martedì 10 gennaio 2023

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

Capitolo ottavo

L’ascesa al potere di Teo Patruno che sostituisce il padre Stefano macchiatosi di orrendi delitti nei confronti della sua stessa famiglia. Le circostanze, le ragioni e le conseguenze di tale atto. L’uscita di scena del conte Stefano.

 La prima prova nota della sua risolutezza, mista a un’elevata dose di crudele cinismo, Teo Patruno la diede in giovane età. In realtà, l’orribile delitto di cui si macchiò dipendeva da una sorta di tara ereditaria, una maledizione rinnovata di generazione in generazione, a partire dal capostipite della dinastia, il Celius Pateron incontrato nel capitolo di apertura di questo libro secondo.

Della sua colpa scriverò appresso, adesso è tempo di dire del delitto di Teo e di quello antecedente di suo padre Stefano che, se in parte lo spiega, pure ne evidenzia la predisposizione e ne svela l’animo arido, alimentato da sentimenti di rivalsa e di vendetta perseguiti con inflessibile tenacia.

Stefano Patruno aveva più d’un delitto sulla nera coscienza, ma per ora dirò solo di quello che eccitò la vendetta del figlio.

Dopo la sua ascesa alla carica comitale, Stefano, uomo superstizioso e diffidente, si recò da un noto veggente, un vecchio in odore di santità che viveva come un eremita in una grotta ai confini della contea. Al vecchio non si presentò nei suoi panni nobiliari, tenne celato il suo nome con l’intenzione di metterne alla prova la capacità chiromantica. Arrivato alla grotta trovò il vecchio seduto sulla nuda terra in atteggiamento contemplativo. Lo salutò con queste parole:

«Vengo da molto lontano, buon vecchio, per conoscere il mio destino, se la tua santità o la tua scienza sono in grado di illuminare il futuro così come la tua fama promette».

Il vecchio non rispose subito, lo guardò con gli occhi cisposi, strizzandoli come quando si vuol contrastare la violenza della luce solare, e dopo un lungo silenzio che scaricò sulla mente del giovane conte una grave tensione, parlò lentamente, la voce flebile come un sussurro:

«Non conosco il vostro nome, signore, però vedo che voi siete un uomo potente da cui dipende il governo di un grande paese e la vita di molte persone».

Il conte fu scosso da quelle parole, la tensione si sciolse per lasciar spazio a favorevoli predizioni di un futuro glorioso.

Il vecchio, dopo aver pronunciato la frase del riconoscimento, rimase in silenzio, sembrava in ascolto, aveva chiuso gli occhi, concentrato su qualcosa che pareva turbarlo, il volto contratto da una smorfia di sofferenza.

Dopo il lungo intervallo silenzioso riprese a parlare:

«Nel vostro futuro vedo cose che sarebbe meglio tacere, ed io, se ciò vi aggrada, vi lascerò nell’incertezza con cui siete arrivato fin qui, a vivere la vostra vita come fa ogni uomo fin dai tempi più antichi, guidato dai sacri principi della religione e dal consapevole e responsabile uso del libero arbitrio che il Signore Dio dell’universo ci concede nella sua infinita bontà».

A Stefano non interessava l’infinita bontà del Signore, credeva ciecamente nelle ragioni della forza e ignorava i principi della responsabilità e della moderazione richiamati dal vecchio eremita. A lui interessava il potere, per la cui affermazione era disposto a passare su qualunque principio.

La risposta alla ragionevole proposta dell’eremita non fu dubbiosa, esplose sulle labbra del conte come un colpo di schioppo.

«Parla – disse il conte – non ho paura di affrontare il destino, qualunque esso sia».

Il vecchio continuò con un’evidente riluttanza:

«Il potere a cui tanto tenete e che esercitate su molte genti, vi sarà strappato di mano con la violenza e l’inganno. Ma questa è la sorte di molti potenti e voi di certo ne siete cosciente. Il vostro destino ripercorrerà la medesima strada e sullo scranno che ora occupate siederà vostro figlio la cui mano si alzerà su di voi per cacciarvi».

Ciò detto tacque e nessuna ulteriore richiesta di maggiori dettagli riuscì a romperne il silenzio assorto in meditazioni profonde che sembravano distaccarlo dal presente, proiettandolo in una dimensione ultramondana.

 L’esistenza di Stefano fu condizionata, come ben aveva supposto il vecchio indovino restio a divinarne il destino, dalla cruenta predizione. Meditò a lungo sul senso vero delle parole del vecchio: “Voleva egli – pensò – riferirsi al famoso detto: chi di spada ferisce, di spada perisce?”

E se così fosse, come avrebbe dovuto agire per sottrarsi all’infame destino?

Nella sua ignoranza di rozzo e arrogante rampollo di una famiglia di rozzi e arroganti soldati, Stefano conosceva il proverbio, ma gli sfuggiva il senso profondo perché riteneva che il destino può essere piegato ai propri voleri se si ha l’audacia e l’ardire necessari, se si è forti abbastanza da affrontare con decisione le avversità che si frappongono tra te e gli obiettivi che vuoi perseguire, se davvero vuoi raggiungerli e sei disposto a pagarne il prezzo, qualunque esso sia. Non ne conosceva il significato recondito, non immaginava che quando si oltrepassa la giusta misura, il senso del limite, si provocano reazioni alle quali è difficile sottrarsi: la Nemesis, che gli antichi veneravano come la dea compensatrice e riparatrice dei torti causati, per assicurare l’armonia dell’universo.

Non trovò vie d’uscita o spiegazioni plausibili e confinato in questo stato d’incertezza s’incupiva, si chiudeva in sé stesso, diventava irascibile più di quanto non fosse già prima, meditava soluzioni e strategie senza approdare a nulla di definitivo. L’unica soluzione possibile e davvero risolutiva appariva enorme, ripugnante anche alla sua coscienza opaca e già segnata da ferite insanabili.

Tergiversò, e mentre si consumava nell’incertezza e nel dubbio il problema incominciava a presentarsi nell’evidenza corporea di un figlio. A quel punto prese la decisione che aveva osato pensare e che aveva accantonato con un moto di ripulsa e di disagio.

Li superò e nella casa del conte ci fu una moria di bambini quale non si era mai conosciuta.

Nella nostra epoca ne muoiono tanti di infanti, in tutte le famiglie e a tutte le età; è un dato di fatto accettato con rassegnazione e fatalismo, come un segno del destino e della volontà dell’Altissimo, mentre il caso dei figli del conte andava oltre ogni possibile atteggiamento di accettazione o di fatalistica rassegnazione.

Livia Codispota, la moglie di Stefano, restava incinta ogni anno, portava senza problemi a compimento le gravidanze e dava alla luce infanti all’apparenza sani e forti, eppure, presto o tardi, tutti incappavano nel medesimo, amaro destino.

Tra la coppia comitale, l’accettazione e la rassegnazione lasciarono ben presto il posto alle recriminazioni e ai dissidi.

Ad avviare il balletto delle responsabilità fu il marito. Con astio e violenza crescenti, Stefano, di fronte a ogni nuovo prematuro decesso, iniziò ad aggredire la consorte con frasi irriguardose che ne svilivano il suo essere donna.

«Sei una femmina malata, il tuo corpo avvelena i bambini e li porta alla morte», le diceva, disprezzandola.

Lei ne soffriva due volte, per la perdita degli eredi tanto attesi e curati finché erano in vita e per l’incomprensibile disprezzo del marito.

Livia, però, non era convinta che la morte dei suoi poveri figli fosse dovuta a una sua disfunzione o a una maledizione che la perseguitava. Se una maledizione era responsabile di quegli esiti infausti, non poteva essere causata da qualche sua colpa. Quali colpe poteva avere una ragazza allevata in una famiglia timorosa di Dio? Quali colpe poteva avere una ragazza educata nel seno della religione, sensibile e consapevole del proprio ruolo nella società e nella famiglia?

Se una maledizione perseguitava la sua famiglia ella l’attribuiva a qualche imperdonabile colpa del marito o dei suoi genitori o dei suoi avi.

Di questi suoi dubbi non fece parola con il consorte, però volle metterlo alla prova e cominciò a controllarne il comportamento e i movimenti. Nacquero altri figli e morirono come i precedenti. Ella, guardinga, notò il disagio e il nervosismo del conte dopo la nascita degli infanti, ne seguì l’evoluzione nel corso del tempo fino a quando la morte non si presentava a ghermire la vita dei poveri innocenti. A quel punto ella ne notava un cambiamento quasi repentino d’umore. Stefano diventava loquace e sotto le mentite spoglie del padre addolorato, nonostante le accuse alla moglie sempre più pesanti e disgustose, sembrava rasserenarsi.

Il dubbio nella mente di Livia si era ormai trasformato in certezza, alla settima gravidanza, erano passati circa dieci anni dalla prima, decise di tenerla nascosta al marito e di chiedergli il permesso di recarsi presso i suoi genitori nel lontano feudo calabrese per assistere la madre malata.

Livia partì. Al riparo nel castello del padre, lontana da occhi indiscreti, protetta dall’affetto della sua balia e della famiglia, celando al mondo la sua gravidanza, diede alla luce un maschietto al quale fu imposto il nome di Teo. Anche la nascita fu tenuta nascosta, al riparo dalle attenzioni del padre. Fu affidato alla famiglia della balia di Livia ove visse fino al compimento del quattordicesimo anno.

Teo, nascosto agli occhi del mondo, era cresciuto in un ambiente appartato, protetto, dove il suo status, a lui ignoto ma ben noto ai suoi affidatari, gli aveva garantito una posizione privilegiata e favorito la formazione di un carattere superbo, iracondo, caparbio ed esigente, lievitato su una base naturale ereditata dalle ascendenze paterne che, quanto a difetti caratteriali, ne era già ben dotata. A partire dall’età di quattordici anni, la madre lo affidò alle cure del fratello per istruirlo nell’arte militare e prepararlo al compito che nel suo intimo gli aveva assegnato.

Quando Livia ritenne che fosse giunto il momento e il ragazzo era diventato un baldo giovane, forte fisicamente, coraggioso e deciso, gli fece affidare dal fratello un incarico presso la corte di Leuternia dove in pochi mesi, grazie al suo portamento e alla sfrontatezza dei vent’anni, riuscì a conquistare l’amicizia e la simpatia di molti cortigiani e perfino del conte suo padre che aveva preso a trattarlo come un figlio e forse faceva progetti su di lui.

“Non ho eredi legittimi – pensava – e alla mia età s’impongono riflessioni serie sulla successione. Meglio questo baldo giovane raccomandatomi dal fratello di mia moglie, che lasciare lo scettro nelle mani di Alcino Giganti o di qualche altro odioso parente”.

Fu a quel punto che Livia svelò al figlio Teo la sua vera identità e lo convinse ad agire per rivendicare i suoi diritti di erede legittimo e così vendicare i suoi poveri fratelli e risarcire la madre di tutti i patimenti subiti in tanti anni di vita al fianco del marito infanticida.

Così avvenne. 

 La rimozione del conte Stefano non fu un evento cruento; ufficialmente fu ritenuto un evento naturale, e tale poteva sembrare agli occhi del mondo, ma essendoci nel mondo anche individui che guardano oltre le apparenze e a torto o a ragione ipotizzano scenari diversi da quelli apparenti, il racconto ufficiale dell’uscita di scena di Stefano Patruno fu revocato in dubbio e, a ragione di tale dubbio, non mancarono ulteriori strascichi e complicazioni.

Ma andiamo con ordine.

Il giovane e brillante Teo, benvoluto da tutti alla corte di Leuternia, aveva stretto una sincera ma non disinteressata amicizia con una nipote del conte di nome Morgana, profonda conoscitrice dei segreti delle erbe e per questo considerata da molti una fattucchiera. Alle sue arti era ricorsa Livia dopo la nascita di Teo per liberarsi da ulteriori gravidanze indesiderate, alle sue arti ricorse Teo per liberarsi del padre. Era stata Livia, la madre, a consigliargli di coltivare quell’amicizia e di avvalersi delle sue conoscenze per averne un rimedio in grado di raggiungere il suo scopo. Teo si mostrò interessato a Morgana e ne conquistò la fiducia, tanto da convincerla a iniziarlo ai segreti dell’arte e ad avviare con essa una relazione amorosa, nonostante ne fosse alquanto più giovane.

Confidando sulla discrezione dell’amante ed anche su un sentimento di rivalsa nei confronti del conte, fratello minore di suo padre al quale era stata usurpata la successione, Teo rivelò la sua identità e il suo piano ottenendone la collaborazione e il silenzio.

Si dedicò, quindi, all’organizzazione della trappola nella quale il conte sarebbe stato irretito.

L’occasione fu una battuta di caccia degnamente conclusa da una ricchissima cena in una residenza di campagna. Padre e figlio si erano sfidati con accanimento, sul filo di lana aveva prevalso il conte, forse intenzionalmente favorito dal giovane (così poi la raccontò Teo), e per tale ragione euforico e ben disposto nel corso della serata. La cena si svolse in piena allegria, allietata da musica e canti, vivacizzata dai brindisi augurali e dal buon vino locale che non tradisce mai. Ad un certo punto della serata, verso la fine, il conte incominciò ad accusare un fastidio, dapprima latente, poi più penoso:

«Non sto molto bene, ho come una nausea e una pesantezza che mi grava sullo stomaco e mi causa giramenti di testa», confidò a Teo che gli sedeva d’accanto.

Il vino corretto con una piccola dose di “cappuccio di monaco” aveva cominciato ad agire.

«Vi conviene ritirarvi in camera. Vi farò portare una pozione digestiva per liberarvi dall’incomodo», lo tranquillizzò Teo.

I due si alzarono dalla tavola e il conte, visibilmente provato, rivolto ai commensali, li salutò con queste parole che potrebbero suonare profetiche:

«Amici, vi prego di restare. Devo ritirarmi per un momentaneo malessere forse dovuto alle fatiche della giornata e anche di questa impegnativa serata. Spero di ritrovarvi domattina in buona salute e in buona forma».

L’indomani mattina Stefano non raggiunse gli amici.

Dell’accaduto li informò Teo, a sua volta messo al corrente, se ce fosse stato bisogno, dal gentiluomo di camera.

«Signori, con profonda afflizione mi accingo a darvi una notizia inattesa e dolorosa. Me ne sento un po’ responsabile per aver proposto al conte l’impegnativa battuta di caccia che ci ha impegnato ieri: il suo fisico non ha retto lo sforzo e ora giace incosciente nel suo letto. Ho provveduto a convocare i migliori medici della contea che lo assisteranno insieme al medico di corte che arriverà in mattinata. A noi, sorpresi da tanta evenienza non resta che pregare per la pronta guarigione dell’infermo».

Così parlò Teo di fronte ai presenti raccolti in un profondo silenzio, poi ognuno ritornò alla sua dimora e alle sue occupazioni e il conte fu abbandonato nelle mani della servitù e del cappellano di corte, anche lui prontamente accorso sul posto per accompagnarlo con le sue preghiere verso la guarigione.

Invece lo assistette nell’incoscienza da cui non si riprese, che lo tenne prigioniero, dimenticato dai più, fino all’eterno oblio che lo rapì nel volgere non breve di molte stagioni.

La sua dimora divenne la villa nella quale si era consumata la vendetta di Livia, per mano del figlio, come aveva vaticinato il vecchio eremita.

La nemesi si era compiuta, l’eterno equilibrio del cosmo, incrinato dall’inane presunzione di Stefano Patruno, sembrava ripristinato e forse c’erano le premesse per dare una svolta alla guida di quella tormentata contea.


 

Nessun commento:

Posta un commento