Ignazio a Leuternia. Le beffe organizzate da Ignazio ai danni di Teo dopo l’assassinio del padre. Gli incontri con la madre e Alcide preparano un diverso esito della contesa in atto e nuove speranze per Leuternia. Teo, con l’aiuto di Alcide, prefigura la realizzazione della sua rivincita su Ignazio.
Capitolo quattordicesimo
Quannu se vittera se fìcera tante feste. Hia mutu tiempu ca nu se vidiane e ncerane mute cose de cuntare de stu munnu ca nu mbole cu capisce quantu, pe’ la vita de li cristiani, su’ necessarie a pace e l’amicitia tra li populi. Pe’ festeggiare, Ignatiu fice purtare nna hutticeddhra de ddhru mieru ca sapia puru Alcide e vìppera alla salute de l’amicitia ca li unia e alla furtuna de l’habbitanti de Leuternia.
Il “filantropo”, nonostante l’orgogliosa sicumera esibita da Teo di fronte a sua moglie, fece paura al conte a più riprese e ogni volta per lui fu un’umiliazione insopportabile. Ignazio nel tempo intercorso tra la morte del padre e il suo incontro con Damiano aveva avuto occasione di ordire alcune azioni, delle vere e proprie beffe, contro il conte Patruno che tanto lo avevano indispettito e tanto lo avevano sminuito agli occhi dei suoi contemporanei.
Ne racconterò solo una per partecipare ai fedeli lettori (che, arrivati fin qui ne hanno acquisito, per costanza, il diritto) l’idea del risentimento che il conte poté accumulare contro il figlio bastardo, come lui aveva detto, di sua moglie Lucina.
Sulle altre, altrettanto esemplari e beffarde, devo per necessità soprassedere, per non smarrire il filo conduttore della già complessa vicenda che con difficoltà m’ingegno di ricostruire.
La prima volta era stata quando il conte Patruno aveva deciso di abolire il diritto di legnatico sui beni comuni delle Universitas. L’immotivato abuso comitale obbligò i cittadini, compresi i poveri abitanti dei casali, ad acquistare legna e carbone per gli usi domestici, rimpinguando le finanze già opulente del conte e arricchendo pochi mercanti che ne gestivano il commercio.
Nel corso dell’inverno, quando la situazione iniziò a farsi preoccupante e alcuni contadini erano stati arrestati per furto di legname, Ignazio, informato della vicenda, ordì un’iniziativa che scornò il conte e lo costrinse a ripristinare il diritto violato.
Avvenne che in alcuni casali periferici dove più accese erano state le proteste dei villani, un giorno arrivarono di gran carriera alcuni cavalieri con l’ordine per il rappresentante in loco del conte di distribuire ad ogni famiglia un sacco di carbone e una carretta di legna per far fronte alle esigenze culinarie e di riscaldamento domestico necessario in quell’inverno eccezionalmente freddo e umido. La notizia si diffuse in brevissimo tempo e richiamò lunghe file di questuanti alle porte dei magazzini di stoccaggio dei beni tanto necessari e agognati. I funzionari comitali, dapprima increduli, di fronte all’evidenza della missiva provvista del sigillo del conte e da questi firmata furono costretti ad eseguire l’ordine e a rilasciare agli incaricati della vendita una lettera di credito da riscuotere presso il camberlingo della contea.
Quando il conte fu informato dell’accaduto e cercò di correre ai ripari denunciando l’azione ostile di forze non identificate, il danno era stato compiuto e si rivelò irreparabile.
La notizia si diffuse a macchia d’olio nei casali non beneficiati dal medesimo (fittizio) ordine e i cittadini, di fronte alle resistenze di funzionari comitali e mercanti, erano passati alle vie di fatto, avevano assaltato i magazzini asportandone tutta la merce custoditavi. La situazione divenne presto ingestibile, specie nei borghi maggiormente abitati e nelle città, dove il movimento assunse le sembianze di una vera rivolta che non si limitava a svuotare i magazzini del carbone e della legna, ma si spingeva a reclamare il ripristino del diritto abolito, la scarcerazione di quanti avevano violato il divieto di fare legna e per sopraggiunta anche la riduzione delle gabelle sui generi di prima necessità.
A quel punto il conte, per calmare gli animi ed evitare guai maggiori, fu obbligato ad accogliere le prime due richieste.
Ma la storia non era ancora finita, ebbe un seguito altrettanto penoso per il sensibile amor proprio del conte.
Qualche tempo dopo sui portali delle chiese e sui muri dei palazzi pubblici furono affissi manifesti di rivendicazione della beffa. Il testo intitolato Prometeo restituisce il fuoco al popolo narrava il mito di Prometeo il quale, disattendendo il divieto di Zeus, aveva rubato il fuoco dall’Olimpo e lo aveva donato ai mortali. E aggiungeva, andando oltre il mito:
«Come Zeus aveva in odio i mortali fino a privarli del fuoco e a tenerli in uno stato di perenne soggezione, così anche il conte Patruno. A Leuternia il supremo detentore del potere ha in odio il suo popolo e vuole tenerlo in perenne soggezione, umiliato e povero, impossibilitato a esercitare le sue abilità e le sue arti, perché senza il fuoco nessuna attività degli umani è possibile».
Dopo la premessa il manifesto esplodeva in un’eclatante e inedita proposta, che era un programma politico, un programma di lotta contro il potere, che fosse quello comitale o quello centrale, qualunque forma di potere che non fosse l’autogoverno del popolo, la democrazia:
«Cittadini di Leuternia, il conte Patruno non è il vostro protettore, è il vostro nemico, voi avete il sacro dovere di combatterlo. Solo l’autogoverno del popolo vi può affrancare dalla servitù e aprire la strada del progresso e del benessere. Alzate la testa e il futuro vi arriderà. Tutti gli uomini amanti della giustizia saranno al vostro fianco».
Il manifesto era firmato da un’inedita e sconosciuta sigla: Gli amici di Prometeo, che di per sé era tutto un programma.
Quando il conte lesse il manifesto ne fu terrorizzato e prese ogni misura per impedire che il virus della democrazia si diffondesse. Quando poi si diffuse la notizia che l’artefice della beffa era stato il figlio di Euro, da lui barbaramente trucidato a tradimento, ne fu ancora più terrorizzato perché pensò che l’obiettivo di tanto clamore fosse solo la sua persona, presa di mira per esclusivo desiderio di vendetta. Il manifesto e tutto il resto li considerò semplici espedienti per intorbidire le acque e renderne accettabile e ineluttabile l’epilogo.
Da quel giorno il conte Patruno giurò a se stesso e fece promettere ai suoi figli ogni impegno per liberarsi da quell’incubo. Era un’altra sentenza di morte, come quella pronunciata contro l’incolpevole Euro, che compromise definitivamente i rapporti tra Teo e Lucina. Da quel giorno la contessa, già esacerbata dalla crudeltà del marito, iniziò a tessere una reta diplomatica per contrastarne l’azione e difendere la vita del figlio che ebbe cura di informare di ogni passo intrapreso contro di lui e contro il popolo di Leuternia suo alleato e protetto.
Ignazio aveva raccolto la richiesta di aiuto portatagli da Damiano e dopo i lunghi preparativi per definire una strategia operativa, insieme all’amico e a un nutrito drappello di suoi fedelissimi, partì per Leuternia. Con lui partirono in più di duecento, alla spicciolata, sotto le mentite spoglie di pellegrini e di mercanti, di briganti e di braccianti, di mendicanti e di monaci, andarono per strade tortuose, sostarono nelle selve e nei casali abbandonati, per infiltrarsi, al termine del viaggio, nelle pieghe sensibili delle città e dei casali. Il loro arrivo era stato annunciato e negli abitati di Leuternia erano stati predisposti i rifugi nei quali avrebbero atteso gli ordini. Altri contingenti sarebbero seguiti quando se ne fossero create le condizioni e fossero state conquistate posizioni protette dai possibili attacchi degli armigeri dei Patruno. Dei Giganti non ci sarebbe stato da temerne gli attacchi: nel confronto triangolare che si prospettava, il lato principale contrapponeva i Giganti ai Patruno; gli altri due lati che rapportavano gli antagonisti principali ai rivoltosi (e a Ignazio) erano da quelli considerati come secondari, poco più di un’inutile escrescenza con cui fare i conti dopo aver risolto la contesa cardinale. Su questa plausibile premessa Ignazio e i cittadini di Leuternia ponevano le basi della loro strategia temporeggiatrice: aspettare che i nemici si fiaccassero a vicenda nel duro ed estenuante confronto e nell’attesa, con rapide azioni di disturbo, sabotare le retrovie di entrambi gli schieramenti ed intanto predisporsi con le forze intatte all’attacco finale contro il vincitore dello scontro dinastico.
Era una buona strategia, senonché la situazione si complicò poco dopo l’arrivo di Ignazio a Leuternia, seguito dall’imprevedibile arrivo di Alcide. Sapere che questi era della partita complicava notevolmente la faccenda e imponeva un immediato e definitivo chiarimento. Grande fu l’angoscia di Ignazio quando ne fu informato; con risolutezza e senza por tempo in mezzo cercò un abboccamento con Alcide per confrontarsi con lui e decidere il da farsi. Era il secondo incontro clandestino a cui pensava, il primo, a cui si era dedicato fin dal momento della decisione di andare a Leuternia, era quello con la madre.
Sondò percorsi riservati che lo portarono a stabilire un contatto con Lucina, il tramite furono i monaci di Casole e la loro lunga ed efficiente rete di relazioni a cui niente, o quasi, era precluso. La incontrò nel piccolo cenobio annesso alla chiesa rupestre detta dei santi Stefani, nei pressi del piccolo abitato di Bausta, dove spesso l’aveva portata la sua devozione ed anche per la bellezza del luogo immerso in una luce e in un silenzio che favorivano la meditazione.
Non era la prima volta che madre e figlio s’incontravano; era la prima occasione d’incontro clandestino, per di più in quella particolare situazione e dopo la morte di Euro.
Quando nel silenzio e nell’oscurità di una piccola cella si ritrovarono, Lucina non riuscì a trattenere le lacrime. I due si abbracciarono e mentre la madre stringeva ancora al petto quel figlio abbandonato, esclamò con la voce tremante di angoscia:
«Perché sei venuto a Leuternia, figlio mio? Qui per te non può esserci buona accoglienza».
«Matre, mi ha spinto a questi lidi il pianto di dolore di un popolo oppresso», rispose Ignazio.
«Questo è anche il mio cruccio. Il conte mio marito ha un cuore duro e altero, le mie preghiere al cielo ed a lui stesso non sortiscono effetto e certo son punita per aver accettato il tuo abbandono», disse Lucina angosciata per la vita del figlio dopo l’arrivo di Alcide a Leuternia.
«Non è colpa del padrone dei cieli, matre, né della vostra obbedienza di figlia disgraziata. La colpa è solo sua, del conte vostro sposo la cui anima nera è certo invisa al cielo…».
«Ha chiamato l’Alcide, suo figlio sconosciuto, per combattere contro i Giganti. Or che tu sei venuto fin qui per combattere lui, lo aizzerà contro te per attuare la minaccia pronunciata quando mi rivelò di tuo padre la morte per sua mano», disse Lucina affranta e nel pronunciare le parole di morte si portò le mani al viso per nascondere l’angoscia e le lacrime che scendevano copiose sconvolgendole il petto.
«Non piangete matre sventurata, Alcide non può farmi del male. Lui è mio amico e mai s’alzerà su di me la sua spada, né la mia s’alzerà su di lui», rispose Ignazio con calma, prendendo le mani della madre per rassicurarla. Poi continuò: «Devo assolutamente comunicare con Alcide. Se voi, matre cara, vi farete latrice a lui di un mio messaggio, questa brutta vicenda di Leuternia sarà risolta evitando spargimento di sangue innocente».
«Dammi pure il messaggio ed avrai sempre in me, figlio amato, un’alleata fedele al tuo servizio».
«Fatta l’ambasceria vi prego, matre cara, abbandonate Leuternia e cercate riparo presso vostro fratello, o se altro albergo non riusciste a trovare, c’è il ducato di Avellino che sarà sempre aperto per voi».
«Un favore ti chiedo, amato figlio: se ne avrai il potere risparmia la vita a Cocidio; se ti è possibile risparmia anche Teo e l’altra sua figlia Sofia. Sii magnanimo, caro, e sarai compensato con onori sia in terra che in cielo».
Ignazio promise e i due, dopo aver molto parlato, si salutarono come se fosse l’ultimo incontro.
Lucina fece l’ambasceria per Alcide. Dal giorno del suo arrivo a Leuternia lo aveva evitato a bella posta, la minaccia di Teo bruciava sulla sua pelle come calce viva su una piaga e non mancava occasione di esprimere disappunto per quella inopportuna presenza che, diceva, avrebbe portato sventure alla contea e alla sua famiglia. Per tale motivo, quando gli fu recapitato l’invito di Lucina a un colloquio riservato, Alcide, che conosceva l’avversione della contessa nei suoi confronti, ne fu oltremodo meravigliato e per certi versi anche preoccupato. Egli non sapeva ancora della presenza a Leuternia di Ignazio, però conosceva, era un fatto universalmente noto anche se sottaciuto, il rapporto di consanguineità dell’amico con la contessa; poteva immaginare e accettare l’avversione nei suoi confronti e anche la decisione di ignorarne la presenza, la richiesta di un incontro proprio non riusciva a spiegarsela.
Rispose con garbo alla contessa dichiarando la propria disponibilità e invitandola a fargli conoscere il luogo dell’incontro. La rassicurò, infine, come da lei richiesto, sulla propria totale discrezione.
S’incontrarono in un convento di Clarisse il cui giardino dava su un tratturo poco frequentato che si inerpicava solitario sulla serra. Dopo i convenevoli di rito Lucina comunicò ad Alcide la proposta di Ignazio: «Dunque Ignazio è a Leuternia?», disse Alcide mostrando meraviglia.
«Non so dove sia, l’ho incontrato lontano da qui», rispose Lucina evasivamente per non danneggiare suo figlio.
«Riferitegli, contessa, che il suo coinvolgimento in questa guerra cambia le coordinate del mio impegno».
«Voi due potete porre fine ai turbamenti che sconvolgono Leuternia».
Lucina sperava con tutta la sua anima che quell’insperata alleanza riuscisse a risolvere la guerra contro i Giganti e a imporre al conte suo marito un diverso atteggiamento verso i cittadini della contea.
Intanto pensava: “Sarà possibile una tale alleanza? Quale sarà la reazione del conte?”
Alcide, non conoscendo le impressioni di Lucina né le intenzioni di Ignazio, disse: «Non lo so se possiamo, signora. La presenza dei terribili Giganti credo che non agevolerà una soluzione indolore. Di certo non ci sarà conflitto tra i soldati di Ignazio ed i miei, ma di questo parlerò direttamente con lui».
«Siete dunque disposto a incontrarlo?»
«Lo raggiungerò ovunque egli decida e sarò felice di bere con lui un bicchiere del chiaro vinello che coltiva nel casale sui monti dove ha posto radici».
«Vi ringrazio, capitano. Sarete informato dallo stesso corriere inviatovi per quest’incontro».
I due si separarono. Alcide uscì subito dalla porta del giardino che dava sul tratturo, Lucina si attardò in un incontro con la madre superiora per ringraziarla e richiederle di pregare per la salvezza di Leuternia. In cuor suo pensava: “Per la vita dei miei figli”, ma questo non osò palesarlo di fronte alla santa donna.
L’incontro tra i due capitani avvenne due settimane dopo nel luogo più impensabile che la fervida fantasia di Ignazio potesse immaginare: la villa dove era stato consumato l’omicidio di Euro. Perché quella scelta? Quale moto interiore lo spingeva a visitare quel luogo di morte? Altri l’avrebbero fuggito o, potendo, ne avrebbero alzato un mausoleo, o apposto una targa alla memoria. Lui forse pensava anche ad altro. Lo scopriremo più avanti, insieme a Teo Patruno che ne fu terrorizzato.
In effetti Ignazio aveva in mente un’altra delle sue beffe e aveva suggerito ad Alcide di chiedere al conte la disponibilità della villa come base per un drappello di suoi soldati e avamposto per le operazioni nel settore delle serre ove era ubicata. Gli fu accordata e ne prese possesso.
S’incontrarono in un’atmosfera allegra e positiva e si abbracciarono come fanno i vecchi amici quando non si vedono da troppo tempo e hanno da raccontarsi di molte avventure e di troppi dolori, dei fidi compagni scomparsi e delle tristi vicende di un mondo che non sa apprezzare la pace e la concordia. Ignazio aveva fatto portare una botticella del vinello decantato da Alcide col quale brindarono alla loro amicizia e alle fortune del popolo di Leuternia.
Dopo le feste e i brindisi si appartarono per discutere dell’incresciosa situazione che li vedeva schierati in campi contrapposti e dei rimedi per evitare d’incrociare le armi.
Disse Alcide per primo: «La mia presenza a Leuternia ha un unico scopo: scoprire chi è veramente il conte Teo, mio padre naturale; il resto è solo incidentale».
«Il resto sono i Giganti?», disse Ignazio.
«Eliminare la brutalità sempre al servizio di fini oscuri e malvagi è un obiettivo che avvantaggia tutti».
«In questo caso soprattutto il conte, non certo il popolo di Leuternia che soffre».
Alcide fu spiazzato dall’affermazione di Ignazio. La questione personale che lo aveva portato a Leuternia contraddiceva la sua biografia, gli poneva concreti problemi di coscienza e di coerenza. All’obiezione dell’amico rispose con una riflessione che era anche una proposta:
«Le guerre sono fatte di fasi e di momenti. Vince chi ha una strategia e una visione d’insieme, non chi è campione di tattica e non guarda oltre l’orizzonte delle singole scaramucce».
«A cosa pensi in concreto? Oggi a Leuternia il problema è il conte Patruno. Per i cittadini della contea è indifferente che vincano i Giganti o che il potere resti saldo nelle mani del conte».
«Sconfiggiamo i Giganti, dopo imporremo al conte tutte le riforme che il popolo reclama».
«La condotta del conte è inemendabile, ne ha già dato le prove in più occasioni. La sua signoria va abbattuta e sostituita dal governo del popolo che si autodetermina. In questa contingenza non c’è altra scelta a Leuternia».
«Ne parli con coscienza o per partito preso? Il tuo sguardo è offuscato dalla triste vicenda di tuo padre?»
«Potrei dire altrettanto di te, ma poiché non lo penso e tengo per certo che il tuo sguardo è sempre limpido, guarda dentro i miei occhi e poi dimmi se riflettono come specchi appannati».
Se non ci fossero stati tra loro la stima e l’affetto reciproci che avevano avuto molte conferme, la piega presa dal confronto avrebbe potuto incrinare la reciproca fiducia e prorompere in una rottura foriera di smisurati disastri. Invece produsse solo una reciproca sonora risata e li consigliò di alzare i calici per brindare alla loro amicizia e al popolo di Leuternia.
Il resto del tempo trascorso insieme lo utilizzarono per abbozzare i piani d’azione che li avrebbero portati al successo.
Quando il conte Patruno, dopo aver acquisito i servigi del figlio bastardo, fu informato del coinvolgimento di Ignazio nelle controverse vicende di Leuternia, ne fu quasi felice. Non del tutto, però.
Le beffe giocategli da Ignazio bruciavano come tizzoni ardenti nel braciere della sua vanità ed egli, dopo essersi liberato di Euro, era da tempo alla ricerca di un’occasione per liberarsi anche del figlio. Solo allora avrebbe trovato l’appagamento che cercava, avrebbe cancellato la macchia pendente sulla sua vanità. Le beffe ignaziesche, un tormento insopportabile per l’inquieto conte, sommate alla stessa esistenza del bastardo di sua moglie dichiaravano, così lui interpretava il sarcasmo con cui ne parlavano e l’accondiscendenza con cui lo trattavano i suoi pari, un grave vulnus al suo prestigio.
In realtà la figura di Ignazio costituiva una grave perdita di prestigio per Teo, non per le ragioni da lui pensate, bensì per il loro contrario. Il conte Patruno tra i nobili suoi pari godeva di una pessima fama per il pessimo carattere e per gli altri difetti evidenziati tratteggiandone la personalità. Tra gli uomini del popolo, specie tra gli artigiani, i commercianti e quelle che si sogliono definire le professioni intellettuali, l’avversione verso il conte si nutriva anche, e non era un tratto secondario, dell’inettitudine nel governo della contea di cui dava prova ad ogni occasione.
Ignazio, al contrario, godeva di un’ottima fama, soprattutto presso il popolo, quello grasso e quello minuto, che beneficiava della sua azione e della sua presenza. Aveva estimatori anche tra la nobiltà e molti ricorrevano ai suoi servizi per ambascerie o missioni diplomatiche per appianare controversie e incomprensioni, stringere alleanze o risolvere problemi di successione dinastica. Egli era un uomo equilibrato, capace di ascolto e deciso nell’affermare i suoi punti di vista. Era anche un uomo leale e affidabile, qualità rare in un’epoca in cui il tradimento e lo spergiuro, con la furbizia meschina e profittatrice sembravano essere gli attributi necessari per primeggiare. Il contrario di quanto i poeti e i novellieri cantavano celebrando le gesta di Orlando e di Lancillotto, di Rinaldo e di Tristano, cavalieri impavidi e fedeli che incarnavano i valori della nobiltà feudale: il senso dell’onore, la cortesia cavalleresca, la difesa dei deboli. I poeti li cantavano per il divertimento delle corti e i nobili come Teo li omaggiavano formalmente, oltraggiandoli e rinnegandoli nei comportamenti concreti.
Ignazio era come Alcide, perciò erano amici e si stimavano. Questi dell’altro apprezzava in sommo grado e sosteneva l’impegno filantropico così vituperato da Teo, il quale imperterrito tesseva la sua infida tela.
Teo sapeva dell’amicizia e della reciproca stima corrente tra Alcide e Ignazio che mai li avrebbe portati a schierarsi l’un contro l’altro? Probabilmente no, altrimenti non avrebbe pensato di utilizzare Alcide contro Ignazio. L’idea lo lusingò quando ebbe la prova che Ignazio era a Leuternia. Egli sperava che la forza e l’abilità guerresca del suo figlio bastardo avessero la meglio sul figlio bastardo di Lucina e tale epilogo lo avrebbe gratificato oltremodo, assecondando la sua vanità e umiliando le speranze e le aspettative di Lucina. Su questo fronte sappiamo che le sue aspettative saranno disattese, ma è ancora presto per sapere quali saranno le sorti del confronto, che ormai ha messo in campo i suoi schieramenti e chiarito le posizioni di tutti i protagonisti.
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