giovedì 5 gennaio 2023

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

 


Capitolo settimo

La condizione economico-sociale di Leuternia è alquanto precaria a causa delle guerre, della recente pestilenza  e, non ultime, dell’incuria e dell’avidità del conte che angaria il suo popolo con ogni sorta di balzelli e di vessazioni.  A causa delle difficili condizioni economiche e della brutalità del conte, in Leuternia è cresciuto un movimento clandestino che tenta di contrastare le angherie del sovrano e sfocia in aperta rivolta.

Quanto ho raccontato nel primo libro di questa Cronica, rappresenta l’epilogo doloroso di una tragedia che aveva sconvolto la vita della mia famiglia e di molte altre famiglie di Leuternia. Non solo: aveva soffocato un promettente movimento economico, sociale e culturale che avrebbe potuto favorire l’ammodernamento dell’economia per superare le strozzature della frantumazione del territorio in una pletora di piccoli feudi autonomi e di fatto indipendenti che ne impedivano il decollo e lo condannavano all’immobilità.

Sarebbe interessante approfondire il fondamento delle aspettative così formulate da molti personaggi con i quali ho avuto modo di parlare nel corso delle ricerche per ricostruire gli eventi, se ne potrebbero avere importanti sviluppi se ad affrontare il delicato tema fosse uno storico di professione o anche per vocazione. Purtroppo non sono né l’uno né l’altro, sono un semplice testimone e torno al tema della mia fatica finalizzata a ricostruire una vicenda nella quale era implicato il mio veneratissimo genitore, per dargli il giusto riconoscimento, perché lui di questa vicenda e di quel movimento è stato uno dei principali protagonisti.
Per trovare il punto d’inizio e il bandolo dell’intricata matassa responsabile di quell’epilogo, bisogna fare qualche passo indietro e partire da ciò che era Leuternia in quel tempo ed anche per collocarla nello spazio onde dare agio a chi non la conosca di averne un’idea generale.

Leuternia, il cui centro è collocato all’incrocio dei 40,04° di latitudine nord con i 18,27° di longitudine est, è una contea tributaria del principato di Taranto che si estende nell’estrema propaggine della penisola salentina tra mar Jonio e mare Adriatico, i cui confini sono delimitati: a nord dalla linea che attraversa il territorio peninsulare da Kallipolis, passando per Malliae, fino a Hudrentu; a sud dal tratto di costa che dal capo Japigio, spartiacque tra i due mari, risale a ovest, bassa e sabbiosa; a est per il tratto roccioso e impervio, costellato di grotte e insenature, che il fuggiasco Enea costeggiò “fino ai due scogli, che con due braccia il mar dentro accogliendo, lo fa porto e l'asconde; e sovra al porto lunge dal lito è il tempio di Minerva”[1], ove sbarcato venerò la dea.
È una terra faticosa, la nostra: bella e prospera quando la si doma e la fatica la sottrae all’incuria; aspra, selvaggia e inferma quando negligenza e abbandono la cedono al dominio degli eventi. Soggetta a questa altalena, spinta in continuazione da circostanze contrastanti che ora la sollevano ora la deprimono, nell’epoca in cui si svolgono gli eventi narrati la contea viveva una fase di arretramento e d’involuzione. Numerose ne erano le cause, concomitanti e devastanti, che congiuravano a irretirne lo slancio. Ne ricordo brevemente tre, tra le più disastrose, che interessano l’intero principato: le ricorrenti pestilenze responsabili del grave decremento demografico e della conseguente desertificazione di numerose contrade per l’abbandono dei casali spopolati e delle terre ad essi prossime;
le incursioni dei pirati saraceni lungo le coste, che depredavano casali e città razziando derrate, animali e abitanti venduti come schiavi nei mercati del nord Africa; i conflitti che opponevano i feudatari al potere centrale e le numerose guerre per la successione nel regno e nell’impero che minavano la stabilità dei feudi e ne sottraevano importanti risorse.
A sopportarne le implicazioni più gravose furono soprattutto i paesi costieri, le terre situate in prossimità delle coste basse, sottratte dalle precedenti bonifiche al dominio degli acquitrini e le zone di padula dell’interno. Conseguenza dell’abbandono ne fu il lento inselvatichimento, a cui fece seguito la riduzione della produzione e della ricchezza collettiva con inevitabili ripercussioni su tutte le attività economiche: dall’artigianato alla pastorizia, dal commercio terrestre e marittimo alle attività finanziarie.
Alle cause di ordine generale ne va aggiunta una di carattere strettamente locale, che chiama in causa il reggimento della contea e l’inetta amministrazione dei conti Patruno per nulla lungimiranti né interessati al miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei loro tenimenti e della popolazione, interessati soltanto alla riscossione delle rendite e dei tributi, e tanto più gravosi quanto minori erano le disponibilità delle famiglie e delle Universitas a causa della crisi. Ricchezze sperperate nel lusso della vita di corte nel castello di Leuternia e nelle dimore presso le capitali del principato e del regno dove la famiglia del conte passava la maggior parte dell’anno tra feste e intrighi che ne assorbivano interamente le energie e gli interessi.
E poiché l’inettitudine e l’avidità del conte s’intrecciavano strettamente con la crisi economica e con l’oggetto della “Cronica”, è arrivato il momento di entrare nel cuore della storia e di affrontarla a partire dalla figura di Teo Patruno che da oltre trentacinque anni, asserragliato nel castello a picco sul mare, tiranneggiava il popolo di Leuternia.
 
Teo è l’ultimogenito di Stefano Patruno e di Livia Codispota, sua cugina per parte di madre, figlia di una sorella andata in sposa al primogenito di una nobile famiglia di origine bizantina, feudataria di una baronia nel principato di Calabria.
Dopo l’ascesa al beneficio della contea, per le insistenti pressioni della madre che ne voleva rafforzare il potere imparentandolo con una famiglia influente, sposò Lucina del Balzo, figlia del duca di Andria.
La coppia aveva generato due figli, Cocidio e Fabrizio: il primo, associato al potere della contea in attesa di ereditarne il ruolo e il titolo; il secondo, di aspetto alquanto sgradevole e claudicante era stato di fatto ripudiato dalla madre che, per ripicca verso il consorte, non volle allattarlo né vederlo. L’infante ripudiato venne affidato ad un fabbricante di armi che lo allevò trasmettendogli l’arte di lavorare il ferro con la forza invincibile del fuoco, arte nella quale eccelse e diede molteplici prove per ingraziarsi la protezione del padre o per vendicarsi nei confronti di quanti si facevano beffe della sua bruttezza. Della madre Lucina in primo luogo, che restò imprigionata nello scranno comitale donatole dal figlio ripudiato e ne fu liberata solo quando ne fu accolta la richiesta di avere una moglie giovane e bella. Il desiderio di Fabrizio fu esaudito, ma com’era prevedibile la giovane e bella fanciulla, obbligata a quel matrimonio, non poté fare a meno di tradire il brutto e sgarbato marito il quale anche in questo caso, scoperta la tresca, si vendicò con un marchingegno che imprigionò i due amanti nel letto del tradimento. Furono opera del vendicativo fabbro, e possiamo esser certi della loro funzionalità a prova di manomissioni, anche le massicce grate che sbarravano gli ingressi della grotta “Ferrata”.
I due figli legittimi non esaurivano la discendenza della coppia comitale. Teo, come tutti i signori dei feudi, aveva generato numerosi figli illegittimi suscitando la gelosia e le ire della consorte contro le incolpevoli amanti del marito, alle cui voglie non avrebbero potuto sottrarsi, per timore o per convenienza.
Ad ognuna di esse, nonostante la protezione del marito trovò il modo di arrecare gravi offese e disagi, fino a causarne la morte o l’allontanamento dal feudo. Nonostante la sua ira e l’irresistibile gelosia non riuscì a contrastare la decisione di Teo di sostituire il figlio ripudiato, onori e prerogative di una figlia legittima compresi, con l’illegittima Sofia avuta da un rapporto clandestino con Morgana, cugina di Teo, personaggio che il conte tenne sempre in grande considerazione e delle cui arti ebbe modo di avvalersi in un importante risvolto della “Cronica”.
Lucina, per parte sua, rese al consorte pan per focaccia innamorandosi di baldi e avvenenti giovani pur non avendo da alcuno imbarazzanti gravidanze. Una in verità l’aveva pure condotta a termine, ma era accaduto prima del matrimonio, quando Lucina era ancora giovane e inesperta. Il frutto di quella relazione ebbe anch’esso un ruolo determinante nella vicenda che ci occupa, ma per il momento, essendo prematuro parlarne, ritorniamo ad occuparci del conte e della sua famiglia.
 
La dinastia dei Patruno si era insediata nella contea di Leuternia in tempi relativamente recenti. Il capostipite, di nome Celius Pateron, era un oscuro cavaliere al seguito del re angioino Carlo I, vincitore di Manfredi, l’ultimo re svevo del regno di Sicilia. Egli era stato ricompensato con un piccolo beneficio feudale nel principato di Salerno e conduceva un’oscura esistenza offrendo i suoi servigi a questo o a quel duca impegnati nelle infinite contese dinastiche che hanno insanguinato e depresso l’infausto periodo.
Dall’anonimato del remoto feudo calabrese lo trasse il duca di Taranto il quale lo aveva notato per l’abilità nell’esercizio delle armi e per una sorta di innata attitudine al comando, ma soprattutto per una ragione di convenienza. Il piccolo feudo appannaggio di Celius, al confine tra il ducato di Calabria e i principati di Taranto e di Salerno, aveva una posizione strategica per il controllo di importanti vie di comunicazione che consentivano di controllare gli spostamenti lungo l’asse nord-sud ed est-ovest dell’intero regno. Fu l’unica ragione per cui gli fu proposto di cedere il suo beneficio in cambio del matrimonio con la terzogenita del duca alla quale, fu assegnata in dote la più tranquilla e popolosa contea di Leuternia.
Celius si accasò nel nuovo feudo e fu innalzato al rango di consigliere del principe impegnato in quel periodo in una complessa politica di alleanze che lo portarono ad aumentare significativamente la sua influenza nella politica del regno.
La contea continuò ad essere retta fino ai giorni nostri dalla dinastia dei Pateron. Col tempo il cognome del capostipite fu modificato, nell’uso prima e poi nella documentazione amministrativa e dinastica, in quello attuale di Patruno per effetto della naturale volgarizzazione dell’originario termine nell’idioma locale.  
Teo fu l’ultimo esponente titolato della dinastia e probabilmente gli nocque il carattere autoritario e sanguinario che lo contraddistinse rendendolo inviso ai suoi pari e al popolo di Leuternia. Egli era considerato, e tale era in effetti, un uomo senza scrupoli, smodatamente altero e irascibile, pronto a spianare con la forza qualunque ostacolo si frapponesse sulla sua strada e ne limitasse o ostacolasse le smodate ambizioni, che erano tante e spesso temerarie. Aveva tramato contro i baroni suoi vassalli per privarli dei benefici acquisiti da lungo tempo e spesso aveva usato la forza per costringerli alla rinuncia o alla cessione dei diritti in cambio di irrisorie contropartite. Aveva sfruttato ogni minima occasione per rivendicare diritti di successione su altri feudi e avviato azioni militari per acquisirli, pur senza mai raggiungere lo scopo. Il risultato di tanta prepotenza fu il totale isolamento politico della contea e la cattiva fama che lo perseguitò e alfine lo perse non appena mutarono le condizioni politiche del regno.
Dove Teo Patruno diede il meglio di sé, dimostrando tutta la sua insipienza e la ruvida arroganza, fu il rapporto con i cittadini della contea, considerati e trattati come semplici strumenti del suo potere e quindi sempre incline a vessarli e ad umiliarli fino a privarli di quasi tutte le garanzie e i diritti, come ho già riferito nel capitolo sesto.
 
Fu per quest’ultima preminente ragione che il popolo di Leuternia si ribellò. Le cause illustrate all’inizio di questo capitolo non furono determinanti, svolsero il compito del soffietto o del mantice per ravvivare il fuoco che cova sotto la cenere, non ne furono la scintilla che fa divampare l’incendio.
Se la situazione politica e sociale di Leuternia fosse stata percepita nei limiti della normalità codificata, il popolo avrebbe sopportato le emergenze. È un popolo abituato a sopportare le guerre e le carestie, le epidemie e le invasioni; è un popolo forte e coraggioso che non si scoraggia e non ha paura di rimboccarsi le maniche per far fronte alle difficoltà della vita; è un popolo generoso e docile, ma ha anche un insopportabile difetto: ama la libertà e odia le ingiustizie. E poiché sotto il governo della dinastia dei Patruno, e particolarmente negli ultimi decenni, a partire dall’ascesa di Teo alla carica comitale, la situazione si era deteriorata oltre ogni limite, nella contea si era sviluppato un movimento clandestino di protesta con l’obiettivo di contrastare le prepotenze e le stravaganze del conte e di guidare e indirizzare le sommosse spontanee che divampavano come fuochi fatui in risposta ai suddetti comportamenti.
Il movimento aveva accomunato le aspettative e le attese dei ceti produttivi: i contadini, gli artigiani e i mercanti, con quelle degli esponenti delle professioni intellettuali imbevuti di cultura classica, memori dei passati splendori e dei più recenti. Quelli che condividevano il grido di dolore del poeta della Commedia:
«Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!»[2];
che coltivavano l’aspirazione all’unificazione della penisola sotto l’unica bandiera del Cesare imperatore:
«Ché le città d'Italia tutte piene / son di tiranni»[3].
Erano stati questi ultimi a ordire le fila della ribellione, persone come il notaro Rizzo, lo speziale Greco, il maestro Polifemo, ai quali si erano aggiunti gli uomini più in vista delle corporazioni di mestiere e perfino alcuni baroni, tra quelli più sensibili e colti, stanchi di sopportare le angherie del conte.
Ma non solo di questo si trattava. Aleggiava nello spirito del tempo la spinta impetuosa a superare le angustie del passato, l’ordinamento feudale guidato dalla nobiltà militare. In tutto il regno e anche a Leuternia si era sviluppato un ceto di mercanti e di imprenditori che reclamava per sé maggiori libertà onde garantire lo sviluppo delle loro attività; ed era evidente che le pretese non si limitavano alla sfera economica, avevano l’aspirazione di sostituire la vecchia classe dirigente, conti e baroni, che rappresentavano la stagnazione, per portare al potere la vivacità, il dinamismo della nuova classe. Anche di questo, seppure indirettamente, si pasceva l’insoddisfazione dei cittadini di Leuternia che comprendevano e sperimentavano sulla loro stessa pelle la differenza tra stagnazione e innovazione.
L’obiettivo iniziale del gruppo di cospiratori, constatato l’esteso e ramificato sentimento di ribellione, mirava a soffiare sul malcontento popolare per porsi come mediatore tra popolo e conte in occasione delle sparse e disorganizzate sommosse popolari scoppiate a causa dell’insostenibile situazione sopra evidenziata; successivamente, l’ostinazione e la brutalità del conte li convinsero a organizzare una vera e propria sedizione con l’obiettivo di cacciarlo dal paese e di porsi sotto la protezione dell’Abbazia casoliana.
A guidare il gruppo era stato individuato un quadrumvirato con il compito di tenere i contatti clandestini tra gli aderenti, per coordinarne le attività e tracciare il percorso di lotta. Capo riconosciuto del gruppo era il già noto Damiano Polifemo, uomo di lettere, maestro di filosofia ed eloquenza presso la scuola dell’Abbazia di Casole, dal cui ufficio, protetto dalla riservatezza dei monaci che ne appoggiavano la causa, tesseva le fila della ribellione.


[1] Virgilio, Eneide, libro terzo, vv. 839-842.

[2] Dante Alighieri – Inferno, IV, vv. 76-78.

[3] Ibidem, vv. 124-125.

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