Porfirio Giganti sorprende Lucina mentre la contessa sta per abbandonare Leuternia. Il tentativo di sequestro e di stupro è sventato dall’intervento di Ignazio che invita il rivale a schierarsi dalla parte del popolo oppresso. Alcino Giganti sequestra Sofia di ritorno da Lecce e le propone un’alleanza per sconfiggere Ignazio e impedire l’autogoverno popolare.
L’imbasciata ca ficera Sufia e don Prucopiu allu conte de Lecche pe’ parlamentare nna ‘ntisa contru li Giacanti e la zzitulanza de Sufia e Ugu, fiju de lu conte, nunn’era sciuta bona. Nunn’era bbastata la beltade de Sufia, ca puru hia nnamuratu u giovine leccese, pe’ cunvincere u sire a lu ccuntintare; li desideri e li sentimenti de lu giovine scapitarene a cuspettu de le cunvinienze de lu conte, ca timia cu se nnimica i gemelli Giacanti.
La guerra dei Giganti andava avanti a fasi alterne. Non era una guerra vera e propria perché non c’erano eserciti schierati, migliaia di uomini in armi che si affrontavano in battaglie campali; aveva i caratteri della guerra per bande, nell’attesa, almeno nelle intenzioni di Damiano e di Ignazio, che si potesse trasformare in rivolta popolare una volta eliminati dalla scena i Giganti o il conte loro avversario.
Le bande scorrazzavano per la piana e sulle serre, di tanto in tanto si scontravano in veloci scaramucce senza conseguenze significative; qualche volta si registrava la conquista di una torre o di una postazione fortificata da parte di un contendente o di un altro, niente di determinante e tantomeno di definitivo, in ogni caso. Si scontravano con alterne fortune soprattutto le bande di Cocidio e di Alcide con quelle dei fratelli Giganti, senza dover mai registrare uno scontro diretto tra i campioni delle due parti avverse.Ignazio, Damiano e i loro seguaci se ne stavano al coperto, si dedicavano alla predicazione della ribellione contro il potere nobiliare infiltrandosi nei casali e cospirando nelle città. La loro iniziativa penetrava nella coscienza del popolo per i motivi evidenziati in precedenza e per le conseguenze nefaste provocate dalle incursioni delle bande sulla vita dei contadini e sulle attività agricole.
Tutto, insomma, rimaneva sospeso, nell’attesa che qualche iniziativa o un evento fortuito facessero pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra.
Fu la casualità a distribuire i pesi sulla bilancia, al di là dei meriti e delle colpe, gettati sui piatti alla rinfusa dalla dea bendata? Gli antichi l’hanno rappresentata con la benda sugli occhi per simboleggiarne l’imparzialità, ma mi chiedo se può essere imparziale chi non vede gli accadimenti nella loro dimensione reale e non ne valuta lo scorrere e non guarda negli occhi i contendenti per valutarne l’animo e decifrarne i sentimenti. Allora può accadere che sia il torto a vincere e la ragione a soccombere, così che la legittima aspettativa viene punita e l’usurpazione, come in un gioco di prestigio, riconosciuta come diritto legittimamente esercitato.
O è semplicemente la fortuna (la Tyche che con la destra regge il timone e con la sinistra imbraccia la cornucopia) a decidere i destini degli uomini, indipendentemente dai loro sforzi e dal loro ingegno?
O forse è l’audacia dimostrata sul campo, il coraggio a far premio sul caso e sulla fortuna? O per prevalere bisogna possedere l’intelligenza pratica (la metis[1] degli antichi Greci), che è precisione e rapidità, accortezza e intuito, le doti che consentirono a Ulisse di prevalere sulla forza bruta del ciclope?
Nell’attesa che si decida lo scontro non ci resta che metterci in attesa, cari lettori, e scorrere lo svolgimento di quei pochi atti, il cui numero non supera le dita di una mano, che hanno determinato la soluzione. Spetterà poi ad ognuno decidere se furono l’audacia e il coraggio a determinarne l’esito oppure il caso o ancora la fortuna o l’astuzia; se prevalse la giustizia o il suo contrario e se quell’esito fu quanto ci saremmo aspettati che accadesse e perché.
Portato a termine l’incarico affidatole da Ignazio, Lucina, per evitare i possibili pericoli connessi alla sua posizione controversa, si preparava ad abbandonare Leuternia accogliendo il suggerimento del figlio previdente.
La contessa era stretta tra due fuochi: da un lato la lealtà verso il marito e il figlio legittimo, dall’altro il trasporto per il figlio della passione sacrificato sull’altare della ragion famigliare. Non fu per lei una decisione troppo dibattuta, in pratica decise da che parte stare fin dal momento in cui le fu noto il coinvolgimento del figlio filantropo. D’altronde, a quale lealtà poteva ancora essere legata dopo le offese arrecatele da Teo? Il lettore ne è a conoscenza e può immaginare quanto grande sia stata la sua sofferenza in un crescendo culminato nella minaccia alla vita di Ignazio per il braccio nerboruto di Alcide. E se le sorti della contesa avessero arriso agli avversari del conte, quale sarebbe stata la reazione di esso nei suoi confronti qualora fosse rimasta a Leuternia? Teo avrebbe esitato a imputarle le colpe del figlio bastardo rivalendosi sul suo corpo indifeso? C’era Cocidio, è vero, e l’abbandono l’addolorava, però lui seguiva le orme del padre, ne era succube, e mai aveva mostrato per la madre quel trasporto a cui una madre ha diritto per averne generato la vita. Ad ogni modo non pensò di fargli torto, per lui rappresentava una garanzia sulla vita, almeno per i pericoli che potevano venirgli da Ignazio e dai suoi alleati. A Cocidio era stata vicina e lo aveva incoraggiato quando Teo, sostenuto da Sofia, aveva brigato per avere al suo fianco Alcide, il suo figlio bastardo, come Sofia d’altronde. Era stata l’ultima offesa che accomunava figlio e madre nella medesima ingiuria e li allontanava dal padre-marito. Lucina aveva cercato di soffiare sul fuoco dell’offesa, aveva incoraggiato il figlio a simpatizzare con il fratellastro nel nome della madre comune e lo aveva sollecitato a trovare con lui un accordo per neutralizzare il secondo fronte della contesa e salvare il beneficio feudale spettante alla propria famiglia. Anche a costo di sacrificare il potere del padre.
Gli aveva detto: «È tuo padre il bersaglio di Ignazio e del popolo di Leuternia».
«Madre, sbaglia chi accondiscende alle pretese del popolo, perde la stima dei suoi pari e non conquista quella dei sudditi», rispose il figlio con alterigia, dimostrando scarso acume politico e nessuna intelligenza tattica.
«Tu, figlio mio, non hai colpe agli occhi del popolo e puoi dare tutte le garanzie di libertà che esso cerca», aggiunse Lucina.
E Cocidio, incapace di comprendere il senso delle parole materne: «Avrei da temere gli appetiti di Ignazio che vuol prendere il posto della nostra famiglia e insediarsi sul trono di Leuternia».
«Saresti tu il nuovo conte, prenderesti tu il posto di tuo padre», aveva risposto la madre, con la voce strozzata.
La frase, pronunciata quasi con disperazione di fronte all’incomprensione del figlio, era stata abbastanza incauta e compromettente. Se la ricerca di un rapporto tra i due fratellastri poteva essere considerato come il desiderio di una madre di non vedere i suoi due figli guerreggiare l’un contro l’altro, l’allettamento finale poteva essere interpretato come un tradimento e l’avrebbe di certo persa qualora fosse arrivato alle orecchie del conte.
Poteva fidarsi di Cocidio o avrebbe dovuto temerlo?
Di fronte a tale interrogativo non aveva esitato ed era partita senza rimpianti.
Accadde che, mentre era in viaggio scortata da pochi armigeri, il convoglio fu intercettato da una banda al comando di Porfirio Giganti. Non ci fu possibilità di scampo per i viaggiatori, né per la scorta armata. Circondati dal soverchiante numero degli assalitori, furono costretti alla resa.
«Scortiamo una signora che raggiunge un parente nella città di Andria», disse il capo scorta a Porfirio che si era avvicinato alla carrozza.
«Chi è codesta signora che si mette in viaggio in tempi così perigliosi?» lo apostrofò Porfirio smontando da cavallo e dirigendosi verso la carrozza.
All’interno della cassa Lucina, preoccupata per l’improvviso arresto e per le immagini poco rassicuranti filtrate attraverso il finestrino, confabulava con la dama di compagnia raccomandandole di restare calma e di non svelare la loro vera identità. Le donne, qualora fossero state richieste di identificarsi avrebbero asserito di essere la moglie e la figlia di un ricco armatore di Leuternia e così speravano di farla franca e di passare indisturbate.
Le cose non andarono come previsto. Porfirio aprì la porta e scostata la tendina invitò le occupanti a scendere dicendo con affettazione, rivolto a Lucina:
«Gentile signora, sono lieto di fare la vostra conoscenza. Sono spiacente di incontrarvi in una situazione così inusuale, ma ne sono comunque onorato».
Lucina dissimulò con eleganza il disgusto provocato dalla figura di Porfirio, le cui parole affettate e fintamente gentili non erano sufficienti ad attenuarne la scostante impressione. Quindi, rivolta al suo interlocutore, rispose:
«Ho sentito molte storie su di voi, capitano. La vostra fama vi precede ovunque andiate».
Porfirio ne fu lusingato ed era sul punto di risponderle con parole al miele proprio nel momento in cui un soldato gli si accostò e con fare circospetto lo informò della vera identità della donna. A quella rivelazione Porfirio, come assalito da una furia incontenibile, incominciò a latrare come un cane inferocito:
«Volevate ingannarmi con la vostra bellezza e il portamento elegante, siete una volgare sgualdrina e come tale sarete trattata», quindi la afferrò con le sue grosse mani come se agguantasse un agnello sacrificale, e nonostante le urla di terrore di Lucina, il suo scalciare come una puledra imbizzarrita, la condusse in un vicino pajaru dove avrebbe consumato il suo turpe intendimento. Altrettanto si accingeva a fare la soldataglia nei confronti della dama di compagnia e delle serve che accompagnavano la contessa.
Per fortuna delle povere donne oramai in balia della foia degli assalitori, qualcuno aveva vigilato sulla sicurezza di Lucina. Quel qualcuno era Ignazio il quale, conscio dei possibili pericoli a cui era esposta la madre durante il trasferimento, aveva organizzato una nutrita scorta supplementare per vigilare da lontano sulla sua incolumità.
Quando Ignazio fu informato dagli esploratori collocati lungo il tragitto, cavalcò con i suoi a briglia sciolta calando come un falco sulla sbracata banda di Porfirio che in men che non si dica fu sbaragliata e costretta alla fuga. Tra i due capitani ci fu un veloce e incruento confronto: Ignazio con la spada in pugno era corso verso il pajaru, dove era stato indirizzato dalle occhiate del cocchiere, per difendere l’onore della madre; vide il Giganti uscire dalla bassa apertura della costruzione disadorno di giubba e di spada, incredulo e indispettito per l’imprevista interruzione dell’abietto convegno a cui si accingeva.
«Chi sei tu che osi disturbare la mia quiete e il mio passatempo?» Latrò Porfirio in direzione dell’uomo che sopraggiungeva.
«Il mio nome è Ignazio De Grandis e sono qui per punire le tue immonde voglie», rispose Ignazio.
Il nome pronunciato con tanta sicurezza e l’accorrere di molti uomini in armi intorno al loro capitano spinsero il Giganti a una mossa disperata: rientrato nel rudimentale ricovero eletto a occasionale alcova, recuperato lo spadone prima deposto, agguantò Lucina e facendosene scudo e minacciandola di morte cercò di aprirsi un varco tra la falange nemica.
Poiché Ignazio e i suoi non indietreggiavano né aprivano il varco sperato, Porfirio con voce gutturale che sembrava rimbombare in un antro cavernoso, disse:
«Fatti da parte e lasciami passare o la tua insolenza la pagherà costei».
«Se sei un uomo e un soldato non farlo. Il suo sangue ricadrebbe su di te e sulla tua discendenza e il tuo nome sarebbe per sempre maledetto da tutte le genti», rispose Ignazio, preoccupato per la sorte della madre.
«Della vita di costei non mi curo, né del giudizio delle genti».
«Ciò è indegno di un cavaliere».
«Se oserete attaccarmi oltre a lei molti altri morranno per mia mano, ma io non soccomberò per la vostra», tuonò ancora Porfirio, protetto dalla profezia che lo accompagnava dalla nascita.
«Lascia andare la contessa e sarai salvo anche tu, potrai andare accompagnato dalla mia parola e dal mio onore», propose Ignazio per evitare i pericoli connessi al possibile scontro.
Porfirio non perse l’occasione per stuzzicare il rivale:
«Credevo che foste qui per combattere il conte e vi ritrovo a proteggere contesse».
Ignazio rispose per le rime: «Combatto il conte ma non sarò mai vostro alleato. Sono alleato al popolo di Leuternia che non sopporterà oltre il gioco della servitù, sia il conte Patruno a regnare o Porfirio col suo degno fratello».
Porfirio con sprezzo: «La tua scelta costerà molte lacrime a tua madre e molto piangerà anche il popolo di Leuternia».
Ancora Ignazio: «Abbandona la tua ambizione e aiuta il popolo che fu governato con saggezza dal tuo avo Celius a ritrovare la sua antica pace. Metti la tua forte mano al servizio della libertà e ne trarrai fama e onore».
Ascoltando queste parole e il nome del suo avo, Porfirio sembrò vacillare, spinse Lucina verso Ignazio che lo fronteggiava a una decina di passi e con la spada in pugno, la punta abbassata a indicare la sospensione delle ostilità, s’incamminò verso il suo cavallo legato a un albero d’ulivo non lontano. Non disse niente, camminò a larghi passi e si allontanò nella direzione presa dai suoi armigeri in fuga.
Del suggerimento di Ignazio non tenne alcun conto. Nel pensiero dei Giganti non era contemplato il popolo come soggetto senziente, era solo strumento, e se alle parole di Ignazio sembrò vacillare era solo per il ricordo dell’avo, non certo per l’invito a farsi campione di idee da lui strenuamente abborrite.
Porfirio se ne andò indisturbato, ma il suo orgoglio ferito, nonostante l’apparente capacità di controllare emozioni ed impulsi, sanguinava per l’occasione sfumata e le insoddisfatte voglie e reclamava una veloce riparazione dell’affronto.
Se le insoddisfatte voglie trovarono ben presto sfogo in un rapporto mercenario come tanti, ciò che non avrebbe trovato soddisfazione era l’occasione sfumata.
Porfirio, trovatosi inaspettatamente al cospetto della contessa, aveva progettato di sequestrarla e farne strumento di pressione sul conte suo marito; d’altronde, per come si era evoluta la situazione con l’entrata in scena di Alcide e di Ignazio, era consigliabile usare prudenza e battere la strada della diplomazia, come aveva suggerito la vecchia madre Gaia.
Come avrebbe conciliato lo stupro di Lucina e la mossa diplomatica non è dato sapere. I due inconciliabili propositi erano svaniti sul più bello e anche se Porfirio se ne rammaricava, una seconda occasione l’avrebbe avuta e presto ne avremo notizia.
Lucina nel frattempo, spaventata a morte per la brutta avventura e lo scampato pericolo, si rifugiò tra le braccia del figlio che l’aveva coraggiosamente difesa e proruppe in un copioso pianto liberatorio. Le lacrime versate cancellarono definitivamente il dubbio sulla scelta di campo presa con la risoluzione di allontanarsi da Leuternia, dal marito e dall’altro figlio che nel fratello vedeva un concorrente, un intrigante e un impostore. Il viaggio di Lucina proseguì poi senza altri intoppi fino a destinazione.
Nello stesso torno di tempo in cui si compiva la disavventura di Lucina, un’altra vicenda era quasi giunta al suo compimento.
Sofia, se il lettore ricorda, l’avevamo lasciata alla corte del conte di Leche con l’obiettivo di neutralizzare la tacita alleanza tra questi e i gemelli Giganti.
La sua missione era sostanzialmente fallita.
Il suo charme aveva suscitato turbamenti e passioni amorose inespresse nel giovane rampollo del conte, insufficienti tuttavia a far prevalere il sentimento sulle crude ragioni politiche del padre. Ugo, questo era il nome del giovane, aveva espresso la volontà di dar seguito al suggerimento di fidanzamento avanzato da don Procopio, però si era scontrato frontalmente con il diniego assoluto del genitore, mosso da ben altre mire in quella contesa che contrapponeva il conte Patruno e i fratelli Giganti. Inoltre c’era un’altra questione che Gualtiero considerava pressappoco come un’offesa. Sofia, come ho già avuto occasione di riferire, era figlia naturale e non legittima di Teo, quindi avrebbe rappresentato per il giovane Ugo una diminutio, una scelta di ripiego inidonea ad aumentare il prestigio della casata. Gualtiero per il figlio aspirava a qualcosa di meglio: non certo sotto il profilo della bellezza, che non era in discussione in quanto Sofia era bella tra le belle e dotata di grazia e intelligenza a tal punto sublimi da non temere il confronto con le più titolate figlie di principi e re; aspirava alla mano di pulzelle di lignaggio principesco e tale era la sua ambizione che, se mi è consentita una breve digressione indiscreta, il povero Ugo dovette attendere i quarant’anni, poco prima della morte del padre, per prendere moglie, e a quel punto le candidate all’impalmazione latitavano e il pover’uomo dovette accontentarsi di un partito meno prestigioso dei tanti ai quali era stato costretto a rinunciare… per non parlare dell’avvenenza dell’attempata consorte.
Il povero don Procopio si era dato da fare, aveva utilizzato tutti gli artifici retorici di cui era capace (in verità non granché), per ottenere soltanto una blanda promessa di «considerare la questione con responsabile discernimento»: affermazione che nel circospetto linguaggio diplomatico del conte corrispondeva a un garbato ma deciso rifiuto. L’esito della missione aveva gettato in ambasce il povero chierico, non tanto per il rifiuto in sé, del quale non traeva alcun giudizio essendogli del tutto indifferente che Sofia sposasse questo o quello o non si sposasse affatto, quanto perché avrebbe dovuto affrontare le ire del conte Patruno che di sicuro gli avrebbe addossato la colpa del fallimento e per punirlo lo avrebbe allontanato da sé per qualche tempo. Neanche dell’allontanamento si preoccupava don Procopio, lo angustiava la temuta minaccia (più volte avanzata e mai, per sua fortuna, attuata) di decurtargli o di revocargli la rendita che gli garantiva un’esistenza al riparo dalle incertezze materiali della vita e un ruolo di prestigio al fianco del conte, posizione per la quale, egli venalmente pensava, vale la pena di rischiare qualche reprimenda e di soffocare la propria personalità nel silenzio e nell’ubbidienza.
Sofia e don Procopio, demoralizzati dall’esito dell’ambasceria, si erano messi sulla strada del ritorno con un umore maligno che li isolava nei cupi pensieri del fallimento. Il silenzio regnava sovrano all’interno della carrozza, interrotto di tanto in tanto da qualche moncone di preghiera biascicata dal prete, e col silenzio cresceva la tensione sui loro volti estenuati.
Delle preoccupazioni di don Procopio ho già detto; non dissimili, perché allo stesso modo venali, erano quelle di Sofia, con l’aggiunta di una discreta dose di ambizione repressa. La donna aveva puntato con decisione sul buon esito dell’iniziativa e già si vedeva contessa di un feudo prestigioso e ampio, al quale mai avrebbe potuto aspirare in altri tempi. Aveva confidato sulla sua avvenenza e aveva colpito nel segno precipitando il povero Ugo in una situazione di tale trasporto amoroso da richiedere un tempo non breve per guarire da quel male d’amore. E poiché era di alcune spanne più intelligente, accorta e capace del giovane innamorato, e anche molto intrigante e manovriera, pensava di poterlo dominare e di avocare a sé il reggimento effettivo del feudo. Tutto ciò era svanito e già Sofia pensava a come rivalersi dell’incauto rifiuto.
In tali pensieri erano immersi i due viaggiatori quando il viaggio fu inopinatamente interrotto.
In quei tempi viaggiare a Leuternia era oltremodo pericoloso. Ai briganti che da sempre infestavano il territorio, come in tutto il regno d’altronde, si aggiungevano le bande dei fratelli Giganti che non disdegnavano di arrotondare il soldo con ruberie e rapine a danno degli ignari e incauti viandanti.
La carrozza era stata bloccata dagli uomini di Alcino.
Non si creda che l’incidente e il rapimento dei passeggeri dirottati verso un nascondiglio sicuro all’interno della contea di Leche siano eventi casuali come altri e come quello occorso a Lucina, si trattò dell’attuazione di un piano ordito a bella posta fin da quando i Giganti erano venuti a conoscenza della missione di Sofia.
Arrivati nel luogo destinato a ospitarli, i due malcapitati, visibilmente scossi e spaventati, furono sorpresi da uno scenario inaspettato: nel cortile interno della masseria era stato schierato una sorta di picchetto d’onore di uomini in armi e sulla porta dell’appartamento padronale si stagliava l’alta figura di Alcino che si fece loro incontro per accoglierli con gli onori riservati al loro rango.
«Benvenuta, donna Sofia, in questo modesto e provvisorio ricovero».
Alcino pronunciò le parole di benvenuto con un tono di voce che voleva essere gentile e cordiale, ma poiché la natura dell’uomo mal si combinava con siffatta intenzione, ne uscì un latrato impacciato, a mala pena comprensibile ai due malcapitati.
Sofia comprese la predisposizione dell’uomo e rincuorata, con sguardo fermo e penetrante rispose:
«Non so chi voi siate, signore, né perché siamo stati portati in questo luogo sconosciuto contro la nostra volontà».
«Vogliate accettare, signora, le mie più umili scuse per il disagio provocato dal mio ardire. Siete ospite di Alcino Giganti, vostro lontano parente e non nemico della vostra famiglia», si giustificò il Giganti con tono dimesso e volume incontrollato.
«Se non siete nostro nemico, quale motivo vi ha spinto a progettare quest’incresciosa messinscena?» chiese Sofia che aveva recuperato appieno la sua consueta prontezza di spirito e già immaginava quali potessero essere gli sviluppi della vicenda. In un primo momento, considerato che non si trattava di un ordinario caso di rapina, aveva pensato a un sequestro a scopo di riscatto; la presenza di un Giganti le aveva prospettato un altro scenario, anche se la paura di pericoli maggiori e imprevisti non l’aveva abbandonata del tutto.
«Di questo parleremo con calma. Ciò che io e mio fratello Porfirio desideriamo è che tra noi termini l’intollerabile incomprensione che ci contrappone», disse Alcino porgendo il braccio alla dama per invitarla a entrare nell’appartamento padronale. Gentilezza che Sofia, incamminandosi verso l’entrata, finse di non vedere.
Parlarono a lungo e dopo molti giri di parole Alcino esplicitò la sua richiesta, già nota peraltro, e fece la proposta di pacificazione: «La presenza di Ignazio a Leuternia non promette niente di buono per nessuno. Egli è amico di Alcide che lo stima e ne è ricambiato. Il conte vostro padre, a causa di quest’amicizia si trova in un grave imbarazzo ed è escluso che senza l’aiuto del figlio bastardo possa riuscire a sconfiggere il campione del popolo».
Sofia si risentì per l’epiteto affibbiato al fratello, che era anche la sua condizione e per questo, solo per questo, rispose piccata:
«Alcide è chiamato a combattere voi. Nei confronti di Ignazio nessun imbarazzo, e quanto al popolo, se si esclude una piccola cerchia di borghesi insoddisfatti e qualche nobiluccio da strapazzo, sta come sempre alla finestra. Il conte ha comunque ottimi argomenti per soddisfarne le attese».
«Il problema è che dovete difendervi su più fronti, con la prospettiva di perdere la testa e la contea», aggiunse Alcino in termini più espliciti.
Sofia, immaginando che Alcino aveva in animo di avanzare una qualche ipotesi di accordo, disse:
«Venite al dunque. Qual è la vostra proposta?»
E Alcino: «Facciamo un patto tra noi e combattiamo insieme Ignazio, la piccola cerchia di borghesucci insoddisfatti e i pochi nobilucci da strapazzo. È nel vostro interesse quanto nel nostro addivenire a tale conclusione perché non si può rischiare di perdere ciò che Celius, il nostro comune progenitore, ha costruito con l’ingegno e il sacrificio».
Nel dire si era soffermato sarcasticamente sugli aggettivi “piccola” e “pochi”, calcando sgradevolmente la voce quasi a sottolineare che non di quattro avventurieri si parlava ma di due ceti fondamentali nella struttura sociale della contea.
Sofia, ignorando il sarcasmo di Alcino, si concentrò sulla proposta di alleanza nella quale intravedeva l’opportunità di liberarsi dall’ospitalità coatta a cui la costringeva il Giganti:
«Bene! Se questa è la vostra proposta, me ne farò latrice presso il conte. Avrete quanto prima una risposta».
«A fare l’ambasciata sarà il vostro accompagnatore, voi attenderete la risposta in nostra compagnia. È evidente che in caso di risposta negativa non potremo lasciarvi andare…», disse Alcino, facendo presagire indeterminate rappresaglie.
«Voi comprenderete che trattare in stato di soggezione è umiliante. Vi do la mia parola che userò tutta la mia influenza per convincere il conte».
Discussero ancora senza giungere ad un accordo. Troppo ghiotta era l’occasione per i Giganti e non potevano lasciarsela scappare di mano. Avere in ostaggio Sofia rappresentava una sicura fonte di pressione che avrebbe mandato in ambasce il conte e lo avrebbe di certo indotto, obtorto collo o volentieri, ad accettare l’infida alleanza.
I Giganti non avevano visto male architettando l’agguato, però non avevano visto tutto. Quando si giocano giochi di strategia o si prepara una battaglia (evento quest’ultimo che i Giganti dovrebbero conoscere bene essendo la guerra il loro mestiere e il loro passatempo preferito) non ci si può affidare a una sola mossa o a una sola decisione, per brillante e spiazzante che sia, è necessario disporre di alternative pensate in base alle possibili risposte dell’avversario. I Giganti pensata la prima mossa avevano creduto di aver in mano la vittoria e dimenticarono di immaginarne le possibili evoluzioni sullo scacchiere: d’altronde, com’era nella loro rozza natura, sapevano solo menar le mani, affidarsi alla straripante forza di cui erano dotati. Ma non sempre, come ognun sa fin dai tempi del gigante Davide e del pastorello Golia di cui parla la Bibbia, la forza prevale sull’intelligenza e l’astuzia… e Sofia quelle due qualità le possedeva entrambe e le sapeva mettere a frutto.
Per l’ambasciata fu istruito a dovere il buon don Procopio che alla notizia non stava più nella pelle. Aveva temuto per la sua vita e si era raccomandato più volte l’anima a Dio. Ora che le preghiere erano state esaudite si sentì fortificato nella fede e si apprestò a condurre la missione con zelo e sollecitudine inusitati per la sua indole indolente e cauta.
Intanto, nelle more della trattativa, a Leuternia si erano registrati eventi che avevano modificato il quadro della contesa. Di essi dovrò darne conto nel prossimo capitolo, prima di proseguire il racconto della sorte di Sofia tenuta in ostaggio dai fratelli Giganti.
[1] Metis designa la capacità di trovare soluzioni concrete a problemi immediati. È l’astuzia che sa cogliere il momento opportuno per l’azione, la prontezza di spirito che permette di agire superando un ostacolo improvviso. (G. Ieranò – Il mare d’amore, Laterza, 2019, pag. 58).
Nessun commento:
Posta un commento