Alcide è arruolato dal conte Patruno.
La biografia di Alcide. L’incontro con Teo. La gelosia di Cocidio e lo sdegno
di Lucina.
Capitolo dodicesimo
Alcide Aniceti era fiju spùriu de Teu Patrunu ca cu lu ngannu e la viulentia hia misa alle stritte mammisa, nna fimmina beddhra de core, cu la scusa ca l’hia ddare notizzie de maritusa Lorenzu, nu barone ca hia persu lu feudu sou e ca sta cercava cu se lu fazza rennere dalli nimici ca nce l’hiane scippatu.
La guerra portatagli dai Giganti impegnava Teo in una costosa e sterile strategia difensiva che col passare del tempo si rivelava inutile e perdente. Le bande dei Giganti scorrazzavano nel territorio di Leuternia senza incontrare resistenze efficaci, e al riparo del cuscinetto protettivo delle roccaforti conquistate potevano preparare l’attacco decisivo al cuore della contea.
La presenza della figlia di Teo e del suo cappellano alla corte del conte Gualtiero aveva insospettito i Giganti che ne chiesero conto all’alleato. Ne furono rassicurati, ma poiché in questi casi vale più un esempio di molte parole, non solo intensificarono le scorribande nella contea vicina, misero in guardia Gualtiero da eventuali tentazioni di tradimento provocando incidenti, a prima vista fortuiti, anche all’interno del feudo leccese. Un ulteriore incidente, preparato con cura ed eclatante, lo tennero in serbo per i giorni a venire. Di esso parleremo più avanti, perché prima è necessario dar conto delle azioni di Teo in spasmodica e impotente attesa nel castello sul mare.
Intanto a Leuternia l’incertezza regnava sovrana, aleggiava sulla vita delle città e dei borghi come i nembi mutevoli e foschi dei temporali estivi, sospinti dal vento rabbioso e incostante contro i superstiti squarci di luce per spegnerne il fulgore e stendere un grigio velo uniforme sulla difforme complessità del creato.
Nell’incertezza Teo non sapeva decidersi. Attendeva risposte dalla missione della figlia Sofia che tardavano a venire. Inviò messi per sollecitarle e finalmente gli furono recapitati due messaggi poco rassicuranti con l’invito a pazientare ancora per qualche tempo.
Sofia aveva scritto: «Il conte è terrorizzato dall’arroganza e dalla forza dei gemelli Giganti, teme che un contrasto con essi li induca a rivolgere la loro furia distruttrice contro di lui. Cercherò di convincerlo».
Nel secondo messaggio, don Procopio, ufficialmente confessore e padre spirituale di Sofia, di fatto mezzano di una proposta matrimoniale, scriveva in termini vaghi:
«I due giovani si stanno conoscendo, attendo un’occasione propizia per ispirare i pensieri del conte Gualtiero».
L’impressione che ne ebbe Teo non fu propriamente positiva. Anzi, andò su tutte le furie perché gli sembrò evidente che Gualtiero non aveva alcuna intenzione di contraddire i Giganti, la loro presenza era funzionale a rafforzarne le mire, tanto più quanto maggiori fossero stati i loro successi. Ma era soprattutto nei confronti dell’inetto Procopio che sfogava il suo risentimento. Gli indirizzò una missiva incendiaria nella quale lo accusava «di sabotare i suoi piani e di aver preso quell’incarico fiduciario ed estremamente delicato come una inutile e inconcludente vacanza», con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate in caso di fallimento della missione. Gli ordinava, quindi, di: «prospettare a Gualtiero i vantaggi legati all’accordo matrimoniale e di avvertirlo che un rifiuto sarebbe stato considerato come un atto di ostilità e come tale trattato».
Una seconda missiva riservata si risolse a indirizzarla direttamente a Gualtiero per esporgli senza infingimenti e con fermezza l’insostenibilità della situazione in atto e il pericolo comune rappresentato dai Giganti. Per risolvere la delicata situazione e rafforzare la loro reciproca fiducia gli prospettava l’accordo matrimoniale che avrebbe appianato le vecchie incomprensioni e i contrasti pregressi. Nell’attesa degli sviluppi si decise a muovere l’ulteriore passo che avrebbe portato ad elevare il tono dello scontro in atto: Teo si rassegnò a chiedere l’aiuto di Alcide.
Dico che si rassegnò per il fatto che Teo non avrebbe voluto umiliarsi a quel passo. L’idea di assoldare una compagnia di ventura era nella logica delle cose con la presenza dei Giganti alle porte di casa; lui avrebbe preferito l’ingaggio di altri capitani, gli sarebbe stata risparmiata l’umiliazione delle confessioni e delle giustificazioni che avrebbero messo a dura prova il suo smisurato orgoglio. Rinunciarvi però non era possibile per due decisivi motivi: Alcide era il più forte capitano in circolazione, e soprattutto era l’unico che avrebbe potuto sconfiggere i Giganti. Non ne avrebbe potuto provocare la morte, ma sconfiggerli sì e ferirli e farli prigionieri e consegnarli a Teo che ne avrebbe decretato la morte.
Ricordate, miei attenti lettori, il vaticino che escludeva la morte in battaglia dei gemelli Giganti? Solo Alcide avrebbe potuto aggirare quel divieto del fato e consegnarli inermi nelle mani del boia.
Teo non aveva altra scelta: soccombere di fronte alla forza del nemico o rassegnarsi all’inevitabile. Decise per il suo meglio e inviò senza perdere altro tempo un messaggero alla ricerca di Alcide.
Alcide Aniceti non era un professionista della guerra, un vero capitano di ventura. In diverse occasioni, costretto dalle circostanze, non si era negato alla guerra, aveva guidato bande armate ed eserciti regolari, però non l’amava. Egli era consapevole che in alcuni casi fosse inevitabile, che spesso le circostanze ti costringono a schierarti, ti obbligano a fare una scelta, a stare da una parte o dall’altra, dalla parte del diritto e della giustizia o da quella del sopruso e dell’inganno. E lui posto di fronte a quella dicotomia non aveva scelta, era obbligato a stare dalla parte della giustizia, perché anche non avere scelta è una scelta, come anche non scegliere. E allora sceglieva, e si opponeva al corso degli eventi con la forza immensa del suo coraggio.
Di preferenza ricopriva incarichi presso le Univesitas del regno e anche fuori dal regno, nei Comuni cittadini dell’Italia centro-settentrionale. Particolarmente apprezzato era il suo servizio come Capitano del popolo per il grande coraggio, l’acume strategico e la rettitudine morale che lo impegnava con lealtà ed efficienza al servizio dei diritti e degli interessi dei cittadini.
Aveva anche ricoperto la carica di podestà ed acquisito una notevole esperienza nel governare i dissidi che correntemente insorgevano tra la nascente borghesia delle città, aspirante ad un’attiva partecipazione alla gestione del potere, e il ceto nobiliare restio a rinunciare ai suoi antichi privilegi[1].
Perché, allora, se Alcide era quel campione di umanità, generosità e altruismo cedette alla richiesta di Teo?
A onor del vero, la sua prima risposta era stata negativa. Egli aveva scarse informazioni sul conflitto che opponeva il conte Patruno e i Giganti, né poteva saperne di più, considerato che riguardava una piccola contea periferica le cui vicende di rado valicavano i confini della provincia. Conosceva i gemelli per la trista fama che li accompagnava e avrebbe fatto volentieri a meno di impegolarsi in un affare che gli avrebbe portato solo affanni e nessun benefici né per sé né per il popolo. S’informò, e quando venne a conoscenza della situazione reale, delle sofferenze causate al popolo dalla politica del conte, si confermò nella decisione e respinse anche l’accorata reiterazione della proposta.
Teo aveva cercato di toccare corde che sapeva sensibili: aveva dipinto i Giganti con toni ancora più foschi della già nera realtà, e promesso riforme liberali per venire incontro alle richieste dei suoi cittadini. Non riuscì ad aprire alcuna breccia e già disperava di venirne a capo quando, pur tra mille travagli, decise di toccare le corde degli affetti rivelandogli di essere il suo padre naturale.
Non ci poteva credere. Il destino lo aveva da poco tempo reso orfano dell’uomo che era stato suo padre caro e stimato e ora lo metteva di fronte a un angosciante incertezza. Sapeva che la rivelazione non era dettata da un atto di resipiscenza tardiva, né da un senile bisogno di riconciliarsi con la propria coscienza; il bisogno era ben altro e avrebbe meritato un terzo rifiuto, uno sdegnato messaggio d’indifferenza per l’uomo che lo aveva disconosciuto e ignorato.
Attraversò giorni di profondissima angoscia e incertezza, combattuto tra lo sdegno e l’umana comprensione. Ebbe pietà per la madre e per il padre che lo aveva accompagnato sulla strada della vita con orgoglio e attenzioni infinite. Era poi a conoscenza del segreto indicibile di sua moglie? Lei aveva voluto tutelarlo dall’oltraggio portatogli dal conte e dal suo tradimento? Volle vederci chiaro. Prima di affrontare il padre naturale decise di avere informazioni dirette dalla madre.
Fu un incontro intriso di malinconia e di delicate attenzioni. Alcide espose a Matelda la richiesta del conte Patruno, s’informò sulla contea dove era cresciuta e sulla controversia in atto, per risolvere la quale il signore del posto invocava il suo aiuto. Matelda sbiancò in volto. Perché era sbiancata? Quali ricordi erano riemersi dal profondo della sua memoria? Erano così dolorosi o erano semplicemente vergognosi e indicibili?
Trascorse del tempo prima che Matelda parlasse.
Alcide con dolcezza le chiese:
«Matre, che è questo pianto? Quale triste ricordo evoca il volto affranto?»
La madre rispose con un sospiro e una domanda dolente:
«Figlio di mamma scura, figlio senza simiglio, a che cosa m’appiglio per dir la veritate?»
Alcide volle trarla d’impaccio rivelandole il suo dubbio:
«Lorenzo mi fu padre o solo putativo?»
Lei, ancora soffocata dal ricordo:
«Figlio, senza consiglio è il mio cuore angustiato; ti è stato più di un padre, ma non ti ha generato».
«Chi mi fu padre, allora, se Lorenzo non fu?»
«Il malefico conte mi prese con l’inganno, mio marito lo seppe e non se n’ebbe affanno».
«Lui non cercò vendetta? Gli seppe perdonare?»
«La vendetta sei tu, figlio caro e solare, il tuo alto sentire, il tuo modo di fare».
«Io non cerco vendetta, matre dolce e smarrita, voglio solo sapere perché t’ha sì sprezzata».
«Un consiglio ti affido, figlio mio, dolce frutto: metterti al suo servigio non ti porta costrutto».
Matelda aveva continuato a piangere sommessamente per tutta la durata del colloquio, ogni risposta le costava fatica perché il ricordare riapriva nel suo petto ferite profonde che il tempo non aveva rimarginato. Ferite di quel tipo non lasciano segni sulla pelle, ti lacerano l’anima e ti additano agli occhi del mondo per quello che non sei.
Gli chiese anche perdono per averlo tenuto al riparo da quel penoso segreto, ma comprese che Alcide non la biasimava per quello, era più interessato alla reazione di Lorenzo, al tema della vendetta. Il dignitoso e consapevole comportamento di Lorenzo glielo rese ancora più caro e, in quel momento lo comprese, gli fu chiara in tutta la sua fulgidezza anche la sua grandezza d’animo. Egli di fronte al delittuoso affronto non aveva opposto un ottuso e inutile desiderio di vendetta, aveva coltivato e valorizzato il frutto del delitto, lo aveva elevato a simbolo ispiratore di eterna vergogna a danno del suo artefice: un insegnamento che Alcide volle tener in gran pregio, di cui volle rendersi degno.
Il concepimento di Alcide era stato la conseguenza di uno stupro perpetrato da Teo Patruno ai danni di Matelda, donna bellissima e moglie di Lorenzo Aniceti, un barone spodestato del suo feudo. Teo, con la complicità di alcuni servi, aveva approfittato dell’assenza di Lorenzo per insidiare Matelda con il pretesto di comunicarle urgenti informazioni da parte del marito. Di fronte alle avance del conte, la giovane Matelda restò paralizzata dalla paura, incapace di opporre resistenza, in ogni caso vana non essendoci alcuno che potesse andarle in soccorso.
La notizia dello stupro per vie sotterranee giunse alle orecchie dei rispettivi coniugi i quali, nella silenziosa afflizione dell’offesa, giurarono di vendicarsi.
Lorenzo comprese il disagio della moglie e il suo silenzio, accolse benevolmente la nascita del figlio putativo e si prodigò per educarlo e istruirlo affidandolo ai migliori maestri in tutte le arti e le scienze. Forse Lorenzo meditava di incarnare la vendetta nella stessa persona di Alcide, come dignitoso e altero richiamo vivente dell’odioso e spregevole atto compiuto da Teo. Forse, e sarebbe stato sommamente onorevole per lui e per suo figlio, ma la probabile aspettativa non trovò possibilità di conferma, preclusa dalla sua prematura morte in battaglia mentre si adoprava alla riconquista del feudo perduto.
Incarnazione e strumento di postuma vendetta Alcide in ogni caso lo fu, seppure inconsapevole e involontario, ma di questo diremo più avanti, e il lettore lo dedurrà per sua stessa intuizione, quando la cronaca della Gigantomachia avrà raggiunto l’acme del suo sviluppo.
Il bambino trascorse l’infanzia e la giovinezza protetto dall’affetto e dalle cure dei genitori e dei sapienti maestri; a diciotto anni era unanimemente considerato un campione di umanità, generosità e altruismo, espressioni di una forza morale intensa e radicata. Alla quale si associavano una statura gigantesca, maggiore a confronto con quella dei gemelli Giganti, una forza fisica erculea e il già ricordato coraggio, limpida espressione di nobili attributi.
La vendetta di Lucina, diretta e inelegante, colpì sia il fedifrago marito sia l’incolpevole Matelda. Quanto al primo ne ho già riferito a proposito dell’insolita sorte di Fabrizio, secondogenito della coppia comitale; la seconda, con il figlio, fu costretta ad abbandonare Leuternia per sottrarsi alle pesanti provocazioni della contessa che il pusillanime marito non provava nemmeno a impedire, rinunciando financo a tutelare l’incolpevole infante pur sempre frutto delle sue voglie smodate e prepotenti.
Perché, allora, nonostante le rivelazioni di Matelda e la sua calda raccomandazione, Alcide cedette alla richiesta di Teo?
Matelda ne aveva affermato senza mezzi termini la malvagità, la sua indole ingannatrice e temendo per il figlio, nonostante la sua forza invincibile e l’abilità nell’uso delle armi, lo aveva messo in guardia contro gli intrighi e i maneggi del “perfido conte”; aveva però anche affermato la simbolica dignità di Lorenzo nell’accogliere un figlio putativo. Sono portato a credere che sia stato proprio questo risvolto dell’animo di Lorenzo a spingere Alcide verso la decisione di accettare la proposta di Teo. Egli voleva conoscere l’animo del padre naturale, poterlo valutare e comprenderne la natura, dopo ne avrebbe tratto un giudizio e deciso il da farsi. Per farlo doveva frequentarlo e l’unica strada concessagli era quella di accettarne la proposta mercenaria.
Fu così che Alcide conobbe suo padre.
Il primo incontro avvenne ai confini del feudo. Teo e Cocidio gli erano andati incontro con un drappello di armigeri; Alcide era anche lui accompagnato da una nutrita scorta. Erano ancora a cavallo quando Teo, preceduto dalle sue insegne nobiliari, esclamò con un grido di giubilo: «Saluto il nobile Alcide», a cui fece seguito un «Evviva» da parte della scorta. Cocidio sembrava guardingo, non aveva esultato con gli altri, osservava l’ospite con sguardi traversi, pensieri non certo benauguranti gli si affollavano in testa.
Ulivi e campi arati per accogliere le semine facevano da sfondo all’incontro, tra i campi si ergevano pajari[2] dove i rari, impauriti braccianti avvertiti dallo scalpitio delle cavalcature avevano cercato riparo; di tra gli ulivi si alzavano stormi di uccelli in rapido volo sotto un cielo striato da rapide velature di sottili nuvole bianche sospinte dal vento.
Scesero ambedue da cavallo. Alcide, altero nella sua possanza, rimase fermo in attesa; Teo gli si avvicinò per abbracciarlo mentre pronunciava parole di benvenuto:
«Oggi per Leuternia è una giornata felice, accogliamo nella nostra terra il forte e saggio Alcide che ci aiuterà a liberarla dalla furia dei pazzi Giganti».
Non pronunciò le parole che Alcide temeva e gliene fu grato. D’altronde, forse era ancora un segreto che imponeva cautela. Intanto una congerie di pensieri gli si affollava nella mente:
Cocidio, il figlio legittimo, ne era allo scuro o era stato avvertito? E se ne era al corrente, come aveva accolto la decisione? A osservarne l’espressione del viso non si sarebbe detto a suo agio; evitava di guardarlo negli occhi, né gli si era fatto incontro per salutarlo ed accoglierlo: un atteggiamento che trasmetteva inimicizia.
Gli venne voglia di spaventarlo pronunciando lui la parola fatidica, rispondendo al saluto di Teo con una frase del tipo: “Saluto l’uomo che mi ha generato”.
Lo aveva pensato ma non pronunciò alcuna parola. Attese che Teo gli si facesse incontro e al suo tentativo di abbraccio paterno si sottrasse con un inchino. Avrebbe dovuto inginocchiarsi in atto di sottomissione e di rispetto… avrebbe, se il suo animo non fosse lacerato da sentimenti di pietà per la madre e per la ferma dignità di Lorenzo, a fronte della sfrontatezza e dell’utilitarismo dell’uomo che gli stava di fronte.
Cavalcarono fino al castello a picco sul mare dove fecero un ingresso trionfale al suono delle trombe araldiche. Durante il percorso cittadino ai lati delle strade si erano assiepati gruppi di persone preoccupate che al passaggio di quell’imponente schieramento di uomini in armi attribuirono un significato per nulla rassicurante. Nessuno conosceva l’imponente cavaliere che cavalcava al fianco del conte, qualcuno azzardò un’ipotesi:
«Dev’essere uno dei fratelli Giganti».
E un altro: «Non può essere. Questo cavaliere ha lineamenti gentili, il suo viso non è ripugnante come si vocifera di quello dei Giganti».
La notizia dell’arrivo dell’imponente cavaliere fece il giro della città e dei casali e ben presto si venne a sapere che si trattava del famoso Alcide Aniceti e che questi era figlio naturale del conte.
Non vi dico, cari lettori, delle illazioni e delle leggende fiorite intorno a quel nome; non posso però esimermi dal rivelarvi che vi furono anche commenti positivi, aperti alla speranza, di quanti conoscevano le qualità umane di Alcide.
Il giorno successivo il castello era in festa per la presentazione dell’ospite ai notabili della città e alla corte. Alcide, invece, attendeva con impazienza l’incontro riservato con il genitore. Si incontrarono prima del pranzo nel gabinetto privato del conte. Parlò per primo Teo, com’era naturale. Alcide era in attesa. Fino a quel momento aveva parlato poco, solo frasi d’occasione e di cortesia che non scioglievano la curiosità degli interlocutori, ne aumentavano la spasmodica voglia di sapere e, naturalmente, incoraggiavano i pettegolezzi che corsero a briglia sciolta.
«Avete ragione ad essere arrabbiato con me, non vi biasimo. Nella vita di un uomo, e ancor più in quella di chi ha responsabilità di governo, ci sono doveri inconciliabili con le passioni umane e i doveri morali. Vi chiedete perché mi rivolgo a voi solo in questo momento di bisogno? Sono disposto a darvi tutte le risposte che desiderate. Di una cosa, nonostante le apparenze mi siano avverse, non dovete dubitare: il sentimento paterno che nutro nei vostri confronti», esordì Teo, affettando un dispiacere che era molto lontano dal provare.
Alcide, soffocando la rabbia tremenda provocata da quelle parole, rispose con piena padronanza di sé:
«Non per me e per il mio status ho da recriminare, bensì per mia madre, abusata da voi con l’inganno e la forza. Nei suoi confronti voi avete un debito morale inevaso».
La risposta ebbe un effetto demoralizzante sul conte, che rispose con un certo imbarazzo:
«Vostra madre era una giovane bellissima e altera, anch’io ero giovane e subii la tirannia della passione… un fuoco incontrollabile… sarete stato anche voi schiavo della passione, in qualche occasione…».
«Dunque fu la ragion di stato a impedirvi di riconoscere il vostro errore».
«La ragion di stato… lo scandalo che ne sarebbe venuto… un’offesa insopportabile per mia moglie… e per il suo potente genitore che avrebbe potuto schiacciarmi».
Risposte sciagurate che aumentarono l’insofferenza di Alcide. Fu sul punto d’interrompere bruscamente il colloquio e di revocare la disponibilità adombrata. Si fermò in tempo perché gli balenò la possibilità di farsi beffe del conte costringendolo ad accettare condizioni che ne avrebbero ridimensionato il potere e il prestigio.
«Allora fu la paura di perdere il vostro status a trattenervi? Vi capisco ed accetto la vostra proposta. Però…», disse e intanto rifletteva sul modo di formulare le sue condizioni. Restò in silenzio, assorto, per un tempo che al conte sembrò molto lungo, tanto da indurlo a interromperlo.
Con un tono gioviale, sollevato, di esagerata disponibilità, disse: «Qualunque cosa, qualunque cosa vogliate sono a vostra disposizione: terre e denaro, cariche ed onori, tutto ciò che volete, perché è anche un vostro diritto, un vostro diritto sacrosanto».
Ricacciando indietro un moto insopprimibile di ripulsa, dopo aver guardato con disprezzo il conte, Alcide riprese:
«La condotta per i miei soldati la discuterete con il mio aiutante di campo, per me non chiedo niente. L’unica condizione che pongo, irrinunciabile, è il ripristino di tutti i diritti civici riconosciuti dagli statuti che voi avete soppresso».
«È stato necessario sospenderli, ma questo è già cosa fatta, è cosa già decisa con gli ultimi bandi, non appena avremo vinto la guerra contro i Giganti. Ho a cuore il benessere del mio popolo…», concluse sfacciatamente il conte, sicuro di aver in mano la carta vincente che gli avrebbe assicurato la vittoria. Era baldanzoso e rassicurato e durante il banchetto seguito a quell’incontro Teo si sperticò in numerosi brindisi per decantare le virtù di Alcide, suscitando il cupo risentimento di Cocidio che per tutto il tempo se ne restò imbronciato senza profferir verbo.
Al banchetto non aveva partecipato Lucina, così come non aveva presenziato ad alcun altro momento ufficiale della giornata. La sua assenza era stata notata da tutti, ma nessuno ne aveva fatto cenno. Sì, velatamente, nelle frasi furtive pronunciate a mezza bocca l’assenza aleggiava e tutti vedevano che il posto alla destra del conte non era occupato come al solito dalla consorte, vi sedeva Alcide la cui presenza ne offuscava ogni altra, e non tanto per la statura imponente.
Lucina, dunque, aveva reagito sdegnosamente alla decisione di arruolare Alcide nella lotta contro i Giganti, si era opposta con fermezza. A più riprese aveva minacciato di abbandonare la contea e di rifugiarsi presso il principe suo fratello per chiedergli protezione e ristoro contro l’insopportabile offesa. Al fratello-principe aveva pure inviato un messaggio ricevendone una risposta negativa, giustificata con le campagne militari che lo impegnavano al servizio del re e lo sconsigliavano d’inimicarsi un alleato importante come il conte suo consorte. Offesa e delusa si era ritirata in uno sdegnoso isolamento confortata solo dalla preghiera e dalla solidarietà del figlio, anche lui contrario a quella scelta che offendeva sua madre e lui stesso.
Inutili erano state le intercessioni di don Procopio che la guidava e l’accompagnava nel percorso della fede, anzi avevano finito per isolarla anche da lui, per indurla a cercare conforto nella compagnia del suo confessore, un monaco del convento dei frati minori.
Le restava solo il sostegno e la comprensione del figlio.
Cocidio, fino ad allora ignaro di quella parentela illegittima, di fronte alla rivelazione del padre si era allarmato e si era opposto all’idea di affidarsi ad Alcide per risolvere la contesa con i Giganti; idea avanzata e sostenuta da Sofia anche dopo aver appreso della parentela. Cocidio paventava ripercussioni sui diritti di successione e avrebbe volentieri evitato il confronto con il consanguineo più vecchio e più forte di lui che, di certo, pensava, non avrebbe perso l’occasione di far valere il proprio diritto di primogenitura. Però non si rassegnava. Posto di fronte al fatto compiuto aspettava l’occasione per ottenere una rivincita e un risarcimento, nel frattempo si limitava a immaginare azioni per screditare l’odiato fratellastro.
[1] Nei comuni medievali italiani il Podestà rappresentava la più alta carica civile: amministrava la giustizia e garantiva l’ordine pubblico.
[2] Pajari o pajare sono tipiche costruzioni a secco a forma di tronco di cono.
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