La condizione economico-sociale di Leuternia è alquanto precaria a causa delle guerre,
della recente pestilenza e, non ultime, dell’incuria e dell’avidità
del conte che angaria il suo popolo con ogni sorta di balzelli e di vessazioni. A causa delle difficili condizioni
economiche e della brutalità del conte, in Leuternia
è cresciuto un movimento clandestino che tenta di contrastare le angherie del
sovrano e sfocia in aperta rivolta.
Quanto
ho raccontato nel primo libro di questa Cronica, rappresenta l’epilogo doloroso
di una tragedia che
aveva sconvolto la vita della mia famiglia e di molte altre famiglie di
Leuternia. Non solo: aveva soffocato un promettente movimento economico,
sociale e culturale che avrebbe potuto favorire l’ammodernamento dell’economia per superare le strozzature della
frantumazione del territorio in una pletora di piccoli feudi autonomi e di
fatto indipendenti che ne impedivano il decollo e lo condannavano
all’immobilità.
Sarebbe
interessante approfondire il fondamento delle aspettative così formulate da
molti personaggi con i quali ho avuto modo di parlare nel corso delle ricerche
per ricostruire gli eventi, se ne potrebbero avere importanti sviluppi se ad
affrontare il delicato tema fosse uno storico di professione o anche per
vocazione. Purtroppo non sono né l’uno né l’altro, sono un semplice testimone e
torno al tema della mia fatica finalizzata a ricostruire una vicenda nella
quale era implicato il mio veneratissimo genitore, per dargli il giusto
riconoscimento, perché lui di questa vicenda e di quel movimento è stato uno
dei principali protagonisti.
Per
trovare il punto d’inizio e il bandolo dell’intricata matassa responsabile di
quell’epilogo, bisogna fare qualche passo indietro e partire da ciò che era
Leuternia in quel tempo ed anche per collocarla nello spazio onde dare agio a
chi non la conosca di averne un’idea generale.
Leuternia, il cui centro è collocato all’incrocio
dei 40,04° di latitudine nord con i 18,27° di longitudine est, è una contea
tributaria del principato di Taranto che si estende nell’estrema propaggine
della penisola salentina tra mar Jonio e mare Adriatico, i cui confini sono
delimitati: a nord dalla linea che attraversa il territorio peninsulare da Kallipolis,
passando per Malliae, fino a Hudrentu; a sud dal tratto di costa che dal capo
Japigio, spartiacque tra i due mari, risale a ovest, bassa e sabbiosa; a est per
il tratto roccioso e impervio, costellato di grotte e insenature, che il
fuggiasco Enea costeggiò “fino ai due scogli, che con due braccia il mar dentro
accogliendo, lo fa porto e l'asconde; e sovra al porto lunge dal lito è il
tempio di Minerva”, ove sbarcato venerò la dea.
È una terra faticosa, la nostra: bella e prospera
quando la si doma e la fatica la sottrae all’incuria; aspra, selvaggia e
inferma quando negligenza e abbandono la cedono al dominio degli eventi.
Soggetta a questa altalena, spinta in continuazione da circostanze contrastanti
che ora la sollevano ora la deprimono, nell’epoca in cui si svolgono gli eventi
narrati la contea viveva una fase di arretramento e d’involuzione. Numerose ne
erano le cause, concomitanti e devastanti, che congiuravano a irretirne lo
slancio. Ne ricordo brevemente tre, tra le più disastrose, che interessano l’intero
principato: le ricorrenti pestilenze responsabili del grave decremento
demografico e della conseguente desertificazione di numerose contrade per
l’abbandono dei casali spopolati e delle terre ad essi prossime;
le incursioni dei pirati saraceni lungo le coste, che
depredavano casali e città razziando derrate, animali e abitanti venduti come
schiavi nei mercati del nord Africa; i conflitti che opponevano i feudatari al
potere centrale e le numerose guerre per la successione nel regno e nell’impero
che minavano la stabilità dei feudi e ne sottraevano importanti risorse.
A sopportarne le implicazioni più gravose furono
soprattutto i paesi costieri, le terre situate in prossimità delle coste basse,
sottratte dalle precedenti bonifiche al dominio degli acquitrini e le zone di padula dell’interno. Conseguenza dell’abbandono ne
fu il lento inselvatichimento, a cui fece seguito la riduzione della produzione
e della ricchezza collettiva con inevitabili ripercussioni su tutte le attività
economiche: dall’artigianato alla pastorizia, dal commercio terrestre e
marittimo alle attività finanziarie.
Alle cause di ordine generale ne va aggiunta una di
carattere strettamente locale, che chiama in causa il reggimento della contea e
l’inetta amministrazione dei conti Patruno per nulla lungimiranti né interessati
al miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei loro tenimenti e
della popolazione, interessati soltanto alla riscossione delle rendite e dei
tributi, e tanto più gravosi quanto minori erano le disponibilità delle
famiglie e delle Universitas a causa della crisi. Ricchezze sperperate
nel lusso della vita di corte nel castello di Leuternia e nelle dimore presso
le capitali del principato e del regno dove la famiglia del conte passava la
maggior parte dell’anno tra feste e intrighi che ne assorbivano interamente le
energie e gli interessi.
E poiché l’inettitudine e l’avidità del conte
s’intrecciavano strettamente con la crisi
economica e con l’oggetto della “Cronica”, è arrivato il momento di entrare nel
cuore della storia e di affrontarla a partire dalla figura di Teo Patruno che
da oltre trentacinque anni, asserragliato nel castello a picco sul mare, tiranneggiava il popolo di Leuternia.
Teo è
l’ultimogenito di Stefano Patruno e di Livia Codispota, sua cugina per parte di
madre, figlia di una sorella andata in sposa al primogenito di una nobile
famiglia di origine bizantina, feudataria di una baronia nel principato di
Calabria.
Dopo l’ascesa al
beneficio della contea, per le insistenti pressioni della madre che ne voleva
rafforzare il potere imparentandolo con una famiglia influente, sposò Lucina del Balzo, figlia
del duca di Andria.
La coppia aveva
generato due figli, Cocidio e Fabrizio: il primo, associato al potere della
contea in attesa di ereditarne il ruolo e il titolo; il secondo, di aspetto
alquanto sgradevole e claudicante era stato di fatto ripudiato dalla madre che,
per ripicca verso il consorte, non volle allattarlo né vederlo. L’infante
ripudiato venne affidato ad un fabbricante di armi che lo allevò
trasmettendogli l’arte di lavorare il ferro con la forza invincibile del fuoco,
arte nella quale eccelse e diede molteplici prove per ingraziarsi la protezione
del padre o per vendicarsi nei confronti di quanti si facevano beffe della sua
bruttezza. Della madre Lucina in primo luogo, che restò imprigionata nello
scranno comitale donatole dal figlio ripudiato e ne fu liberata solo quando ne
fu accolta la richiesta di avere una moglie giovane e bella. Il desiderio di
Fabrizio fu esaudito, ma com’era prevedibile la giovane e bella fanciulla,
obbligata a quel matrimonio, non poté fare a meno di tradire il brutto e
sgarbato marito il quale anche in questo caso, scoperta la tresca, si vendicò
con un marchingegno che imprigionò i due amanti nel letto del tradimento.
Furono opera del vendicativo fabbro, e possiamo esser certi della loro
funzionalità a prova di manomissioni, anche le massicce grate che sbarravano
gli ingressi della grotta “Ferrata”.
I due figli
legittimi non esaurivano la discendenza della coppia comitale. Teo, come tutti
i signori dei feudi, aveva generato numerosi figli illegittimi suscitando la
gelosia e le ire della consorte contro le incolpevoli amanti del marito, alle
cui voglie non avrebbero potuto sottrarsi, per timore o per convenienza.
Ad ognuna di esse,
nonostante la protezione del marito trovò il modo di arrecare gravi offese e disagi,
fino a causarne la morte o l’allontanamento dal feudo. Nonostante la sua ira e
l’irresistibile gelosia non riuscì a contrastare la decisione di Teo di sostituire
il figlio ripudiato, onori e prerogative di una figlia legittima compresi, con
l’illegittima Sofia avuta da un rapporto clandestino con Morgana, cugina di Teo,
personaggio che il conte tenne sempre in grande considerazione e delle cui arti
ebbe modo di avvalersi in un importante risvolto della “Cronica”.
Lucina, per parte
sua, rese al consorte pan per focaccia innamorandosi di baldi e avvenenti
giovani pur non avendo da alcuno imbarazzanti gravidanze. Una in verità l’aveva
pure condotta a termine, ma era accaduto prima del matrimonio, quando Lucina
era ancora giovane e inesperta. Il frutto di quella relazione ebbe anch’esso un
ruolo determinante nella vicenda che ci occupa, ma per il momento, essendo
prematuro parlarne, ritorniamo ad occuparci del conte e della sua famiglia.
La dinastia dei
Patruno si era insediata nella contea di Leuternia in tempi relativamente
recenti. Il capostipite, di nome Celius Pateron, era un oscuro cavaliere al
seguito del re angioino Carlo I, vincitore di Manfredi, l’ultimo re svevo del
regno di Sicilia. Egli era stato ricompensato con un piccolo beneficio feudale
nel principato di Salerno e conduceva un’oscura esistenza offrendo i suoi
servigi a questo o a quel duca impegnati nelle infinite contese dinastiche che hanno
insanguinato e depresso l’infausto periodo.
Dall’anonimato del
remoto feudo calabrese lo trasse il duca di Taranto il quale lo aveva notato
per l’abilità nell’esercizio delle armi e per una sorta di innata attitudine al
comando, ma soprattutto per una ragione di convenienza. Il piccolo feudo
appannaggio di Celius, al confine tra il ducato di Calabria e i principati di
Taranto e di Salerno, aveva una posizione strategica per il controllo di importanti
vie di comunicazione che consentivano di controllare gli spostamenti lungo
l’asse nord-sud ed est-ovest dell’intero regno. Fu l’unica ragione per cui gli
fu proposto di cedere il suo beneficio in cambio del matrimonio con la terzogenita
del duca alla quale, fu assegnata in dote la più tranquilla e popolosa contea
di Leuternia.
Celius si accasò
nel nuovo feudo e fu innalzato al rango di consigliere del principe impegnato
in quel periodo in una complessa politica di alleanze che lo portarono ad
aumentare significativamente la sua influenza nella politica del regno.
La contea continuò
ad essere retta fino ai giorni nostri dalla dinastia dei Pateron. Col tempo il
cognome del capostipite fu modificato, nell’uso prima e poi nella
documentazione amministrativa e dinastica, in quello attuale di Patruno per effetto
della naturale volgarizzazione dell’originario termine nell’idioma locale.
Teo fu l’ultimo esponente
titolato della dinastia e probabilmente gli nocque il carattere autoritario e
sanguinario che lo contraddistinse rendendolo inviso ai suoi pari e al popolo
di Leuternia. Egli era considerato, e tale era in effetti, un uomo senza
scrupoli, smodatamente altero e irascibile, pronto a spianare con la forza
qualunque ostacolo si frapponesse sulla sua strada e ne limitasse o ostacolasse
le smodate ambizioni, che erano tante e spesso temerarie. Aveva tramato contro
i baroni suoi vassalli per privarli dei benefici acquisiti da lungo tempo e
spesso aveva usato la forza per costringerli alla rinuncia o alla cessione dei
diritti in cambio di irrisorie contropartite. Aveva sfruttato ogni minima
occasione per rivendicare diritti di successione su altri feudi e avviato
azioni militari per acquisirli, pur senza mai raggiungere lo scopo. Il
risultato di tanta prepotenza fu il totale isolamento politico della contea e
la cattiva fama che lo perseguitò e alfine lo perse non appena mutarono le
condizioni politiche del regno.
Dove Teo Patruno
diede il meglio di sé, dimostrando tutta la sua insipienza e la ruvida
arroganza, fu il rapporto con i cittadini della contea, considerati e trattati
come semplici strumenti del suo potere e quindi sempre incline a vessarli e ad
umiliarli fino a privarli di quasi tutte le garanzie e i diritti, come ho già
riferito nel capitolo sesto.
Fu per quest’ultima
preminente ragione che il popolo di Leuternia si ribellò. Le cause illustrate
all’inizio di questo capitolo non furono determinanti, svolsero il compito del
soffietto o del mantice per ravvivare il fuoco che cova sotto la cenere, non ne
furono la scintilla che fa divampare l’incendio.
Se la situazione
politica e sociale di Leuternia fosse stata percepita nei limiti della
normalità codificata, il popolo avrebbe sopportato le emergenze. È un popolo
abituato a sopportare le guerre e le carestie, le epidemie e le invasioni; è un
popolo forte e coraggioso che non si scoraggia e non ha paura di rimboccarsi le
maniche per far fronte alle difficoltà della vita; è un popolo generoso e
docile, ma ha anche un insopportabile difetto: ama la libertà e odia le
ingiustizie. E poiché sotto il governo della dinastia dei Patruno, e
particolarmente negli ultimi decenni, a partire dall’ascesa di Teo alla carica
comitale, la situazione si era deteriorata oltre ogni limite, nella contea si
era sviluppato un movimento clandestino di protesta con l’obiettivo di
contrastare le prepotenze e le stravaganze del conte e di guidare e indirizzare
le sommosse spontanee che divampavano come fuochi fatui
in risposta ai suddetti comportamenti.
Il movimento aveva
accomunato le aspettative e le attese dei ceti produttivi: i contadini, gli
artigiani e i mercanti, con quelle degli esponenti delle professioni
intellettuali imbevuti di cultura classica, memori dei passati splendori e dei
più recenti. Quelli che condividevano il grido di dolore del poeta della
Commedia:
«Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran
tempesta, / non donna di province, ma bordello!»;
che coltivavano l’aspirazione
all’unificazione della penisola sotto l’unica bandiera del Cesare imperatore:
«Ché le città d'Italia tutte piene / son di
tiranni».
Erano stati questi
ultimi a ordire le fila della ribellione, persone come il notaro Rizzo, lo
speziale Greco, il maestro Polifemo, ai quali si erano aggiunti gli uomini più
in vista delle corporazioni di mestiere e perfino alcuni baroni, tra quelli più
sensibili e colti, stanchi di sopportare le angherie del conte.
Ma non solo di
questo si trattava. Aleggiava nello spirito del tempo la spinta impetuosa a
superare le angustie del passato, l’ordinamento feudale guidato dalla nobiltà
militare. In tutto il regno e anche a Leuternia si era sviluppato un ceto di
mercanti e di imprenditori che reclamava per sé maggiori libertà onde garantire
lo sviluppo delle loro attività; ed era evidente che le pretese non si
limitavano alla sfera economica, avevano l’aspirazione di sostituire la vecchia
classe dirigente, conti e baroni, che rappresentavano la stagnazione, per
portare al potere la vivacità, il dinamismo della nuova classe. Anche di
questo, seppure indirettamente, si pasceva l’insoddisfazione dei cittadini di
Leuternia che comprendevano e sperimentavano sulla loro stessa pelle la
differenza tra stagnazione e innovazione.
L’obiettivo
iniziale del gruppo di cospiratori, constatato l’esteso e ramificato sentimento
di ribellione, mirava a soffiare sul malcontento popolare per porsi come
mediatore tra popolo e conte in occasione delle sparse e disorganizzate
sommosse popolari scoppiate a causa dell’insostenibile situazione sopra
evidenziata; successivamente, l’ostinazione e la brutalità del conte li
convinsero a organizzare una vera e propria sedizione con l’obiettivo di
cacciarlo dal paese e di porsi sotto la protezione dell’Abbazia casoliana.
A guidare il
gruppo era stato individuato un quadrumvirato con il compito di tenere i
contatti clandestini tra gli aderenti, per coordinarne le attività e tracciare
il percorso di lotta. Capo riconosciuto del gruppo era il già noto Damiano
Polifemo, uomo di lettere, maestro di filosofia ed eloquenza presso la scuola
dell’Abbazia di Casole, dal cui ufficio, protetto dalla riservatezza dei monaci
che ne appoggiavano la causa, tesseva le fila della ribellione.
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