martedì 17 gennaio 2023

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

 Capitolo nono

Il potere di Teo Patruno è insidiato dalle rivendicazioni dei discendenti di Celius. Si narrano, quindi, le tragiche vicende familiari che avevano insediato il padre di Teo a Leuternia e le premesse del conflitto tra questi e i fratelli Porfirio e Alcino, ultimogeniti di Celius e Gaia. 

Quannu Gaia, dopo ca Celius ia spicciatu de ‘ncavarcare mujerisa e s’era giratu cu dorme, li fice nnu segnu, Stefanu cu lu falcettu alla manu ssiu de reta a nna porta, se ‘vvintau su sirisa e cu nnu corpu de taju lu castrau.

 Alla guida di Leuternia ascese Teo, ma le speranze di una svolta furono deluse. L’ordine cosmico non era stato ripristinato: se era stata appianata un’incrinatura, ne restavano altre per conflitti mai risolti, che emersero di lì a poco portandosi dietro una lunga, tragica scia di altri eventi luttuosi. Non c’era pace a Leuternia.

Non ci poteva essere pace per il popolo di Leuternia fino a quando a governarlo fosse stata la stirpe dei Patruno, stirpe due volte maledetta, segnata da un peccato originale che ne aveva tracciato il destino. Nessun battesimo purificatore lo avrebbe mai rimesso, perché non ci può essere remissione per crimini efferati come quelli reiterati dai successivi sovrani della contea. Solo l’espiazione e le catene della giustizia, imposte da chiunque fosse stato in grado di imporle con successo, potevano ridarle la pace, ma prima sarebbe stato necessario passare attraverso lo stretto budello del coraggio e dell’ardimento perché numerosi erano gli ostacoli disseminati sulla strada del riscatto e della pacificazione. Quando la notizia dell’insediamento di Teo alla guida della contea di Leuternia giunse alle orecchie di Gaia, vedova di Celius, si aprì un nuovo capitolo della saga dei Patruno che ci riporta indietro, al periodo del regno di Celius. L’unione di Celius e Gaia era stata afflitta da una grave sventura: la prole della disgraziata coppia presentava difetti fisici ed estetici la cui vista indisponeva il padre e lo spingeva ad assumere atteggiamenti sconvenienti e decisioni drastiche.  La viveva come un’offesa personale, una diminutio intollerabile che lo avrebbe screditato agli occhi del mondo e avrebbe compromesso le sue ambizioni di successione nel principato di Taranto alla morte del suocero, e perché no, più oltre, senza porsi limiti. L’avversa sorte lo stava mettendo alla prova e lui, il guerriero il cui valore aveva impressionato il suo re, doveva dimostrarsi all’altezza del ruolo anche nelle più tristi e impreviste temperie. Al tempo della nascita del primogenito si era limitato a inveire contro la consorte, ai cui presunti peccati o ai tradimenti ne imputava la responsabilità. Gaia, indignata per l’arroganza del marito, lo aveva richiamato a più miti consigli, ricordandogli i propri ascendenti a confronto dei suoi: «È un’accusa che potrebbe costarti ben cara», aveva concluso altera e Celius, consapevole del significato della minaccia, aveva dovuto ritrattarne le accuse. I figli ripudiati dal padre furono allontanati dalla famiglia, affidati a servi residenti in feudi lontani e abbandonati al loro destino. Dalla coppia nacquero anche figli normali per i quali la madre pretese che crescessero presso la sua famiglia d’origine perché diffidava della lealtà del coniuge e per sottrarli alla sua influenza perniciosa. Gaia non aveva perdonato al coniuge le tremende accuse a lei indirizzate; il dolore aveva stillato nel suo animo gocce velenose di risentimento sul quale si erano alimentati imperativi propositi di vendetta, attuati con ferma determinazione. Quando i figli non ripudiati raggiunsero l’età adulta, la madre li mise al corrente del disumano comportamento del padre e chiese loro di vendicare gli sfortunati fratelli. Fra tutti i presenti solo uno, l’ultimogenito di nome Stefano, promise la sua collaborazione e attuò il piano accuratamente predisposto dalla madre. La punizione di Celius fu eseguita in una notte in cui Gaia e Celius giacevano nel letto nuziale impegnati in un convegno amoroso. Informato per tempo dalla madre, Stefano si era nascosto nella stanza armato di un falcetto ed aveva attesa che l’atto si consumasse. Ad un cenno di Gaia, quando Celius, soddisfatto, si era staccato dall’amante e si riposava dalle fatiche dell’amplesso, Stefano uscì dal nascondiglio e con un balzo, il falcetto ben saldo nel pugno, aggredì il rilassato padre e con un colpo mirato alle sue coglie lo evirò. Grandi furono il dolore e lo stupore di Celius che sorpreso scappò in preda a una folle paura. Da quella notte non si ebbero più notizie di lui, non si sa se sia sopravvissuto o ne sia morto, sparì nel buio e nelle nebbie dell’incertezza fu dimenticato senza rimpianti. La vendetta aveva fatto il suo corso: per la legge del contrappasso gli era stata inflitta una pena conseguente alla colpa, colpendolo nella capacità di procreare perché contro i suoi stessi discendenti, disconoscendoli, egli aveva tramato. Tuttavia, la discendenza di Celius aumentò di altri due figli, poiché in quell’ultima notte di convegni matrimoniali, Gaia era rimasta incinta e dopo nove mesi partorì due gemelli di dimensioni superiori alla norma. L’anomalia forse non ne avrebbe determinato il disconoscimento paterno, crescendo alti e forti forse sarebbero stati buoni soldati e ciò avrebbe potuto soddisfare il genitore… forse, però non è dato saperlo. Certo è che Alcino e Porfirio, così furono chiamati i neonati, raggiunsero una statura eccezionale, tanto da essere soprannominati “Giganti”, epiteto con il quale furono ricordati nel tempo. Stefano sostituì l’improvvido padre alla guida della contea. Non era un risultato scontato: il fatto di essere il figlio minore lo escludeva dalla successione, ma egli, protetto dalla madre, riuscì a prevalere su gli altri pretendenti ai quali, in cambio della rinuncia alla successione, furono concessi benefici economici e territoriali, oltre al perdono materno. La conquista del potere da parte di Teo non fu semplice. Egli era sostenuto dal principe di Taranto e avversato da Gaia e dai suoi figli. Ci furono tentativi di resistenza armata da parte di questi, asserragliati nei confini dei loro domini terrieri; abboccamenti di riconciliazione tra Gaia e la nuora Livia senza raggiungere alcun risultato. Le possibilità di riconciliazione erano, d’altronde, decisamente ridotte perché le crudeltà reiterate nel tempo non si annullano, si sommano, pesano come macigni sulle coscienze. Per liberarsi dell’insopportabile peso ci sarebbe stato bisogno di atti gratuiti di bontà e di rinuncia che la tremenda stirpe dei Patruno non conosceva e che, generazione dopo generazione, coltivando sentimenti di vendetta, sommando crudeltà a crudeltà, rancore a rancore, ad ogni svolta del ciclo della vita richiedevano un lavacro delle vittime nel sangue dei carnefici. Era inevitabile che il nuovo conte si liberasse della presenza dei suoi oppositori, e così fece, decretando l’esilio di tutti i figli di Gaia e della stessa matriarca. E fu a causa di questa tragica sequenza di eventi lunga tre generazioni che ebbe inizio la guerra dei Giganti contro il potere di Teo Patruno, guerra che nella credenza popolare diede origine al fenomeno sulfureo della grotta Ferrata.

 L’esilio e il passare degli anni non avevano sopito il rancore di Gaia per il trattamento subito, lo trasmise ai suoi figli superstiti e in particolare ai gemelli che approfittarono della prima occasione per rivendicare i presunti diritti usurpati da Teo. Porfirio e Alcino fin da giovani erano stati addestrati nelle arti militari e, date le loro imponenti figure che per dimensioni e bruttezza incutevano sacro timore soltanto alla vista, erano stati promossi dal fratello Stefano al ruolo di personali guardie del corpo. Il loro destino era cambiato con l’ascesa al potere di Teo, che essi non riuscirono a contrastare. Vissero una vita da esuli, andarono raminghi di corte in corte alla ricerca di una ragione di vita e di un’occasione per riconquistare i privilegi perduti. La madre Gaia, riparata nella contea di Lecce, protetta dal signore del luogo che coltivava mire espansionistiche a danno della tormentata e instabile Leuternia, raggiunta oramai un’età veneranda, nel corso dell’ultimo incontro con i fedeli gemelli, aveva loro imposto un solenne giuramento. Ad ogni incontro non aveva mai mancato di ricordare loro l’affronto subito da parte di Teo, ma quell’ultima volta dopo averli abbracciati e scambiato i soliti convenevoli, dopo averli lodati e rifocillati, dopo averne ascoltato il racconto delle ultime avventure e messo loro a parte delle notizie che arrivavano dalla terra del loro comune desiderio, li vincolò a un solenne giuramento di vendetta.«Miei cari figlioli, voi siete la mia ultima speranza, nessun altro dei vostri fratelli è in grado di agire, ed io mi affido a voi soli per vendicare l’offesa che Teo ci ha arrecato». «Abbiamo aspettato per anni una vostra chiamata, madre, che ci indicasse il momento propizio della vendetta…», disse Porfirio con rispetto e il sincero desiderio di compiacere la madre. E Alcino, desideroso anche lui di rassicurarla sulla loro lealtà, aggiunse: «È stato il pensiero che ha accompagnato ogni nostra giornata, madre; la nostra collera sarà placata solo dal sangue di Teo». «Per me, figli cari, è vicino il momento dell’ultimo viaggio. Per partire serena ho bisogno del vostro impegno solenne, solo questo mi può dare la pace che cerco». Le parole appena pronunciate l’avevano affaticata, o forse erano state le immagini rievocate, la sua vita passata in un breve momento davanti ai suoi occhi, come fosse in punto di morte, a farla vacillare. Rimase in silenzio con gli occhi socchiusi, cercando la forza per riprendere il filo del discorso. Ai gemelli sembrò un tempo infinito che non osarono interrompere. Quando Gaia si riebbe, indicò con la mano un libro posato su una mensola in fondo alla stanza e avutolo dalle mani di Alcino, pronunciò queste solenni parole: «Giurate su questo sacro libro che i vostri pugnali si macchieranno del sangue di Teo Patruno e che egli pagherà la sua colpa con la vita». «Lo giuriamo», confermarono con un’unica voce i Giganti, imponendo le mani sul libro. Dopo il giuramento Porfirio aggiunse: «Porteremo a compimento l’impegno anche a costo della nostra stessa vita», impegno immediatamente confermato da Alcino sul loro onore di soldati e per la devozione dovuta alla donna che li aveva messi al mondo. Anche se la Bibbia su cui giurarono non era il testo più indicato per una promessa di quella fatta, il delicato e compromettente risvolto religioso non li sfiorò. Il loro era un gesto blasfemo, un peccato mortale che sarebbe ricaduto sulle loro teste e sulla testa della madre che li aveva chiamati a consumare l’orribile sacrilegio; una dichiarazione inutile, in definitiva, che non avrebbe trovato attenzione nelle alte sfere celesti, che sarebbe stata maledetta dagli uomini e da Dio. Le ultime notizie arrivate da Leuternia, dove le disastrate condizioni economiche e il conseguente malcontento popolare preparavano tempi difficili per il conte, rappresentavano per Gaia e i Giganti l’occasione attesa tanto a lungo. «È giunto il momento di agire. La situazione è propizia perché avrete involontario alleato il volgo che si ribella al potere di Teo», suggerì Gaia dimostrando un acume strategico non comune, certamente più spiccato dei suoi figli che quanto ad acume, strategico o di altro tipo, certo non brillavano. «Come possiamo allearci con il volgo?», disse Alcino, avvalorando la tesi dianzi espressa. Come tutta la stirpe dei Patruno, i gemelli e la loro madre non avevano in alcuna considerazione il popolo sul quale volevano regnare. Per loro l’idea di popolo suscitava sentimenti di dominio e di asservimento, incarnava entità subumane i cui ruoli codificati e statici e le cui attività erano finalizzati alla realizzazione degli interessi e del benessere del ristretto ceto dei governanti e della famiglia sovrana in particolare. Com’era possibile ipotizzare alleanze che presuppongono relazioni tra pari? Ci pensò l’anziana ed esausta madre a indirizzarli: «Non c’è bisogno di stipulare alleanze formali ecc.»; e a istruirli su come impostare e condurre i rapporti con Teo: «Iniziamo a proporre a lui un aiuto per tenere a bada il popolo ecc.».

 Per avviare il discorso con Teo gli fu inviata un’ambasceria per offrirgli, su espresso e disinteressato suggerimento della loro veneranda madre e capostipite della dinastia, dettato dal dolore di sapere la loro contea nelle deprecabili condizioni in cui attualmente versava, la disponibilità del forte e leale braccio dei suoi figli onde evitare che la contea sprofondasse nella più nera anarchia mettendo a repentaglio il potere della stirpe dei Patruno. Quando al castello di Leuternia fu inviato un messo per chiedere udienza, Teo, informato da un servo, scoppiò in una risata sarcastica e con supponenza rispose: «Riferite al messo che gli impegni del signor conte e dei suoi consiglieri non consentono, al momento, di fissare l’accoglienza degli ambasciatori in tempi brevi; ne sarà disposta la convocazione nei tempi dettati dalle esigenze di governo della contea». L’ambasceria fu ricevuta da Cocidio, il figlio primogenito di Teo, il quale ne ascoltò le proposte con sussiego e distratta attenzione, s’informò sulle imprese dei fratelli Giganti e sulla salute della loro anziana madre, quindi li licenziò senza alcuna risposta, rinviandoli a una successiva convocazione. Il sussiego ostentato da Cocidio si trasformò in preoccupazione quando le proposte dei Giganti furono analizzate e discusse dal conte alla presenza dei figli. «Le mire dei gemelli sono chiare. Ci propongono un aiuto disinteressato in nome delle comuni ascendenze per poi rivendicare diritti e minacciare il nostro potere», disse Teo dopo aver ascoltato il resoconto di Cocidio. «Sono uomini d’arme, rozzi e incapaci di elaborare progetti ambiziosi e sofisticati», aggiunse, scettico, Cocidio. «Dimentichi che dietro c’è la mente femminile e acuta di Gaia che è ancora in attesa di un risarcimento, nonostante abbia già ambedue i piedi nella fossa», precisò Sofia, la saggia e previdente figlia. «Qual è la risposta migliore da dare?», chiese il padre. Cocidio: «Un drappello di uomini forti e rotti alla guerra sarebbe di grande aiuto…». Sofia: «Meglio assoldare una compagnia di ventura…». Teo: «Forse l’offerta di aiuto nasconde sofisticherie più ambiziose di quelle di Gaia». Sofia: «Se alludi al conte di Lecce puoi aver colto nel segno». Cocidio: «Le sue mire sui nostri feudi confinanti coi suoi potrebbero essere un motivo plausibile». Teo: «Quindi ci conviene declinare l’offerta!». Sofia: «Evitando risposte arroganti…». Cocidio: «…E riferimenti, palesi o velati, alle loro pretese o alle mire del conte di Lecce».Teo, concludendo: «Incarichiamo Sofia di illustrare la nostra risposta». Cocidio: «Può sembrare uno sgarbo». Teo: «Lo è, vogliamo che sia. La loro impudenza va oltre i confini del lecito e la nostra risposta deve fargli comprendere che non abbiamo paura delle loro ingerenze». Sofia: «Ci tengo! Sarà una bella esperienza vedere l’imbarazzo degli ambasciatori e immaginare la furia impotente dei Giganti».

Sofia, convocati gli ambasciatori, li accolse con tutti gli onori nel salone delle udienze dove, sfarzosamente vestita, seduta simbolicamente sullo scranno più alto al posto del conte, esordì richiamando il proprio ruolo di portavoce: «Il conte mio padre mi ha incaricata di comunicarvi le sue decisioni», disse, quindi fece una pausa per studiarne le reazioni. Un cenno di consenso e un inchino di cortesia da parte degli ospiti, che esprimevano assorta attenzione e nessun’altra palese reazione, invitò Sofia a continuare con il breve e scarno discorso, seppure infiorettato qui e là da formule cortesi e apparentemente amichevoli, concordato con il padre e il fratello: «La situazione a Leuternia – disse – non presenta livelli ingestibili di malcontento. Il popolo soffre per la situazione che colpisce l’intero regno e non solo la nostra contea. Siamo in grado di gestire l’emergenza con i nostri mezzi, senza bisogno di ricorrere a misure straordinarie o a interventi esterni. Ringraziamo i nostri lontani parenti per la premura e l’interesse, li rassicuriamo e saremo fraternamente disposti ad avvalerci dei loro servizi se in futuro dovessero presentarsi situazioni di pericolo al momento inimmaginabili. Vi preghiamo, gentili signori, di porgere il nostro saluto alla nobile Gaia e ai suoi invincibili figli e di consegnare loro questo omaggio come tangibile riconoscimento della nostra amicizia». L’omaggio, in realtà una restituzione, era l’anello che il conte Stefano portava al dito al momento della sua uscita di scena, quando perse il senno e la memoria ingerendo la pozione preparata da Morgana, anche lei, involontario alfiere della nemesi, discendente di Celius e Gaia.Quando i Giganti ricevettero il regalo e ne informarono la madre, il gesto di Teo fu considerato una sfida e una provocazione e fornì il casus belli che avviò la guerra dei Giganti per la riconquista dei diritti dinastici usurpati. Nel gesto del conte, in realtà, non c’era alcuna intenzione recondita; lo riteneva un atto di disponibilità e di riconciliazione, né avrebbe mai supposto che ne sarebbe stato travisato il significato.

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