teo», aveva detto Ignazio, ed era vero. Era terrorizzato dall’idea del suo corpo smembrato dalla furia del popolo assetato di sangue, le sue membra, orrido pasto di cani randagi, private di una degna sepoltura. Il terrore gli aveva bloccato il pensiero e la mano, che non riuscì a chiudersi intorno all’impugnatura del pugnale per colpire l’inerme prigioniero. Aveva avuto paura di lui incatenato ed era scappato per sottrarsi alla prova e allontanare da sé le orribili scene proiettate dalla sua immaginazione sul muro della cella, rese ancora più irreali e angoscianti dalla cupa atmosfera di quell’antro, satura dell’umidità risalente dalla sottostante grotta ferrata.

 Il tempo concesso dalle incertezze angosciate del conte Patruno fu incubatore dell’evento che diede un insperato sviluppo alla vicenda. Dico insperato per Ignazio e per Damiano, che ormai disperavano della loro sorte; per Teo Patruno e suo figlio Cocidio fu come un fulmine a ciel sereno e un tradimento.

La notizia dell’incursione di Cocidio a Polisano, nonostante il desiderio del conte di tenerla segreta, era giunta all’orecchio di Alcide, impegnato ai confini della contea in operazioni di riconquista delle posizioni occupate dalle bande dei gemelli Giganti. Forti furono il suo disappunto e la preoccupazione per la sorte di Ignazio, tali da consigliargli un immediato ritorno a Leuternia. Dei reali motivi della sua decisione non fece parola ad alcuno, né Teo lo mise a parte del brillante successo per tema che l’amicizia con il prigioniero si rivelasse un ostacolo alla sua eliminazione.

Alcide si spinse oltre, non impetrò clemenza per l’amico, agì direttamente per liberarlo. E con lui liberò anche Damiano.

Come gli riuscì di realizzare l’impresa è questione complessa e intricata. Egli conosceva i sotterranei del castello e aveva avuto occasione di assistere, era stato lo stesso Teo ad accompagnarlo, all’apertura della grata che chiudeva l’imboccatura della grotta. Alcide per inveterata abitudine aveva annotato tutto, aveva memorizzato le procedure e familiarizzato con i servi addetti alle manovre.

Agì di notte, quando il castello era sprofondato nel sonno, soltanto qualche scolta di guardia sulle mura si attardava in pigri giri di ronda intervallati dai tempi vuoti del breve sonno rubato al dovere.

I suoi uomini agirono con rapidità e decisione; nel volgere di una mezz’ora la brigata, portata a termine l’azione, s’imbarcava sulla piccola lancia ancorata nel cuore della grotta per raggiungere il capo della Mastefina dietro il quale l’attendeva una tartana che li avrebbe portati oltre Hudrentu e da lì, a cavallo, fuori dalla contea per far ritorno nel nido d’aquila della residenza di Ignazio.

Quelli che seguirono furono giorni di riflessione e di analisi: i tre amici s’interrogarono a lungo sulla situazione, mentre la liberazione di Ignazio e Damiano già preparava un nuovo, definitivo cambio di scena.

Alcide, oltre alle accese discussioni di tipo politico e militare che riempivano le giornate del gruppo, aveva molto da riflettere sulla propria condizione personale, sulla scelta istintiva di portare soccorso all’amico liberandolo dall’imminente, sicura morte per mano di suo padre o di qualche sicario a lui fedele.

Aveva egli tradito suo padre? Era questa la domanda che gli si arrovellava nella testa, alla quale non aveva pensato nel momento dell’azione. Alla quale se ne sovrapponeva un’altra, sopravanzandola: Aveva egli, Alcide, un dovere di lealtà nei confronti di quel padre che lo aveva ignorato fino al momento dell’estremo bisogno? Affiancata da una terza domanda sulla possibile contrapposizione tra fedeltà confliggenti: A quale delle due fedeltà, quella del sangue o quella dell’amicizia, avrebbe dovuto dare la priorità?

Ne aveva parlato con Damiano, a tu per tu, evitando di coinvolgere Ignazio. Damiano era estraneo alla personale, intima inquietudine che assillava Alcide, ne era meno coinvolto, nonostante il debito di riconoscenza nei suoi confronti.

«Un amico fedele vale più di mille parenti», disse Damiano, parafrasando Euripide, per tranquillizzarlo, ben sapendo quanto, fin dall’antichità, fosse radicata l’idea dell’amicizia come valore supremo, spesso più solido e profondo degli stessi rapporti famigliari o di sangue.   

«Anche quando il parente è tuo padre?» chiese Alcide tormentato dall’idea del tradimento.

«Tu sei amico di Ignazio?» chiese Damiano.

«Lo sono».

«In che senso lo sei?»

«Per lui sarei stato disposto a dare la vita, e ancor di più in quest’occasione in cui la minaccia proveniva da un mio consanguineo».

«Quindi il tuo è stato un atto di amicizia?»

«Tale lo ritengo e ne son fiero».

«E allora a che pro arrovellarsi?»

«Per via del tradimento».

«Dovevi scegliere tra opzioni antagoniste. Perché hai scelto di salvare Ignazio?»

«Per rimediare a un danno irreparabile e ingiusto».

«Riparare un danno ingiusto, un omicidio, secondo le leggi di natura che governano il mondo, può essere perseguito come un tradimento?»

«Per quanto ne so, direi proprio di no. Però la mia non è una questione giuridica, è questione morale che alberga nella mia coscienza».

«Che di fronte all’altra questione morale posta dalla necessità di soccorso all’amico ha avuto la peggio. Senza contare della qualità del rapporto morale esistente (o inesistente) tra il nobile Alcide e l’abietto conte Patruno».

Non so dire con certezza se Damiano convinse Alcide della sua nobiltà d’animo limpidissima, però ho buone ragioni per pensarlo. Di lì a poco, infatti, Alcide fece una scelta coraggiosa e definitiva e anch’essa sarà da affiancare a quella sequenza di cause ed effetti di cui accennavo all’inizio del capitolo.

 



[1] Lisandro,  comandante (navarco) della flotta spartana nel 407 a.C., sconfisse la flotta ateniese di Alcibiade nel corso della guerra del Peloponneso in cui Sparta affermò la sua egemonia.

[2] Il Giustiziere (del re) era l’organo giurisdizionale al quale competeva l’esercizio della giustizia criminale.

 

 

 

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