giovedì 26 gennaio 2023

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

Il popolo di Leuternia nella morsa della Gigantomachia.    La reazione popolare e il tentativo di organizzare una resistenza armata per la costituzione delle libere Universitas civium. Il ruolo dei monaci dell’Abbazia di San Nicola a Casole.

 Capitolo undicesimo

 Damianu Polifemu se cridìa ca tutti li cristiani, ricchi e povareddhri, saputi e gnuranti, tiniane li stessidiritti e putiane decidere tutti ‘mparu e quistioni ca ‘ntressane u cuvernu de li Stati. Pinzava puruca li feudi cuvernati da li stessi habbitanti e la cacciata de lu conte de Leuternia erane cose ca u populu hulia

 Il tentativo dei Giganti di allettare il popolo di Leuternia con generiche proposte di alleanza, promesse di riduzione dei gravami fiscali e riconoscimento dei diritti comuni sospesi, un risultato lo raggiunse. Non voluto e, in definitiva, ostile, in quanto sollecitò la convinzione che per realizzare gli obiettivi delle proteste fosse necessario organizzarsi, creare una rete di comando, cercare alleanze e dotarsi di una forza militare capace di contrastare sia la posizione del conte, sia le pretese dei suoi antagonisti. Nel terzo libro capiremo se questi furono calcoli esatti e prospettive plausibili, per il momento concentriamoci sul percorso che porterà il popolo di Leuternia ad attuare il proposito indicato.

 Era una mattina come tante altre a Leuternia, una mattina di quel periodo incerto e problematico che non lasciava spazio all’allegria né alla speranza. Le strade erano animate e le botteghe aperte; il tempo era clemente, spirava una brezza che mitigava il caldo afoso di un giugno (era il giugno dell’anno precedente all’insorgere della pestilenza solfurea) implacabile; il mare era calmo, appena toccato da rapsodie di brezza in fuga che ne increspavano la superficie di un celeste sbiadito e offuscato da una leggera foschia. Sul lungomare non c’era la solita presenza di ragazzi e di perdigiorno affacciati al muretto per osservare le evoluzioni giocose dei delfini che al largo solcavano il golfo, gli inseguimenti dei banchi di sgombri e di sardine o il ribollimento delle acque prodotto dall’affiorare dei grossi banchi di palamite. La gente camminava lenta, gravata da cattivi pensieri, soprattutto dal bisogno di risolvere i problemi più impellenti del momento: il lavoro e l’approvvigionamento di derrate alimentari, acuiti dalle razzie delle bande dei Giganti. La gente parlava sottovoce, con cautela, per paura di possibili delazioni e per il senso di spossatezza incombente sui corpi fiaccati dalle privazioni e sugli animi sfiniti dalle delusioni. Argomento comune delle conversazioni era la proposta dei Giganti, considerata da molti una notizia diffusa a bella posta dal conte. Si cercavano i nomi dei capipopolo, si ipotizzavano personaggi in vista e in genere ci si soffermava sui capi delle corporazioni e delle confraternite, o sui magistrati eletti dai parlamenti.

Niente di tutto ciò si rivelò vero.

Fu proprio in quel giorno di giugno che qualcuno cominciò a elaborare l’idea della necessità di dare una guida al movimento spontaneo di protesta.

Quel qualcuno era Damiano Polifemo, un uomo di lettere, maestro di eloquenza e filosofia nello studio dell’Abbazia di San Nicola a Casole, poeta e scrittore.

Nato da una povera famiglia di contadini del casale di San Giovanni Calavita si era distinto per l’intelligenza vivace, una memoria ferrea e il precoce desiderio di imparare. La sua precocità fu notata dal monaco residente nella vicina chiesa rupestre e presto indirizzata allo studio. Imparò a leggere e a scrivere il greco e a soli dieci anni fu inviato a studiare a Casole dove si applicò alla lettura dei classici che lì erano coltivati con grande impegno e disponibilità di manoscritti.

Fu un lettore onnivoro, ma subì soprattutto la seduzione del sistema filosofico di Aristotele e del contesto nel quale si sviluppò: la Grecia delle città-stato dove era nato e si era radicato un inedito e promettente sistema politico democratico.  Egli era affascinato da ogni aspetto della vita e della cultura della Grecia classica: dal teatro alle regole della democrazia, dalla storiografia alla scultura; e per contrasto era ossessionato dall’arretratezza dell’organizzazione politica della sua epoca, parcellizzata e impotente, paralizzata dal dominio di piccoli e grandi feudatari la cui presa su città e campagne costituiva un peso insopportabile e un freno allo sviluppo della società e dell’economia. Per questi motivi riteneva interessante, e in linea con il modello classico tanto amato, l’esperienza dei Comuni dell’Italia centro-settentrionale, e desiderava ardentemente che anche a Leuternia se ne imitasse il modello.

Damiano era un sincero e determinato sostenitore del principio di uguaglianza e riteneva che ognuno, ricco o povero, colto o analfabeta, avesse il naturale diritto di partecipare alla vita pubblica, contribuendo a definirne gli indirizzi. Il sistema delle Universitas civium, pur all’interno di un sistema arretrato e incompleto, era un accettabile compromesso per il quale valeva la pena di lottare. Erano l’autogoverno del popolo e il superamento dell’oligarchia nobiliare gli obiettivi a cui Damiano aspirava, sostenuto e indirizzato dai fulgidi esempi delle numerose letture di cui si era nutrito per tanti anni.

Aveva da poco compiuto ventidue anni quando, al seguito dell’Egumeno[1] di Casole, si recò a Costantinopoli dove conobbe alcuni tra i più importanti intellettuali del tempo che gli aprirono nuovi orizzonti culturali. Negli anni successivi viaggiò in Italia per approfondire gli studi giuridici e politici presso le università di Napoli e di Bologna, visitò Roma e si spinse fino a Parigi per seguire i corsi tenuti dai più noti filosofi della sua epoca. Tornò a Leuternia dopo oltre dieci anni di peregrinatio academica alla ricerca di un approdo teorico definitivo poiché era combattuto tra gli insegnamenti dell’Aquinate e le aperture dei grandi innovatori come Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham le cui dottrine avevano esplorato nuovi e promettenti filoni d’indagine. All’età di trentaquattro anni sposò Anna Gervasi, figlia di un ricco mercante di olio del quale amministrò le notevoli proprietà immobiliari, ed ebbe l’agio di potersi dedicare ai suoi interessi culturali e all’insegnamento.

Damiano, profondo conoscitore delle vicende politiche europee e della nostra povera e dilaniata penisola, già da tempo meditava sulla condizione delle plebi contadine, degli esponenti di arti e professioni di Leuternia, e oltre a conoscerne i sentimenti ne studiava gli umori e i comportamenti, quell’impotente desiderio di ribellione che di tanto in tanto esplodeva con rabbiosa determinazione e, come lo scoppio di una bocca da fuoco, si esauriva nella fiammata prodotta dalla polvere da sparo, ma senza l’offesa micidiale di cui quella era portatrice. Egli s’interrogava sul da farsi e al termine di ogni riflessione finiva per trovarsi davanti a risposte impraticabili, muri invalicabili che erano limiti e remore interiori prima di essere ostacoli materiali da abbattere: era il muro della rassegnazione che vedeva davanti a sé, perché rassegnazione e fatalismo osservava tra i suoi concittadini, e timore di perdere anche quel poco di tranquillità e di pace ritagliate a fatica nel tempo incerto che toccava loro vivere.

 Quella mattina Damiano si era alzato di buon’ora con in testa un’idea meditata nelle lunghe ore di sonno interrotto, maturata lentamente nei giorni precedenti e ora pronta per essere messa alla prova. Ci avrebbe provato con tutte le sue forze perché era convinto che l’inutile guerra tra conte e Giganti l’avrebbe amaramente pagata il popolo di Leuternia, chiunque dei due contendenti avesse prevalso. Era una guerra inutile perché per lo stato di Leuternia e il suo popolo non sarebbe cambiato alcunché, e in ogni caso si sarebbe dovuto por mano alla ricostruzione per sanarne le ferite. Come in ogni guerra, d’altronde, e sempre a carico del popolo ignaro e incolpevole. Per primo incontrò il notaro Rizzo. «Buongiorno messer notaro». «Buongiorno a te, maestro; anche se temo che i giorni buoni se ne stiano alla larga da Leuternia». «E noi cosa facciamo per invitarli a venire?» Damiano non s’era lasciato scappare il debole appiglio e dopo qualche scambio di battute generiche, pose al notaro un’altra questione. «I Giganti cercano i capipopolo che organizzano i tumulti contro il conte». «Tu li conosci?», rispose scherzosamente Giovanni Rizzo. «Ne conosco almeno due e di altri potrei fare nomi e cognomi sicuro di non sbagliarmi». Nel frattempo alla coppia si era aggiunto un terzo notabile, lo speziale Medardo Greco che si apprestava a recarsi in bottega. Giovanni lo accolse così: «Il maestro Polifemo giura di conoscere almeno due capipopolo…». «A dire il vero, adesso sono certo di conoscerne tre», lo interruppe Damiano. «Tu stai pazziando», disse il notaro pensando a uno scherzo. Non era uno scherzo. Damiano si fece più serio del solito e continuò con queste parole: «I Giganti hanno ragione a cercare un contatto con i cittadini che protestano». «Il problema è che i tumulti sono solo fuochi spontanei, non incendi procurati», disse Medardo. E Damiano: «Allora andrebbero organizzati e guidati». Giovanni: «Li guiderai tu?» Damiano: «Io, tu, Medardo e altri che sono insofferenti a questo stato di cose». Giovanni: «Tu stai pazziando davvero». Tra no, sì e ragionamenti seri e faceti, Medardo propose di continuare la discussione nella sua bottega per evitare che orecchie indiscrete potessero riportare quelle parole all’attenzione del conte, compromettendone sul nascere ogni possibilità di successo e la loro stessa sicurezza. Nel chiuso della bottega dello speziale il confronto fu acceso. Giovanni e Medardo, resisi conto delle buone ragioni dell’amico, convennero che forse un tentativo andava fatto, con l’obiettivo di conquistare, come già succedeva per altre città, l’autonomia amministrativa e l’autogoverno riconosciuto e protetto dal potere regio. La prima pietra della costruzione era stata posta, Damiano era soddisfatto e per non lasciar raffreddare gli animi propose la seconda fase del suo piano. «In tre si è ancora in pochi per farsi carico di un movimento diffuso su tutta la contea. Dobbiamo individuare altri adepti, qui e negli altri borghi. Ci troveremo domani per valutare gli elenchi che ognuno di noi avrà formulato».

Il piano fu portato avanti fase dopo fase, con energia, attenzione e rapidità. Dopo un mese erano state raccolte adesioni diffuse sull’intero territorio ed erano state poste le premesse per porre il movimento popolare di protesta sotto un unico comando.Nel frattempo altri due punti fermi della strategia erano stati messi a punto. Damiano e Giovanni si recarono a Casole, come spesso facevano, per incontrare l’Egumeno. A questi il problema era già noto e solleticava un’aspettativa e un’evidente convenienza.

Come i lettori forse sanno, l’Abbazia di San Nicola a Casole distava appena nove miglia dalla città di Leuternia, nelle vicinanze del porto di Otranto (Hudrentu), con la sua ricchissima biblioteca, lo scriptorium e lo studium rappresentava uno dei più importanti centri culturali europei e certamente il più attivo per la conoscenza e la diffusione della cultura classica, greca e latina, che lì disponeva di manoscritti come in nessun’altra realtà era possibile riscontrare. Edificata nel 1098 o 1099 per volere di Boemondo I, principe di Antiochia e di Taranto e figlio di Roberto il Guiscardo, su un antico sito occupato fin dall’VIII secolo dai monaci basiliani rifugiatisi in Italia per sfuggire alle persecuzioni della lotta iconoclasta scatenata dall’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico, nei due secoli successivi conobbe una grande fioritura artistica e letteraria con la presenza di un rinomato Circolo poetico capeggiato dall’Abate Nicola Nettario (1155-1160) e in seguito, in età federiciana, da Giovanni Grasso, protonotario e maestro imperiale tra il 1219 ed il 1236, suo figlio Nicola d’Otranto ed infine Giorgio da Gallipoli. La sua distruzione ad opera degli Ottomani di Gedik Ahmet Pascià nel 1480 fu una grave sciagura per Leuternia e per tutto il Mezzogiorno d’Italia, ma all’epoca dei fatti raccontati dalla “Cronica” era ancora una realtà ricca e fiorente e l’Egumeno aveva tutto l’interesse ad accrescere la potenza e la ricchezza dell’Abbazia e quindi non poteva restare insensibile di fronte alle proposte dei messaggeri del popolo di Leuternia. [2]

 «In che cosa può esservi utile questo umile monaco che poco conosce del mondo?». L’Egumeno li aveva accolti con queste parole andando loro incontro. I due s’inginocchiarono e gli porsero le mani giunte in segno di sottomissione. Ricevuto il devoto omaggio li fece alzare e li abbracciò, quindi, dopo essersi informato sulla salute e sugli studi degli ospiti, consentì che si entrasse in argomento. Damiano e Giovanni esposero all’Egumeno il piano complesso che avrebbe scardinato il potere comitale. Parlò per primo Damiano: «Voi conoscete, padre, la triste situazione in cui langue Leuternia: solo la vostra benedizione e il vostro intervento possono trarci da questo pantano». «Il nostro intervento consiste di preghiere e di digiuni. Ve ne possiamo dedicare molti». «Alle preghiere, padre, dovrete accompagnare l’intercessione della Chiesa presso il nostro re napoletano», disse Giovanni per suggerire l’accordo che avrebbe assegnato i territori della contea all’Abbazia e riconosciuto alle Universitas cittadine e rurali l’integrale applicazione degli statuti manomessi dai conti Patruno, statuti ai quali si richiedeva l’aggiunta di una serie di  capitoli supplicatori, di sgravi fiscali e agevolazioni commerciali che avrebbero favorito il  protagonismo dei cittadini nella vita sociale e il  rilancio delle attività economiche gravemente compromesse.

Alla stesura di tali specifiche richieste da avanzare al Re si stava già applicando un gruppo di promotori della riscossa popolare e in primis il notaro Rizzo, esperto di problemi giuridici e profondo conoscitore del sistema delle gerarchie feudali. «I diritti sulla contea erano stati acquisiti dall’Abbazia prima della conquista Sveva. Cancellati da questa, ne era stata promessa la ricostituzione dopo la sconfitta del giovane Corradino…»[3]. «Per tale ragione, Padre, siamo qui a supplicarla. La nostra azione sarà rafforzata dal comune obiettivo di ripristinare il diritto violato», disse Damiano, approfittando di una pausa nella rievocazione storica dell’Egumeno. Il colloquio si protrasse a lungo, scivolando dalle questioni contingenti che li avevano riuniti, a temi di carattere religioso e liturgico che stavano molto a cuore ai dignitari dell’Abbazia.

Quando, dopo i tre giorni di soggiorno a Casole, i due supplicanti si congedarono avevano la fondata convinzione che l’Egumeno avrebbe attivato la sua diplomazia. Certezze non ne aveva date né aveva preso impegni, però il discorso si era addentrato in territori troppo sensibili e riservati per non denotare interesse e generare aspettative. «All’Egumeno brillavano gli occhi quando ha intravisto la possibilità di incrementare le entrate dell’Abbazia», disse Giovanni sulla strada del ritorno. «Adesso tocca a noi rendere possibili le attese», rispose Damiano mentre guardava il mare che luccicava da lontano, oltre i pascoli e la macchia allungati tra la carrareccia e l’alta scogliera a picco sulle onde. Quella vista lo rasserenava, era aspra e dolce allo stesso tempo, si rifletteva nel carattere degli abitanti che da quella povera terra sapevano trarre le ragioni e i mezzi della loro esistenza. L’armonia del panorama, tuttavia, non lo affrancava dalle riflessioni gravi, penose, suggerite dai pascoli abbandonati, disabitati dalle greggi belanti, dagli armenti mugghianti, dalle corse giocose di agnelli e vitelli e puledri; dalla macchia che ne conquistava lo spazio. «E tornare a osservare questi spazi resi a nuova vita», proseguì Giovanni che ruminava pensieri simili a quelli dell’amico. La lenta cavalcata tra Casole e Leuternia diede ai due viaggiatori l’occasione per confrontarsi sui numerosi risvolti dell’avventura in cui si erano cacciati e sui gravi pericoli a cui andavano incontro. «È necessario evitare il rischio pernicioso che le prevedibili rappresaglie del conte portino alla decapitazione dell’intera dirigenza del movimento», disse Damiano, consapevole che non ci si poteva esporre nudi e disarmati di fronte al pericolo. «Pensi che ci si debba dare alla macchia?» chiese Giovanni tra il serio e il faceto. «Qualcuno, uno per ogni borgo. Gli altri svolgeranno la loro azione nell’ombra, evitando di esporsi e di apparire». «Non sarà facile passare inosservati». «Lo sarà quando avremo a disposizione un piccolo esercito con il compito di contrastare gli armati del conte e di sobillare la rivolta popolare». «E dove lo trovi un esercito», disse ancora Giovanni, incredulo che Damiano ci pensasse veramente. Il notaro Rizzo, come Damiano, d’altronde, non era un uomo d’azione. Egli era convinto che ogni controversia trovasse la sua naturale sede di composizione nelle aule di giustizia, ai diversi livelli della giurisdizione. Sapeva anche, per esperienza ultradecennale, che i signori feudali aggiravano le norme e si acconciavano per il loro meglio schiacciando con la forza chiunque vi si opponesse. Con il colpevole silenzio del re, attento a non scontentare principi, duchi e conti per conservare i delicati equilibri politici che ne garantivano l’obbedienza. «Qualche idea ce l’ho e te la espongo, poi vediamo come attuarla», rispose Damiano. Il ritorno da Casole si concluse senza intoppi. I due cospiratori tornarono alle occupazioni ordinarie e con l’incoraggiamento dell’Egumeno diedero nuovo impulso al progetto cospirativo.

 Le voci messe in giro dai Giganti erano arrivate anche all’orecchio del conte Patruno che se n’era preoccupato e s’interrogava sul da farsi. Egli non aveva ancora alcuna informazione né sospetti sul processo cospirativo in atto, perciò la sua attenzione era tutta rivolta a contrastare i suoi nemici dichiarati. Li contrastò sullo stesso terreno e con le stesse armi: cercò di spaventare i cittadini di Leuternia con un’incalzante strategia mediatica. Diede ordine a tutti gli ufficiali pubblici di affiggere sulle porte delle loro sedi i proclami con i quali, dilatandone la portata e gli effetti, s’informava la cittadinanza delle incursioni dei Giganti nei borghi, nei casali e nelle masserie e delle distruzioni e razzie da essi perpetrate. I proclami, amplificati dai banditori in tutte le piazze, si concludevano con l’impegno del conte a contrastare con ogni mezzo «l’avanzata distruttrice delle masnade di avventurieri che infestano la terra di Leuternia con effetti peggiori di quelli causati a più riprese dai pirati saraceni», e con l’invito ai cittadini di accompagnarne l’azione con il sostegno e la preghiera. L’equiparazione tra Giganti e pirati saraceni avrebbe prodotto, secondo le aspettative del conte, un riflesso condizionato e un’avversione spontanea della popolazione che delle incursioni piratesche portava ancora le ferite. Aspettative realistiche. Meno realistico si sarebbe rivelato il risvolto della medaglia, la fiducia della popolazione nelle capacità del conte di proteggerla dalle aggressioni e dalle razzie, come non l’aveva difesa dagli attacchi dei pirati saraceni. Tenendo anche conto, e non era una questione secondaria, che i Giganti razziavano i magazzini comitali, i luoghi e le rappresentanze del potere feudale, non offendevano i cittadini né distruggevano le loro ricchezze. L’offensiva mediatica si avvalse anche dei servigi del clero secolare che tuonò in ogni chiesa contro la crudeltà e la blasfemia dei Giganti, i quali, quando se ne presentò l’occasione, non disdegnarono di colpire qualche prete con l’obiettivo di consigliarne almeno la neutralità e il silenzio.

 La paura dei Giganti aveva aperto una piccola breccia tra i promotori della rivolta. Alcuni, due o tre, avevano proposto di parlamentare con il conte e strappargli concessioni fino ad allora insperate. «Se vincono i Giganti cadiamo dalla padella nella brace», aveva sostenuto un tal Leandro, un mercante di tessuti. Gli altri, i contrari all’abboccamento pensavano che porre il problema in quei termini sarebbe stata una resa: «Dobbiamo vincere noi, questo è l’imperativo. Se perdiamo, chiunque vinca, per Leuternia non ci sarà più scampo», sosteneva la maggioranza. E Damiano, capo riconosciuto da tutti, aveva chiuso la discussione con un annuncio e una proposta: «Non apriremo canali di comunicazione con nessuno dei due. Il nostro alleato sarà un altro: il suo nome è Ignazio De Grandis». Il nome proposto suscitò un unanime coro di meraviglia e di approvazione. Seduta stante furono assunte le opportune decisioni per contattarlo e convincerlo a impegnarsi al fianco della popolazione di Leuternia. Fu selezionata una delegazione che avrebbe contattato Ignazio e organizzato, fuori dalla contea, una base per accogliere i cittadini che avessero voluto combattere in armi al fianco di Ignazio. Tutti gli altri membri del gruppo, tra i quali Giovanni Rizzo e Medardo Greco, sarebbero rimasti nelle rispettive residenze per sollecitare e organizzare le rivolte popolari che avrebbero fiancheggiato e sostenuto l’azione armata. Essi avrebbero agito nell’ombra continuando a svolgere le rispettive attività, una fitta rete di agitatori e di spie avrebbe fornito le informazioni per agitare la rivolta e indirizzare la forza armata di supporto. Grazie alla netta e immediata decisione del gruppo dei cospiratori, i risultati, nonostante gli sforzi del conte, non furono quelli sperati. Tra la popolazione non si diffuse il sentimento di paura né si sollevarono richieste di protezione, prevalse un atteggiamento di neutralità verso i due contendenti. Forse è più esatto dire che i cittadini di Leuternia avversavano allo stesso modo sia i Patruno sia i Giganti e desideravano affrancarsi dalla tutela di quelli come dal doversi assoggettare alla tutela di questi. Essi avevano sperimentato nel tempo, nell’arco di diverse generazioni, la crudeltà, l’avidità e l’arroganza della dinastia dei Patruno, l’indifferenza per le sofferenze e le disgrazie del popolo, la noncuranza per il suo benessere; ora intravedevano la possibilità di liberarsi dal giogo di quella sudditanza e non ritenevano di dover soggiacere al ricatto per evitare un male peggiore. Anche perché non c’erano mali maggiori e minori tra cui scegliere. Essi conoscevano la rozzezza e la violenza dei Giganti, figli della stessa malapianta da cui discendevano Teo e i suoi figli ed era sufficiente a diffidare sia degli uni sia degli altri. E poiché il conflitto che li opponeva li avrebbe sfiancati, meglio approfittare della favorevole occasione per liberarsi definitivamente della malapianta, estirpandola dalle radici.


[1] A Casole, abbazia tenuta da monaci basiliani di rito bizantino, l’Egumeno (Abate) era la dignità più importante della gerarchia abbaziale.

[2] Notizie sull’Abbazia sono reperibili (tra i tanti) sui seguenti siti online:

https://belsalento.altervista.org/labbazia-di-san-nicola-di-casole/

https://www.bpp.it/Apulia/html/archivio/1975/I/art/R75I006.html

https://hrcak.srce.hr/file/295740;

ed anche in: C. DAQUINO - Bizantini in terra d'Otranto. San Nicola di Casole (Capone ed. LE, 2000)

G. MUSCATELLO - L' abbazia di San Nicola di Casole. La chiesa, il complesso e il contesto topografico (Esperidi ed., Monteroni di Lecce, 2022).

 

 

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