venerdì 10 febbraio 2023

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

Damiano Polifemo convince Ignazio De Grandis a scendere in campo al fianco del popolo di Leuternia. 
 La biografia di Ignazio e i contrasti pregressi tra la sua famiglia e Teo Patruno.

Capitolo tredicesimo

 Ignatiu De Grandis era hautu quasi sette parmi e tinia nna salute ca benedica; de facce paria nnu picca malinconicu, i musi stritti, u nasu ordinariu e do’ occhi ca te spujavane nudu e capiane comu si’ fattu senza cannare quasi mai. I capiddhri e a varva niuri, longhi e nturtijati, li diane nnu simbiante curiosu: seriu e ridiculu allu stessu tiempu.

 

Nel medesimo tempo in cui Teo Patruno si adoprava per convincere Alcide, Damiano Polifemo conduceva la sua missione per raggiungere Ignazio De Grandis. Lo incontrò, dopo averlo a lungo cercato, in un piccolo casale dove possedeva delle terre ed era solito ritirarsi nei tempi vuoti tra un impegno e l’altro al servizio di feudi e città.

I due non si conoscevano, però Ignazio conosceva la contea di Leuternia, così come Damiano conosceva e apprezzava le imprese di Ignazio. Quando una missiva lo aveva raggiunto, questi si era affrettato a ricevere i visitatori, incuriosito dalle brevi informazioni anticipategli.

«Così voi mi dite che i gemelli Giganti rivendicano il feudo del conte Patruno …».

Dopo aver pronunciato la frase, Ignazio era scoppiato in un’allegra e fragorosa risata.

Possibile che la faccenda gli mettesse così tanta allegria? Che di tutto il racconto sulle condizioni del feudo e dei suoi abitanti lo avesse colpito solo la pretesa dei Giganti?

Damiano aveva dato un’occhiata agli amici che lo accompagnavano, sui loro volti aveva letto la sua stessa perplessità. Era sul punto di articolare una risposta, quando Ignazio riprese il discorso interrotto:

«… beghe di famiglia, se le diano pure di santa ragione che a voi può venirne soltanto un gran bene».

Esplose di nuovo in una sonora risata e quasi a voler contagiare gli ospiti con la sua esuberanza diede un’amichevole pacca sulle spalle all’ospite che gli sedeva alla destra.

“Quale bene possa venircene mi è alquanto oscuro”, pensava Damiano che non riusciva a dare un senso al pensiero dell’interlocutore. Si limitò a dire: «Saranno pure beghe di famiglia …», ma fu subito interrotto da Ignazio.

«Sono stupidi. I Giganti e i Patruno sono stupidi, si scavano la fossa con le loro stesse mani».

«Stupidi e violenti, soprattutto violenti e avidi e assetati di sangue», aggiunse un altro ambasciatore di Leuternia.

«Ebbene, amici, plaudiamo alla loro stupidità e prepariamoci a gioire della vittoria», concluse il padrone di casa e battendo rumorosamente le mani chiamò a gran voce per far portare del vino. Quando i solleciti domestici portarono il vino e riempirono le coppe, Ignazio alzando in alto la sua, propose:

«Brindiamo alla libertà di Leuternia, rimandiamo a domani le preoccupazioni della guerra».

Era il suo modo, informale ed allegro, di accettare la richiesta di aiuto dei cittadini di Leuternia. Ignazio era così: allegro ed esuberante, sempre pronto a sfidare la sorte per rendere con i suoi precetti la somma dell’umana infelicità minore.

Quei caratteri contrastavano in parte con l’immagine esteriore di sé, impressa nel viso, nel fisico e nel portamento. Era un uomo alto circa sette palmi, fisico asciutto e muscoloso; il viso regolare e malinconico esibiva labbra sottili, un naso regolare e due occhi neri e irrequieti che sembravano penetrare oltre l’opacità di cose e persone per rivelarne l’essenza e la vera natura. I neri capelli, lunghi e scarmigliati, formavano con la barba altrettanto nera e fluente un’unica irregolare cornice che gli conferiva un aspetto curioso, severo e stravagante ad un tempo.

Nonostante l’ingannevole apparenza non era per niente stravagante, né la giovialità del carattere ne faceva un uomo sprovveduto o avventato; egli affrontava ogni prova, è vero, anche le più impervie e complicate, con lo spirito gioviale e irruento che lo accompagnava in ogni passo della vita, però sapeva valutarne le implicazioni e i dettagli come un esperto stratega. Poi conosceva l’animo umano, i desideri degli uomini e le loro debolezze, i recessi più oscuri e profondi che ne irretiscono il sentire fino a piegarli al crimine e alla dissoluzione; e sapeva sollecitarlo alla bellezza e alla generosità verso il prossimo che poi era lo scopo della sua vita.

A giudicare dal luogo eletto come sede per ritemprare l’anima e il corpo dalle fatiche dei suoi molteplici impegni non avresti pensato ad un uomo gioviale ed espansivo, desideroso di attraversare la vita al galoppo, di sentirsi scorrere il mondo sul corpo, immerso tra la gente, pronto alla burla e al motto di spirito, alle sfide più rischiose per il troppo amor degli uomini. Tale egli era e il suo contrario il luogo: aspro e solitario sul cucuzzolo d’una collina brulla e pietrosa dove padrone era il falco predatore e il lupo dominava la rada selva e le grotte infrattate sui fianchi del colle. Il panorama era orfano di uomini, di greggi e di mandrie; vi scorgevi stenti coltivi, strappati con fatica al pendio, contenuti da sudati muretti a secco che in alcuni tratti davano l’idea di una scala dagli alti gradini arrampicati sul monte. Vi allignava la vite, ma più in basso, dove già si scorgeva il tremolio lontano del mare. Il casale contava pochi fuochi, accoglieva le famiglie degli amici fedeli di Ignazio, compagni fidati d’avventura; era il suo piccolo regno, accucciato ai piedi del castello, poco più di un palazzo fortificato, affacciato su un alto strapiombo di dura roccia granitica.

Forse non c’era da meravigliarsi del contrasto. Ignazio era innamorato dell’umanità e della vita, eppure ne sentiva il tragico peso perché spesso, e per la maggioranza degli uomini, la vita era dolore, tristezza e gli altri uomini nemici da cui guardarsi: Ogni uomo è un lupo per gli altri esseri umani, diceva il poeta latino Tito Maccio Plauto, ma subito aggiungeva, quasi a mitigare quella tragica massima: ma solo quando non lo si conosce[1].  

Era innamorato anche della natura nelle sue varie forme, ne aveva bisogno per alleggerirsi di quel peso tremendo, ritemprarsi lo spirito altrimenti soccombente nell’impari lotta.

Sentiva il bisogno di un mutuo scambio così che nella bellezza, nella pace, nella tranquillità e nell’armonia della natura potesse fortificare il suo animo affaticato dalle vicende della vita e dai suoi disumani cascami, per ritornare nel mondo e testimoniare il contrario della massima plautina, perché, ne era convinto, quella poteva essere modificata nella più umana e speranzosa: L'uomo è un dio per l'uomo, se conosce il proprio dovere, secondo una più sensibile e incoraggiante massima[2].

Questo era Ignazio De Grandis.

Damiano se ne rese conto nelle ore e nei giorni successivi, quando ebbe modo di trascorrere con lui molto tempo. In quel tempo di ozio e di lenti colloqui, di escursioni lungo i sentieri sconnessi di quei luoghi accartocciati su se stessi, scandito da impegnative discussioni sulla filosofia e la religione, sull’etica e la guerra, la libertà e la tirannia, Ignazio si rivelò un uomo di saldi principi, di vasta cultura e di animo aperto e gentile che affascinò Damiano. Li accomunava il medesimo sentire e finalmente, aveva avuto le risposte a quelle domande silenziose che si era posto nel corso del primo incontro, ed erano risposte che lo tranquillizzavano e gli facevano ben sperare per il futuro e l’esito della lotta.

 La storia di Ignazio s’intreccia con quella di Teo Patruno per una serie di vicende traverse che avevano sconvolto la vita dei suoi genitori, lasciandolo orfano in ancor giovane età. Siffatta sventura aveva radicato nell’animo del giovane un sentimento di ostilità per Teo che lo aveva spinto ad architettare simboliche rappresaglie per punirlo dell’alterigia, della predisposizione al male e alla vendetta, colpendolo nei punti sensibili del rudimentale sistema di valori che lo guidava nella sua scialba e corrotta esistenza.

Prima di affrontare questo tema, centrale per inquadrare la reazione di Teo quando fu informato della presenza di Ignazio a Leuternia, è però necessario fare un passo indietro per illustrare l’intreccio che lega Teo a Ignazio.

Il padre di questi, di nome Euro, era stato un cavaliere intraprendente e di bella presenza al servizio del duca di Andria, dimorando per alcuni anni in quel feudo con importanti funzioni di capitano o castellano[3]. Egli frequentava il castello del duca e nel corso di quelle non sporadiche frequentazioni aveva conosciuto una delle figlie del signore, la bella e formosa Lucina, della quale, ricambiato, s’invaghì.  Tra i due era fiorito un sentimento travolgente e irresistibile che conobbe il suo culmine e il suo limite con il concepimento di un bambino. I due giovani amanti erano felici, facevano progetti di matrimonio ma furono costretti a rassegnarsi alla dura realtà e alle esigenze della ragion di stato. Quando il duca fu informato della gravidanza e del progetto matrimoniale, spense senza indugio gli ardori amorosi della figlia e le impose di tenere nascosta la gravidanza. A Euro fu ordinato di allontanarsi dal feudo e di accettare, onde evitare conseguenze spiacevoli che pure gli furono esposte, un incarico presso la corte del re dove avrebbe potuto dimenticare la relazione con la giovane Lucina. Quanto al nascituro si decise di farlo nascere lontano da Andria e di affidarlo al padre naturale con l’impegno di mantenerne segreta la relazione. Nelle more della gravidanza e della nascita del figlio, a Euro fu imposto di sposarsi con una ragazza disponibile a regolarizzare la nascita. Lucina gravida del figlio e dell’amore per Euro scalpitò qualche tempo, poi di fronte all’intransigenza del padre e alla minaccia di rinchiuderla in un convento si rassegnò e ne accettò la volontà di darla in sposa al conte di Leuternia.

A quel punto iniziarono le traversie che faranno collidere Teo con Euro e successivamente anche con Ignazio.

Accadde che Teo, scoperto lo stato di non illibatezza della moglie, lo considerasse un’offesa e un tradimento da vendicare. E poiché la vendetta non poteva colpire Lucina né il di lei genitore, s’indirizzò su Euro, indicato come responsabile da un’indignata e recalcitrante Lucina, a ciò indotta dall’incombente minaccia di essere ripudiata.

Passarono molti anni prima che la vendetta si compisse, infine fu attuata con l’inganno in una scenografia perversa che eccitò l’amor proprio di Teo e ne soddisfò il lugubre desiderio.

Il conte Patruno ed Euro incrociarono i loro destini casualmente sulle serre silvane di Leuternia dove il primo partecipava a una distensiva battuta di caccia e il secondo, al comando di una compagnia di armigeri, inseguiva una banda di briganti in fuga dalla vicina Lucania. Quando Teo fu messo al corrente dell’insperata occasione offerta da quella vicinanza, ordì un piano per attirare Euro in un’imboscata. Non so se il conte fosse consapevole dell’ironia tragica sottesa alle modalità predisposte per incastrare Euro, certo è che l’amore di una donna lo aveva condannato a morte ed ora un’altra donna ne era l’inconsapevole e involontario strumento. La giovane donna, una serva di bella presenza addetta alla residenza del conte, fu incaricata di attirare Euro nella villa con la promessa di un convegno amoroso. Il malcapitato, privato per lungo tempo dei piaceri dell’amore, abboccò all’amo della profferta come un pesce affamato e mal gliene incolse. Quando Euro, riposte le armi, si accingeva a spogliarsi, nella stanza irruppero quattro persone armate che lo immobilizzarono e fatta allontanare la donna lo legarono saldamente a una sedia.

«Chi siete?» chiese imperiosamente il capitano, «In nome del re vi ordino di lasciarmi andare, ve ne potrebbe derivare un gran danno». I quattro non risposero e terminata l’immobilizzazione del prigioniero uscirono dalla stanza.

Rimasto solo, l’ignaro amante tradito si diede più volte dello stolto non avendo sospettato la possibilità di un’imboscata da parte dei briganti e nell’impotenza della situazione attese gli eventi ipotizzandone gli sviluppi.

Dopo qualche tempo si riaprì la porta e un uomo ornato dai segni della dignità comitale gli si avvicinò. Euro non conosceva l’uomo ma sospettò che fosse il conte Patruno e in quel momento ne comprese le intenzioni.

«Capitano De Grandis, oggi avete violato la mia dimora senza averne diritto. Qual vento vi ha portato fin qui?», disse il conte con accenti melliflui.

«Chi mi costringe in ceppi? Sono un capitano dell’esercito regio e vi ordino di liberarmi senza indugio», rispose Euro con il tono del comando.

«Sono il conte Teo Patruno, e voi per la seconda volta avete violato ciò che mi appartiene», continuò Teo insistendo sul tono affettato e insinuante.

«Francamente non vi comprendo, conte. Sono stato invitato da una signora».

«Ma è la seconda volta! Voi siete un maledetto bugiardo e un violatore», gridò il conte, improvvisamente adirato e quasi in falsetto.

«Non ricordo una prima volta. Mai ebbi il piacere di passare la soglia di una vostra dimora; né in quest’occasione, indubbiamente per me infausta considerata l’accoglienza che mi riservate, ero a conoscenza del fatto», rispose Euro con il tono calmo e controllato di chi crede che si tratti solo di un equivoco o di uno scherzo.

«La prima volta avete violato mia moglie, l’avete stuprata…», disse ancora Teo con la voce alterata dalla rabbia; quindi, quasi bisbigliando e abbassando la testa, aggiunse: «…e ne pagherete molto caro il fio».

Pronunciata la sentenza si avvicinò lentamente al prigioniero,

estrasse il pugnale e lo colpì con violenza al costato: un unico fendente, come adempisse controvoglia a un rito o a un dovere al quale non poteva sottrarsi, poi voltate le spalle al moribondo uscì dalla stanza.

Di fronte a quella scena ieratica, a quella esibizione di lucida follia, Euro era rimasto senza parole. Invano aveva cercato lo sguardo del suo carnefice che gli si avvicinava con gli occhi bassi, incapace di sostenere lo sguardo fermo della vittima nel momento supremo del sacrificio. Riuscì solo a dire, prima del momento fatale: «Non c’è stato alcuno stupro, Lucina mi amava. Son certo che voi non siate amato altrettanto. Di un’altra cosa son certo: mio figlio Ignazio vendicherà quest’ignominia».

L’uscita del conte lasciò la scena ai quattro scherani di prima che completarono l’ingrato compito senza alcuna pietà. Per liberarsi del corpo lo infilarono in un ampio sacco e con il favore delle tenebre lo trasportarono fino all’imboccatura di una vora[4] lontana più di un miglio dalla villa, in aperta campagna, che ne fu l’ultima dimora terrena e l’ignoto sepolcro dove nessuno poté piangerne la sorte.

La scomparsa di Euro fu scoperta il mattino seguente dai suoi subalterni. Le ricerche non diedero alcun risultato e il caso fu chiuso attribuendone la morte ai briganti che l’avevano proditoriamente attirato in un agguato. Qualcuno ipotizzò che i briganti potessero averlo fatto prigioniero con l’intenzione di chiedere un riscatto o di patteggiare uno scambio di prigionieri. Il tempo non avallò quell’ipotesi e dopo qualche settimana la moglie del capitano Euro ricevette una lettera, con la firma d’oro del Re, che ne certificava la morte in servizio e l’accompagnava con la assegnazione di una pensione per il sostentamento dell’orfano e della vedova.

 Una vendetta come quella consumata da Teo nella solitudine e nel silenzio omertoso, lontano dalle platee dell’opinione pubblica che aveva conosciuto il delitto (lo stupro: vero o presunto che fosse, poco importa) e l’attendeva (vera o presunta che fosse anche l’attesa), se può placare l’intimo orgoglio dell’offeso, non ne placa l’orgoglio pubblico, di fronte al mondo, per il quale si consuma. Per tale ragione la vendetta è un atto pubblico che l’autore compie con lo scopo preminente di lavare l’onta al cospetto del mondo, e per il quale è anche disposto a subirne le conseguenze.

La vendetta di Teo mancava dunque del fondamentale aspetto della pubblicità. Forse qualcuno avrà anche posto in relazione la morte di Euro con la presenza del conte nella sua villa in campagna; forse un giudice, se ci fosse stato a Leuternia un giudice coraggioso e non prezzolato, avrebbe indagato e scoperto la verità; ma ciò era pura fantasticheria priva di fondamento. In realtà una verità giudiziaria era lì bell’e pronta, credibile e anche comoda, relazionata da causa ed effetto e da colpevoli più che plausibili: i briganti, dediti per mestiere al delitto.

Per placare il suo orgoglio pubblico, a Teo mancava proprio una relazione di causa ed effetto che lo mettesse in relazione con la scomparsa di Euro e proprio per il motivo che lui, nella solitudine del momento cruciale, gli aveva rinfacciato, anche se il motivo era di fatto inesistente, frutto malsano delle sue pulsioni e dei silenzi di Lucina.

 Col trascorrere dei giorni, esaurita l’eccitazione dell’impresa, iniziò per Teo un periodo d’inquietudine e insoddisfazione che lo rese irascibile e scontroso. Di notte spesso sognava le immagini vissute nella stanza al cospetto di Euro incatenato, immagini che la sua coscienza trasformava: l’aspetto del prigioniero era tracotante, rideva beffardamente mentre diceva che Lucina gli si era concessa lascivamente. Ogni volta, nell’udire quella parola – lascivamente – scandita essa stessa con tono ed espressione lascivi, si svegliava soffrendone l’umiliazione, impotente e incapace di qualunque reazione.

 Il lettore sarà indotto a pensare che Teo fosse tormentato dall’ignominia del barbaro omicidio, da un sentimento di frustrazione per aver scambiato il bersaglio della vendetta, quando la mano omicida avrebbe dovuto colpire il petto della sua lasciva consorte. Pensiero legittimo in sé, fuorviante per chi indaga la coscienza di Teo, incapace di guardare in se stesso e di affrontare la realtà senza i filtri fuorvianti del suo orgoglio arrogante. Non creda neanche il lettore che Teo avesse coscienza del suo reale bisogno, del riscontro pubblico della vendetta.

Quel che fece, forse sperando di trovare sollievo, inconsapevolmente e, direi, maldestramente, a quel reale bisogno si riconduceva: decise di svelare a Lucina la verità sulla morte di Euro.

 L’affrontò d’impulso. Una sera in cui più forte lo pressava la frustrazione della vendetta dimezzata, si recò a trovarla nelle sue stanze. Grande fu la sorpresa di Lucina che, fatta allontanare la serva che l’aiutava a mettersi a letto, disse:

«Una visita insolita, Teo. Ci sono notizie così urgenti da non poter essere comunicate domani?» e si predispose ad ascoltare le ragioni che l’avevano condotto fin lì.

Il conte aveva il viso congestionato da chissà quale ingorgo di pensieri, lo sguardo vagava nella stanza senza fissarsi su alcun oggetto, non guardava neanche la moglie. Sembrava a disagio pur essendo animato da una forza che non gli lasciava scelta. Non rispose alla domanda della moglie, entrò direttamente in argomento, quello rimuginato tanto a lungo, che lo assillava senza trovare risposte. Parlò come se stesse facendo una pubblica confessione:

«Euro De Grandis non l’hanno ucciso i briganti».

Pronunciata la frase, piantato a gambe larghe nel mezzo della stanza, le mani ai fianchi in una sorta di atteggiamento di sfida, volse lo sguardo su Lucina. Era uno sguardo insolente, l’espressione sembrava soddisfatta, come se pensasse: “Ecco, mi sono tolto il peso che mi tormentava”.

Lucina comprese senza bisogno di altre parole, si portò le mani al viso e ruppe in un pianto sommesso.

Restarono così per alcuni minuti, poi lei con un filo di voce esclamò: «Perché l’hai fatto! Perché l’hai fatto!»

Teo la guardò con disprezzo, pensando che piangesse per pietà dell’antico amante. Non lo sfiorò il pensiero che potesse avere pietà di lui, responsabile di un delitto orrendo, il cui gesto e la cui impudenza contenevano il codice sciagurato della sua esistenza. Non potendo comprendere quel pianto sommesso e pietoso rispose con ira:

«Ha avuto ciò che meritano gli stupratori della sua risma».

«Tu hai stuprato Matelda e Lorenzo non cercò vendetta».

L’accusa lo folgorò, riuscì solo a biascicare:

«Lorenzo era un uomo senza dignità».

Lucina tirò su col naso, si fece forza, asciugò gli occhi con il dorso della mano e, soffocato il pianto, aggiunse:

«Tu però porti vanto delle fortune di Alcide, educato da un uomo senza dignità».

«Alcide è mio figlio, da me ha ereditato dignità e coraggio».

«Anche Lorenzo ha un figlio: è astuto e coraggioso, non lascerà impunita la tua infamia».

«Non ho certo paura di un filantropo. Sono astuto al suo pari».

La paura invece lo possedeva e le parole di Lucina ne avevano accentuato la presa. Lei rincarò la dose:

«Il pensiero di Ignazio non ti farà dormire, t’inseguirà nei sogni. Ti pentirai più volte prima che il suo talento colpisca la tua presunzione».

«Se il tuo bastardo oserà minacciarmi il suo destino è scritto, tal quale quello riservato a suo padre».

Ciò detto se ne andò in preda a un’inquietudine più grande di quella che lo agitava quando era entrato.

La minaccia di Lucina aprì nella psiche di Teo ferite mai del tutto rimarginate.

Quando Lucina aveva fatto riferimento alla persecuzione onirica di Ignazio, Teo, memore dei sogni che lo avevano perseguitato fino a quel momento, ebbe una reazione incontrollata, si era avvicinato alla moglie seduta su una seggiola accanto a una finestra con l’intenzione di minacciare essa stessa di morte. Aveva messo mano all’elsa del pugnale pendente dalla cintola e stava per estrarlo. Non voleva ucciderla, sarebbe stato troppo rischioso per la sua stessa incolumità e per la conservazione del beneficio feudale sulla contea di Leuternia, voleva solo spaventarla e metterla a tacere. Le fu quasi addosso, il braccio pronto al gesto spaventoso, si bloccò come davanti a un muro invisibile di fronte allo sguardo risoluto e imperturbabile della moglie. Cosa vide in quegli occhi fermi e fissi sui suoi non so dirlo, non lo comprese neanche Lucina, so per certo che la spavalderia di Teo si sciolse in una frase improbabile, gridata con risentimento impotente solo per il gusto di far risuonare la parola bastardo in faccia alla donna.



[1] Tito Maccio Plauto (255/250–184 a.C) – Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495: Lupus est homo homini, non homo, quod qualis sit non novit.

[2] Cecilio Stazio (230168 a.C.), v. 265 Ribbeck: Homo homini deus est, si suum officium sciat.

[3] Castellano è l'ufficiale che comanda una guarnigione acquartierata in un castello con il compito di custodirlo e difenderlo in caso di attacco.

[4] La “vora” è una voragine o inghiottitoio in cui si convogliano le acque piovane che attraverso percorsi sotterranei confluiscono in mare.


 

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