Capitolo decimo
Quarche giurnu dopu u nascimentu dei gemelli, quannu se sippe ca erane vauti comu giacanti, a casa de Gaia era trasuta nna vecchia ca ciuveddhri canuscia e l’hia salutata cu nna sorta de mmacarìa: “Ssignuria sinti nna mamma furtunata percè li fiji toi sarannu surdati de valore e poi stare tranquilla ca ciuveddhri li pote ccidire quannu cumbattene”.
Lo sdegno e la rabbia dei gemelli furono incontenibili. Non fosse stato per la senile prudenza di Gaia si sarebbero catapultati come palle di fuoco a Leuternia alla ricerca di Teo e di suo figlio per sfidarli a duello e punirli della spregevole impudenza.
Ci fu un parlamento tra i due fratelli, istruiti a puntino dalla previdente vegliarda, e il conte suddetto, con soddisfazione reciproca e reciproche concessioni. Il conte ne avrebbe avuto il porto di Kallipolis, d’importanza strategica per una realtà che fino ad allora ne era priva, tre piccoli feudi di confine comprendenti casali tra i più ricchi dell’intera provincia e difesi da strategici castelli fortificati. Ai Giganti sarebbe stata concessa la disponibilità di una base logistica all’interno della contea di Lecce da cui partire per le scorrerie nelle terre di Leuternia. Il beneplacito ricercato era stato ottenuto, ma ciò di cui non si resero conto i fratelli né la madre consigliera fu l’effetto che ne conseguiva. Da quel momento la forza bruta dei Giganti era diventata lo strumento inconsapevole nelle mani del conte di Lecce, il quale li avrebbe utilizzati per il perseguimento dei propri interessi e al momento opportuno, tradendoli, li avrebbe abbandonati al proprio destino per accordarsi con il vicino e mettere fine al disordine indotto dalla loro presenza. C’erano, a volerli vedere e senza bisogno di essere avveduti strateghi o fini diplomatici, tutti gli elementi per poterne trarre indicazioni realistiche; solo l’ignoranza e la brutalità dei Giganti assetati di sangue, confidenti senza limiti nella superiorità della loro forza distruttrice, potevano ignorarli. Ma essi confidavano anche su un secondo decisivo punto di forza, di segno opposto rispetto al primo perché di origine sovrannaturale quando quello era naturale, fisico e concreto.
Ne riferisco con tutte le cautele del caso, però non posso neanche tacerlo perché così si esprime, lui senza cautele, il mio testimone e suggeritore. È la seconda volta che c’imbattiamo in una testimonianza di questo tenore. Ai nostri tempi tali credenze inducono al sorriso, ma all’epoca dei fatti era convinzione conclamata ed era in grado di condizionare le vite e perfino di sconvolgerle.
Sta di fatto che nei giorni successivi alla nascita dei gemelli, quando si era sparsa la voce delle loro dimensioni eccezionali, al cospetto di Gaia si era presentata una vecchia signora che l’aveva salutata con queste parole: «Voi siete una madre speciale, i vostri gemelli saranno valorosi soldati e non conosceranno la morte in battaglia». Nello stupore che suscitò quella frase, Gaia fu incapace di reagire. Guardò i suoi figli eccezionali, si compiacque e si spaventò perché, come in sogno, si rivide sul letto del concepimento imbrattata del sangue di Celius, le sue coglie procreatrici gettate in un angolo. Quando si volse verso la donna che aveva pronunciato il sortilegio per chiederle chi fosse, perché avesse pronunciato quelle impegnative parole, fu meravigliata di non trovarla al suo fianco. «Dov’è la donna che ha pronunciato il sortilegio?», chiese Gaia rivolta ai presenti. Nessuno rispose. Tutti avevano sentito la profezia ma nessuno era in grado d’individuare chi l’avesse pronunciata. Nessuno conosceva la donna, nessuno la vide mai più dopo quel breve, profetico pronunciamento. Nessuno l’aveva vista allontanarsi e ogni successiva ricerca fu vana. Era un vaticinio? Tale, per certo, fu ritenuto, e col passare degli anni l’incerta profezia d’invincibilità fu considerata alla stregua di una promessa d’immortalità: immortali, si ritenevano i Giganti; invincibili, se non immortali, li ritenevano i loro contemporanei e tutti ne avevano paura e se ne tenevano a debita distanza, specie in battaglia. E le vittorie ne alimentarono il mito.
La missiva con le rimostranze nei confronti del conte nemico fu infine inviata. Il contenuto, recriminatorio e ultimativo, elencava le offese subite e a suggello delle legittime pretese riparatorie poneva lo sfregio dell’anello. La conclusione conteneva un’implicita dichiarazione di guerra, giustificata dall’esigenza, dopo il tempo del sopruso, di ripristinare la legittimità dinastica a favore dei fratelli di Stefano, da questi illegittimamente usurpata e successivamente caduta nelle mani dell’attuale, anch’egli illegittimo, possessore. L’alone d’invincibilità che accompagnava i Giganti aveva allarmato Teo e i suoi figli. Nonostante avessero riso e ironizzato sulla proposta di aiuto, un brivido era corso lungo le loro schiene al solo pensiero del possibile confronto. Teo, tuttavia, non ignorava né sottovalutava la situazione reale che congiurava contro il disordine portato da rivendicazioni comunque ritenute destabilizzanti, fossero i Giganti ad avanzarle o il popolo in rivolta: gli interessi delle superiori istanze della scala gerarchica feudale non lo avrebbe permesso, e questa era una garanzia che lo rassicurava. Si convinse della serietà della faccenda quando ebbe notizia di un attacco contro un drappello di armigeri di scorta a un collettore delle tasse. C’erano stati in altre occasioni assalti simili da parte di briganti, differenti per efferatezza e rapidità. Se i briganti erano bande appiedate e disorganizzate, attente al bottino e ad evitare, per quanto possibile, l’eliminazione degli armigeri e degli esattori, i cavalieri responsabili dell’attacco in questione avevano attaccato per uccidere e spaventare, solo incidentalmente per il bottino. Il quale fu in parte distribuito agli abitanti di un vicino casale che ne ebbero molta soddisfazione. Sul luogo dell’assalto era stato rinvenuto un proclama che avvertiva il conte e la sua famiglia di abbandonare la contea se volevano avere salva la vita. Il secondo attacco ebbe luogo qualche giorno dopo a danno di un altro drappello di armigeri che traduceva verso la città di Leuternia una coppia di ladri per la celebrazione del processo a loro carico. Anche in questo caso furono eliminati gli armigeri, meno uno al quale fu affidato un messaggio da recapitare al conte. I due ladri furono invece liberati come segno della magnanimità dei Giganti nei confronti del popolo sofferente. Si registrarono poi, in rapida successione, incursioni contro guarnigioni di stanza presso le torri di guardia; la distruzione delle coltivazioni nei poderi di proprietà della famiglia comitale; attacchi contro le Capitanie e le Corti baiulari nei centri più popolosi della contea; fino alla conquista di alcuni castelli nelle zone più periferiche e di confine. Quando l’azione dei Giganti giunse a tale livello d’iniziativa, la situazione per i Patruno era già abbastanza compromessa e richiedeva decisioni rapide e incisive che, in verità, tardavano ad arrivare.
Nel castello di Leuternia le notizie delle incursioni dei Giganti avevano suscitato scalpore e apprensione crescenti. Dapprima ne erano stati minimizzati gli effetti e sottovalutata la possibile evoluzione. «Sarà un fuoco di paglia», aveva detto Cocidio. «Per fermarli può essere utile inviare una protesta al conte di Lecce che tollera sulla sua terra la presenza di gruppi armati a noi ostili», aveva aggiunto Sofia dimostrando un acume politico più fine del fratello. Teo la considerò una buona soluzione e decise che sarebbe stato utile inviare la stessa figlia, protetta da una numerosa scorta, a rappresentare le rimostranze al suo vicino. Sarebbe stata anche una buona occasione per suggerire all’irrequieto vicino la possibilità di appianare il dissidio tra le due contee con un matrimonio tra l’erede di Gualtiero, conte di Lecce, e Sofia, la bella e intelligente figlia di Teo. Furono predisposti anche spostamenti di uomini verso le zone di confine per dare man forte alle guarnigioni e cercare di resistere con maggiore vigore agli attacchi nemici. A Cocidio fu dato l’incarico di guidare un drappello di armigeri sostenuto da un gruppo di cavalieri per pattugliare i feudi di confine e intercettare qualche banda avversaria in azione. La sua convinzione, il “fuoco di paglia” di cui aveva parlato nelle conversazioni famigliari, si sarebbe spento, egli pensava, se le piccole bande dei Giganti si fossero scontrate con le più consistenti forze regolari della contea. Presto, però, si sarebbe dovuto ricredere: nella prima scaramuccia con una piccola banda guidata da Alcino, i suoi uomini furono costretti alla fuga e si dovettero contare alcuni feriti. Fortuna che né Alcino né alcuno dei suoi aveva riconosciuto il rampollo del conte, perché la sua vita in quel caso sarebbe stata in grave pericolo. Il ricordo di quel primo incontro resterà impresso per sempre nella mente di Cocidio, impressionato dalla statura del personaggio, dalla forza con cui brandiva uno spadone di dimensioni abnormi e forse ancor di più dalle sembianze raccapriccianti di un viso irregolare, contornato da barba e capelli selvaggiamente incolti, nel quale, come tizzoni ardenti, gli occhi sembravano saettare folgori e fiamme. Nell’infuriare della battaglia egli eccitava il suo animo e terrorizzava gli avversari più intrepidi con altisonanti grida belluine mentre roteando il tremendo spadone creava il vuoto intorno a sé e costringeva gli avversari a una fuga tanto precipitosa quanto disonorevole. Cocidio non avrà altri incontri ravvicinati di quel tipo con i Giganti, circostanza di cui ringraziò la sorte. Egli nonostante il nome ambizioso impostogli dal padre, il nome di un dio celtico della guerra, non era un guerriero coraggioso. Amava il comando e vantava le proprie doti di combattente, ma nelle scaramucce della battaglia non aveva mai dimostrato ardimento. Si distingueva, questo gli va riconosciuto, nei tornei e nelle giostre cavalleresche dove più che il coraggio contavano le abilità affinate nell’esercizio, dove i pericoli erano limitati e prevalevano le ragioni del gioco e del divertimento. Con Cocidio, ma il decadimento era iniziato già con il padre Teo, la stirpe dei Patruno aveva perso l’originario spirito guerresco, incarnato da Celius e coltivato da Stefano; si può dire che si fosse adattata alla molle vita di corte, al tranquillo e gaudente ritmo dei piaceri e degli agi della ricchezza. L’adattamento, tuttavia, se aveva affievolito lo spirito guerresco, non ne aveva ingentilito i sentimenti che, celati dietro il paravento della ragion di stato, restavano rozzi e crudeli, inclinando ai più atroci ed efferati delitti, personalmente o, preferibilmente, per mano di sicari fedeli e fidati. Lo spirito guerresco della stirpe era selvaggiamente incarnato dai Giganti, ma forse più della forza i Patruno temevano la leggenda che li accompagnava: il sortilegio della misteriosa donna nel giorno della presentazione dei neonati gemelli alla corte di Leuternia. «Comunque non sono immortali», aveva detto Teo al figlio scosso dall’incontro con Alcino, mentre il pensiero già scandagliava le profondità della sua nera coscienza alla ricerca di qualche via d’uscita. Gli venne incontro, ancora una volta, l’avveduta e perfida figlia: «Se non moriranno in battaglia, possono morire per mano di qualche sicario, col veleno o con altri stratagemmi. Nel corso della mia missione ne sonderò le possibilità», disse Sofia. Quando lo spiegamento delle forze messe in campo dai Giganti si rivelò superiore alle sue capacità di difesa, Teo fu indotto a prendere un’altra importante decisione: avrebbe assoldato una compagnia di ventura guidata dal più valoroso capitano.
Il suo nome era Alcide Aniceti e la sua biografia sarà raccontata nel capitolo dodicesimo, perché a questo punto, dopo aver detto della strategia del conte Patruno è necessario dare uno sguardo anche alle intenzioni dei Giganti che non avevano ancora attuato tutti i suggerimenti diplomatici della madre.
Dopo i primi successi della campagna militare, i Giganti si apprestarono a cercare contatti con gli ambienti popolari della città di Leuternia e nei casali dove si erano registrati moti di protesta. Il loro obiettivo mirava a mantenere vivo con continuità il fronte del malcontento per indebolire la forza militare e repressiva del conte e facilitare la propria azione offensiva. Come ambasciatori furono utilizzati alcuni abitanti delle masserie e dei casali occupati, istruiti a dovere sul da farsi e accompagnati dalla minaccia di gravi ripercussioni sulle loro famiglie in caso di tradimento e di delazione. I Giganti erano riusciti ad avere qualche nome, estorto con la forza, ma erano nomi ipotetici, perché nessuno poteva davvero conoscere la catena di comando della rivolta in quanto non c’era una catena di comando. Quello in atto era un moto spontaneo che compattava, in momenti di particolare esasperazione e per motivi contingenti, i membri delle corporazioni delle città e il popolo dei braccianti e dei salariati, per rivendicare la riduzione delle tasse o il ritiro di qualche provvedimento comitale che ne peggiorava le condizioni di vita già gravose a causa della crisi economica susseguente alla disastrosa epidemia di peste. Nella città capoluogo una folla inferocita si era presentata alle porte del palazzo del capitano e lo aveva occupato con la forza per protestare contro l’aumento di dazi sulle arti e il commercio:
«Datio sopra le industrie et le mercantie:
· Omne maestro de qualunche arte mechanica sia tenuto a pagare per industria personale tari tria, in vece de duy;
· Omne citadino chi usarà la mercantia (eserciterà il commercio) sia tenuto pagare per omne uncia chi compararà, grane diece anzi che octo;
· Per omne rotulo di carne chi se vendesse alla beccaria (macelleria), tornesi tria anzi che duy»;
e contro la calmierazione al ribasso dei salari aggravata dalla seguente tassativa postilla:
«Et questo prezo niuno ausa cresciere (osi aumentare), ma più tosto mancare (abbassare). Et chi nde farà lo contrario, per omne volta cascare (incorrerà) a la pena de tari duy: tanto quello chi pagasse dicti denari ultra le grane dicte de sopra, quanto quello che li pigliasse».
Ne erano seguiti tafferugli e promesse di ritirare il provvedimento che al tempo delle incursioni dei Giganti non era ancora stato ritirato. Tumulti dello stesso tenore e con i medesimi obiettivi erano scoppiati anche in altre città dove erano stati saccheggiati e in qualche caso anche dati alle fiamme i magazzini di raccolta delle derrate agricole versate all’erario e le cancellerie delle Capitanie o delle Corti baiulari. Non c’era continuità nella protesta; erano, questi sì, fuochi di paglia che divampavano e si esaurivano in breve tempo lasciandosi dietro mucchi di volatile cenere dispersa in breve tempo dal vento.
Fuor di metafora, si vuol dire che, superato il primo momento di smarrimento ed esaurita la carica simbolica della protesta, l’autorità aveva buon gioco a riprendere il controllo della situazione. Era sufficiente applicare la vecchia e sempre efficace metafora della carota e del bastone che prevedeva l’immediato impiego del bastone azionato dagli organi della giustizia penale con la comminazione di pene detentive e pecuniarie, a fronte di promesse esplicitate con larghezza di aperture e sempre rinviate.
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