lunedì 12 dicembre 2022

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

C’è paura e fermento tra gli abitanti di Leuternia. Dopo l’incontro con la delegazione popolare il conte blandisce il popolo cercandone il consenso ed emana un secondo editto per bandire dal feudo le famiglie dei dissidenti coinvolti nel fallito tentativo di sedizione. La famiglia Polifemo lascia Leuternia.

 

Capitolo sesto

 Il congedo del conte non lasciò tranquilli gli uomini della delegazione. La minaccia era esplicita, senza mediazioni di sorta, ma era figlia della paura e della menzogna. Ormai la sorte dei prigionieri era evidente e ciò rafforzava ancora di più l’esigenza di una risposta decisa da parte del popolo di Leuternia; arrendersi avrebbe significato l’accettazione del dispotismo assoluto: combattere e vincere o soccombere con onore era l’unica strada praticabile.

Mentre il conte profferiva la sua tracotante minaccia, al notaro Rizzo era sovvenuto un principio che tante volte aveva discusso con Damiano Polifemo, con Medardo Greco e con altri: il diritto alla resistenza dei popoli di fronte alle usurpazioni del sovrano. Tale diritto generale trovava il suo fondamento nella massima romana “quod omnes tangit ab omnibus approbetur” (Ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti), ed era stato declinato dai giuristi dell’epoca nel senso che le decisioni riguardanti modifiche alle norme comunemente accettate, sancite negli statuti delle città e dei feudi e nelle costituzioni degli Stati, dovevano essere approvate dai vari ordini sociali e quindi anche dai rappresentanti scelti dal popolo. Così non era stato nella contea di Leuternia perché la dinastia dei Patruno aveva calpestato deliberatamente le libertà collettive e instaurato, di fatto, un regime tirannico contro il quale era legittimo sollevarsi per ripristinare le libertà perdute.

Le risultanze dell’imbasciata furono comunicate alla cittadinanza nell’assemblea dei capifamiglia (Parlamento), un’antica istituzione con poteri decisionali su molti aspetti della vita pubblica che la prepotenza del conte aveva di fatto svuotato delle sue primitive funzioni. Il Parlamento, in questo caso, quasi a richiamarne il significato legale e simbolico, era stato convocato in un luogo diverso dalla piazza, nel cortile del palazzo del capitano[1].

Il capitano tentò di impedire l’assemblea ma, nulla potendo contro la pressione della massa, fu costretto a capitolare. All’assemblea furono riportate per filo e per segno le parole pronunciate nel corso dell’udienza ed ognuno poté trarne il giudizio, che divenne collettivo quando si levarono alte esclamazioni di protesta nei confronti del conte. Nell’occasione molti presero la parola per approvare il comportamento della delegazione e per sostenere, apertis verbis, le richieste rinnovate al cospetto del conte.

Sciolta l’assemblea i membri della delegazione si riconvocarono in gran segreto, allargando la riunione ad altri autorevoli capifamiglia, già membri di varie magistrature cittadine, per decidere le modalità di continuazione della lotta contro il potere feudale.

Gli uomini di Leuternia, quando ancora i costumi non erano stati corrotti dall’isolamento, dalla povertà e dalla paura; quando era ancora vivo il ricordo del puer Apuliae, lo stupor mundi, e di suo figlio Manfredi; gli uomini di Leuternia, allora saldi e forti, di fronte ai soprusi reagivano con energia e determinazione per conservare la libertà e trasmetterla immutata ai posteri. Dopo furono le blandizie del potere a corromperli, quando il potere non era più “il sole che brillava sui popoli, il sole dei giusti, l'asilo della pace[2], si era trasformato in un famelico predatore interessato solo alle rendite prodotte dai feudi e ai tributi che se ne potevano trarre.

Forte di quello spirito la cittadinanza di Leuternia si preparava a un ulteriore atto di resistenza.

 

Il conte, intanto, tramava nell’ombra. Egli aveva accusato il colpo sferrato da Giovanni Rizzo e cercava una via d’uscita che non inasprisse ulteriormente gli animi. Quanto all’origine della polla sulfurea sperava di risolverla attribuendone la colpa alla famiglia Giganti. I suoi figli lavoravano a questo e ben presto avrebbe potuto raccoglierne i frutti.

 

Noi, miei gentili lettori, per averne notizie in dettaglio dobbiamo attendere che prima sia dipanata l’intricata matassa del rapporto tra la stirpe dei Patruno e quella dei Giganti; il farlo richiederà molto tempo e molto impegno, solo al termine del terzo libro potremo finalmente venirne a capo. Per il momento vi chiedo di avere pazienza e di rivolgere un pensiero benevolente a quei poveri martiri che il popolo di Leuternia ha già santificato per il loro sacrificio.

Dunque, il conte tramava nell’ombra. Su quali vie d’uscita poteva sperare?

Quella della forza era esclusa in concomitanza con la progettata, definitiva resa dei conti con la stirpe dei Giganti; la strada da percorrere richiedeva flessibilità e dissimulazione, magnanimità e fermezza, soprattutto rapidità nelle decisioni e nessuna incertezza nel colpire al momento opportuno, quando la cittadinanza avesse abbassato la guardia confidando di aver raggiunto i propri obiettivi.

La dissimulazione era il suo forte, accompagnata dall’abilità di solleticare i difetti delle plebi cittadine e dei contadini dei casali, di blandirli con la magnificenza, la cordialità affettata, le feste, i carnevali e maggiormente quando aveva in animo di stringere un po’ di più la corda attorno al loro collo, qualunque fosse la materia alla quale si applicava.

Le decisioni del conte furono note il giorno successivo per mezzo di un secondo bando che si rivelò, com’era prevedibile, un capolavoro d’ipocrisia senza infingimenti. Non v’era chi non potesse comprenderne lo scopo, eppure ebbe l’effetto sperato di provocare una profonda frattura in seno alla popolazione. Il documento, letto solennemente in tutte le piazze di Leuternia e nei casali del contado, lettura replicata in tutte le chiese la prima domenica successiva, richiamava, come necessaria premessa, l’incontro con la delegazione cittadina che aveva rappresentato le ristrettezze economiche causate dal perdurare delle vicende d’armi e dai tumulti provocati da malintenzionati, i quali, nell’interesse dello Stato e della popolazione sofferente, erano stati neutralizzati.

Un falso clamoroso, si direbbe, essendo state ignorate le reali richieste avanzate dalla delegazione capeggiata dal notaro Rizzo. Certo, un falso che non passò inosservato in città e in qualche casale tra i più importanti e popolosi, dov’era nata e si alimentava la protesta antisignorile; nei piccoli casali e nelle masserie, che pure erano tanta parte del feudo, non fu possibile, per mancanza d’informazioni dirette, valutarne la manipolazione. Alla premessa seguivano un impegno e una promessa.

L’impegno: il conte, per il tramite del Catapano[3], onde venire incontro alle sofferenze del popolo, avrebbe fatto distribuire un tomolo di orzo e un picciolo[4] di grano a ogni famiglia di artieri, di manovali e di braccianti; avrebbe inoltre, dando apposito ordine al Camberlingo[5], esentato parzialmente i suddetti ceti, per il periodo di un anno, dalle ordinarie contribuzioni. I contadini e i braccianti sarebbero stati sollevati, sempre per il medesimo periodo, anche da alcune corvè.

Si noti che l’esenzione contributiva riguardava soltanto le contribuzioni ordinarie. Tale dizione si rivelò ben preso, non erano ancora passati sei mesi, un eccezionale cavallo di troia che permise al Catapano, di fatto al conte Patruno, di introdurre un tributo straordinario ancora più gravoso delle contribuzioni ordinarie, raggirando perfidamente la buona fede della cittadinanza. A quel punto, però, la contesa era già stata risolta e la beffa del conte non provocò alcun tumulto degno di nota.

La promessa: il conte s’impegnava a sottoporre alla cittadinanza un nuovo patto di sudditanza, da discutere con il consiglio dei capifamiglia, per definire, nell’incertezza delle consuetudini, le norme per il tenimento del feudo e per garantire l’autogoverno delle Universitas.

È forse inutile ricordare che, passata la buriana, propose uno statuto nel quale gli istituti di rappresentanza diretta erano ridotti a un ruolo puramente formale e di semplice ratifica. Ma anche questo secondo, sbeffeggiante sopruso fu accettato dalla cittadinanza senza sollevare alcuna protesta significativa. Qualcuno, in realtà, il solito Rizzo, lo speziale Greco, il velaio Grimaldi, il bottaio Colaci, il mercante Petrachi e altri il cui nome si è perso nella memoria, cercarono di ridestare gli animi soffiando sul sentimento dell’orgoglio e della dignità, ma invano. E poiché i riottosi erano pochi fu facile per il conte isolarli e screditarli ricorrendo alla menzogna e all’ingiuria. La loro uscita di scena fu l’ultimo atto di una stagione gloriosa e infelice, un’anteprima in sedicesimo di ciò che sarebbe stato per tutto il regno nei decenni a venire.

La magnanimità filistea del conte si contraddisse con un velenoso colpo di coda affidato ai provvedimenti del capitano. Questi, nell’esercizio delle sue funzioni di responsabile della giustizia penale, emanò decreti di esilio per le famiglie dei presunti responsabili della rivolta, tanto per quelli riparati fuori dal feudo, quanto per chi giaceva nelle prigioni del feudo o era stato proditoriamente giustiziato. Tra le famiglie colpite dal bando figurava quella di Damiano Polifemo. Fummo costretti a partire senza indugio. Solo cinque giorni ci furono concessi per prepararci all’esodo.

Mia madre accolse la notizia con una forza d’animo intrepida, non si lasciò abbattere dalla grave ingiustizia che ci colpiva e affrontò a testa alta, senza cedimenti tutte le incombenze di quell’indicibile tragedia. Senza cedimenti apparenti. Lo appresi molto tempo dopo, quando la vicenda mi fu chiara ed io avevo raggiunto l’età della ragione (avevo sedici anni) e cercavo spiegazioni e assillavo con le mie domande tutti quelli che potevano sapere.

Dei cedimenti di mia madre me ne parlò Costanza, mia sorella maggiore, che all’epoca dei fatti a quindici anni era una donna in età da marito. Mi raccontò di aver visto mamma piangere più volte nei giorni che seguirono l’ingiusto decreto, per l’incertezza sulla sorte del marito, nostro padre veneratissimo, e per le pesanti difficoltà a cui sarebbe andata incontro, lei da sola, senza sostegno stabile, con tre figli da allevare e da sostentare.

Il provvedimento che ci bandiva dallo Stato non si limitava all’espulsione. Come accade in questi casi, alla famiglia Polifemo (come a tutte le altre colpite dal bando) furono confiscati tutti i beni, compresi i mobili. Uscimmo dalla città portando con noi soltanto gli effetti personali, compresi quelli di mio padre (Per ricordo? Per coltivare una speranza?) e i pochi soldi necessari per il viaggio.

Nella triste evenienza fummo sostenuti e aiutati dai fratelli di mia madre, uomini influenti in città che come mio padre Damiano mal sopportavano l’arroganza del conte e avevano sostenuto la rivolta con mezzi e uomini a loro fedeli.

Aveva pianto anche Costanza insieme a mia madre, ma lei, oltre che per la nostra misera sorte, perché lasciava a Leuternia un affetto, di quelli che alla sua età si coltivano gelosamente nel cuore, che ti fanno sussultare di commozione e t’imporporano le guance al solo scorgerne il destinatario. Che nel caso era il figlio di un cugino di mamma, al quale in segreto, ricambiata, si era promessa.

La città fu percorsa da un debole movimento di protesta con l’intento di ostacolare l’esecuzione dei bandi. Gruppi di cittadini li contestarono, ma niente fu possibile ottenere per quella via; come niente si ottenne con le suppliche personali indirizzate al conte per chiederne la revoca. Questi, che ne era stato l’ispiratore e l’unico responsabile, fu inflessibile, non le considerò neanche degne di risposta e con il suo silenzio segnò per me l’inizio di un nuovo capitolo della mia vita lontano da Leuternia e dai miei amici.

La mattina della nostra partenza non la ricordo come un evento luttuoso. Per me ragazzino che si fidava della tranquillità di sua madre sembrava addirittura un giorno di festa. I vicini e i parenti erano venuti a salutarci e a raccomandarsi di inviare nostre notizie. Salutai i miei amici Delio e Ilario e in quel momento, forse per un inconscio desiderio d’altera insolenza, dissi loro che stavamo partendo da Leuternia a causa di quel fetore che ammorbava ancora la città, seppure meno intenso rispetto ai primi giorni, per via dell’assuefazione che ne conteneva la percezione. Nel mio intimo sapevo che non era quello il motivo, ma forse fu il segno di un presentimento, una percezione apparentemente immotivata, priva di reali fondamenti. I miei amici, che erano stati avvertiti dai genitori di non rivelare a noi ragazzi, a me e a mia sorella Violante di appena quattro anni, la ragione vera della nostra partenza, non commentarono la mia impertinenza. Nei loro sguardi colsi un lampo fugace che interpretai come d’invidia, perché loro erano costretti a rimanere lì, a respirare quella puzza infernale mentre io andavo via. Oggi, passati tanti decenni, vagliato il ricordo alla luce del dramma che lo ha generato, ritengo che fosse il lampo di un istinto represso, così eloquente nei ragazzi che si censurano controvoglia, specie quando il dire è una risposta a un’affermazione impertinente. Tale era stata quella mia, dalla quale originò l’impegno di scoprirne le cause e con esse di ricostruire l’intera vicenda di cui sto scrivendo.

Il nostro esilio ci portò nel ducato di Bari, nella città di Trani, dove ci ospitò uno dei fratelli di mia madre che vi svolgeva una fiorente attività di mercatura.    



[1] Il capitano era il magistrato cittadino preposto all’esercizio della giustizia penale; era scelto tra candidati di estrazione forestiera per garantirne l’imparzialità.

[2] Dalla lettera di Manfredi, figlio di Federico II di Svevia, al fratello Corrado, per la morte del padre.

[3] È un organo dell’Universitas, nominato dall’assemblea dei capifamiglia e membro del Consiglio degli Officiales, era incaricato di controllare l’approvvigionamento e il prezzo dei cereali. A Leuternia, nel periodo considerato, era nominato dal Conte.

[4] Tomolo e picciolo sono unità di misura degli aridi (grano, orzo, olive ecc,): il primo del valore di ~55 litri; il secondo di ~28 litri.

[5] Camberlingo o Camerlengo, altro organo dell’Universitas la cui nomina era stata usurpata dal conte. Tale ufficio era incaricato di gestire le finanze dell’Universitas.


 

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