mercoledì 7 dicembre 2022

Leuternia Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

 Capitolo quinto

La delegazione popolare capeggiata dal notaro Giovanni Rizzo si era arrestata alle porte del castello protetto da una schiera di guardie che ne impedivano il passo. Il pesante portone d’ingresso ancora chiuso, il ponte levatoio sollevato a metà, davano plasticamente un’impressione dell’incertezza, direi della paura, regnante all’interno, quasi si temesse un attacco. A quell’ora di mattina, con il sole galoppante oltre le selle dei monti Acrocerauni sulla sponda orientale adriatica, non era mai accaduto che il castello fosse isolato dal resto della città, che i fornitori fossero costretti all’attesa con i loro carretti, che i postulanti (cittadini e contadini ben riconoscibili nel rispettivo portamento) se ne restassero allineati lungo il muretto del fossato. A onor del vero erano pochi sia gli uni sia gli altri, sviati tutti dalle incombenti circostanze che avevano raccolto l’intera città sul lungomare, incerti se attendere oltre o unirsi alla folla che riempiva la piazza sottostante.

Fermati a una ventina di passi dal fossato, impediti ad andare oltre dalle guardie armate, gli uomini della delegazione decisero di non desistere. Il notaro Rizzo fu inviato, da solo, a parlamentare con il capo delle guardie, che fu irremovibile. L’unica concessione consistette nella possibilità di recapitare un messaggio al signor conte per avanzare la propria petizione.

Nell’impossibilità di stendere una supplica formale, vista la mancanza di materiali di scrittura, il notaro si acconciò a formulare a voce la richiesta di conferire con il signor conte onde averne rassicurazioni e conforto a fronte dell’infausta pestilenza incombente sulla città e infestante le sue acque marine che tanto preoccupava i cittadini.

Che cosa la delegazione si attendesse dalle parole del conte non era ben chiaro neanche ai delegati. Che cosa poteva aggiungere che non si potesse già sapere, congetturando, come già ognuno faceva? Quale verità poteva uscire dal castello se l’unica verità era indicibile? La ricerca delle cause della pericolosa evenienza presupponeva un’indagine al livello della sua fonte, nella grotta; occorrenza impossibile da accettare da parte del conte, sia per le ragioni strategiche indicate da Sofia nel consiglio di famiglia da poco concluso, sia perché avrebbe dovuto consentire l’accesso alla grotta, eventualità esclusa a priori per irrinunciabili motivi di sicurezza.

 

Ricevuta l’imbasciata, il conte montò in furia, esclamò parole sprezzanti per la pusillanimità dei sudditi.

«Come osano chiedere protezione e assistenza dopo avermi contrastato aspramente in un frangente così delicato per l’esistenza del feudo? Nei loro confronti dovrei essere inflessibile, mentre tutti mi chiedono moderazione!», esclamò con veemenza, alla presenza di numerosi cortigiani intimiditi. Il cappellano che lo seguiva sempre a due passi, affiancato dal medico di corte, fu l’unico a parlare. La sua parola non provocava quasi mai repliche risentite. L’aveva fatto quella mattina, ma era l’eccezione perché eccezionale era la situazione, e delicata. Il conte non poteva inimicarsi il potere del clero secolare – c’erano già i monaci di Casole e i loro confratelli sparsi nei cenobi dell’intero feudo a sostenere la causa del volgo – perciò ne tollerava l’ufficio e ne accettava una limitata libertà di giudizio, espressa nel linguaggio enigmatico della fede, in cambio di devozione al casato e dell’impegno a educare il popolo all’obbedienza e alla sottomissione.

«Signore, – disse il cappellano – troppe calamità hanno funestato questo tempo, serve comprensione e preghiera per sopportare le difficoltà». Una frase equivoca, interpretabile come una critica agli eccessi del conte, ma anche come un semplice invito ad aspettare tempi migliori per consumare la vendetta che andava cercando.

Forse il conte accettò l’invito alla moderazione del cappellano:

«Farò come la religione comanda e confido che le vostre preghiere, padre, invochino il ravvedimento degli empi che hanno osato sfidarci», rispose con accondiscendenza, mentre tra sé e sé pensava al vecchio adagio: “È certamente un bene nei pericoli invocare gli dei, ma ancora di più lo è il muovere le braccia”, che meglio interpretava il suo sentire, in realtà poco incline ad assecondare i precetti della religione.

Dopodiché, chiamata a sé la guardia latrice dell’imbasciata, la istruì sulla risposta da trasmettere alla delegazione in attesa e la congedò.

 Trascorsero un paio d’ore, il sole alto sull’orizzonte – di lì a poco avrebbe rintoccato l’ora terza – già mitigava il freddo della notte, sollevando la leggera foschia che stagnava sul mare. Non il pennacchio di fumo che saliva dall’imboccatura della grotta, quello continuava a persistere, come pure il tremolante vapore prodotto dal contrasto tra il calore delle acque fangose fuoriuscite dalla grotta e l’aria di tramontana che refolava sotto costa. Giovanni Rizzo e i suoi sodali continuavano a presidiare l’ingresso del castello, congetturavano sulle intenzioni del conte e sulle possibili proposte da prospettargli.

«Quali proposte, se non conosciamo le cause della pestilenza, né i suoi effetti sulle acque e sull’aria?», sosteneva Medardo Greco che avrebbe voluto disporre di una caraffa di quell’acqua per poterla analizzare, distillare e provarne gli effetti. Si era dato da fare per procurarsela. Si era affidato agli uomini intenzionati a raggiungere la grotta con le barche, ma essi avevano dovuto desistere, allontanati come noi ragazzi, dalle urla delle guardie e dalle manifeste minacce di inevitabili, rigorose sanzioni.

Questo accadeva intorno all’ora terza, quando dal castello, tra rulli di tamburo e squilli di tromba fu fatto uscire il banditore. A giudicare dalla pompa con la quale esercitava l’incombenza deve ritenersi che il castellano attribuisse un’importanza straordinaria al bando da diffondere. L’araldo era preceduto da tre coppie di figuranti a piedi: due guardie armate, due tamburini e due trombettieri; e seguito da due altre guardie appiedate che chiudevano il corteo. Nel mezzo, su un vecchio ronzino bardato con gualdrappa e finimenti che denunciavano un annoso servizio, cavalcava il banditore, con in mano la pergamena arrotolata da leggere al cospetto del popolo riunito in piazza. Il corteo procedette senza fermarsi di fronte alla delegazione in attesa, corsero solo sguardi interrogativi che non furono ricambiati né trovarono risposta. Il banditore rimase imperterrito in sella con lo sguardo fisso davanti a sé, l’atteggiamento altero di chi è consapevole dell’importanza del compito affidatogli.

Il Rizzo, il Greco e gli altri ritennero che fosse utile ascoltare il testo del bando, anche per sondare gli umori della piazza, quindi si apprestarono, tenendosi a debita distanza, a seguire il banditore.

 Arrivato in piazza dove sostavano numerosi capannelli di persone, il martellante rullo dei tamburi intervallato da prolungati squilli delle lunghe trombe araldiche, animò di nuovo la spianata. Dalle chiese si riversarono per strada i fedeli accorsi al richiamo delle campane per intonare canti e preghiere salvifiche. Ora era il richiamo del banditore a reclamare l’attenzione collettiva e tutti quelli che potevano corsero a sentire le nuove, sperando di sentirne di buone, perché il persistere dell’infernale miasma aveva ridotto le speranze della sua temporanea consistenza.

Quando il flusso degli accorrenti si arrestò, un ultimo squillo di tromba annunciò la lettura del bando. Un silenzio speranzoso scese sulla piazza, la folla guardava con attenzione il banditore che iniziò a parlare con voce poderosa, lentamente in modo che tutti sentissero e comprendessero le decisioni del conte.

 UDITE, UDITE, UDITE

Il duca di Leuternia, principe Teo I Patruno,

giudice supremo di questo feudo e tenutario per conto di nostro Signore Gesù Cristo, della potestà di comando su tutta la terra, sugli animali e sugli uomini di codesto feudo, per sé e per la sua discendenza, a seguito della pestilenziale fuoriuscita di ignote sostanze che appestano l’aria e il mare dalle viscere della grotta sottostante la principesca magione, delle quali non è stato possibile individuare la consistenza né la provenienza; assistito dal conforto e dal giudizio di nostra Santa Madre Chiesa,  

DICHIARA

che l’inconoscibile fenomeno è da ritenere opera del diavolo introdottosi tra di noi perché il nostro popolo ha tramato contro il suo principe ed ha sfidato l’ordine costituito riconosciuto dalla religione. Per tali motivi, essendo pericoloso il contatto con le acque fangose fuoriuscite dalla gotta,

SOLENNEMENTE EMANA IL SEGUENTE EDITTO

·       È fatto divieto a chiunque di andare per mare nei pressi di detta grotta.

·       È obbligatorio, a chiunque va per mare, di tenersi al di fuori dello specchio d’acqua che si estende dalla punta della Mastefina fino all’imboccatura del porto peschereccio e per una distanza dalla costa, lungo detto tratto, di almeno 200 pertiche.

·       Nelle acque sopra indicate è vietata la pesca, compresa quella praticata nelle piscarie intrastanti.

·       I trasgressori degli obblighi e dei divieti menzionati saranno sottoposti alla pena della fustigazione nella pubblica piazza e al pagamento di tornesi 2 di ammenda.

·       I trasgressori recidivi saranno gravati, per sopraggiunta, di settimane due di detenzione.

·       Il pesce pescato nelle acque vietate sarà requisito e immediatamente distrutto dalle guardie sequestranti.

 La lettura dell’editto fu ascoltata in religioso silenzio dai cittadini di Leuternia, molti fecero il segno della croce quando il banditore nominò il diavolo, rimarcandone il nome tra due pause inserite per aumentarne l’effetto, con un tono più alto; altri lanciarono sguardi furiosi verso il banditore e al termine della lettura tutti rumoreggiarono ostili nei confronti del duca e del suo inutile bando.

«Quale obiettivo vuole raggiungere il conte?» si chiedevano in tanti. «Che cosa vuole nascondere?»

Queste domande si diffusero con rapidità di bocca in bocca; ad esse seguì una risposta:

«La polla d’acqua fetida è alimentata dal sangue e dai corpi in decomposizione dei cittadini imprigionati nelle segrete del castello».

Per aver tentato, aggiunge il traduttore, di cacciare il principe dal feudo perché, insieme ai tanti che erano scampati all’eccidio e all’arresto, consideravano insopportabili le angherie e le misere condizioni di vita imposte dalla sua cupidigia. La risposta, era sbagliata ma non era lontana dal vero, seppure per motivi del tutto diversi, e per tali motivi animò di sdegno molta parte del popolo desideroso di gridare la verità in faccia al principe. Non potendolo fare si sollevarono grida di salvazione e invocazioni a san Rocco, protettore dal flagello della pestilenza, venerato e festeggiato anche in città per il suo intervento taumaturgico in occasione dell’epidemia di peste d’inizio secolo, la cui statua era custodita nella chiesa matrice.

Ci fu un afflusso di popolo verso la chiesa con l’intenzione di portare san Rocco in processione per le vie della città e per mare, ma grande fu la costernazione della folla quando giunti a destinazione constatarono che le porte erano state chiuse. Era stato un ordine del conte per il tramite di un’imbasciata del suo cappellano a farle chiudere. La folla non desistette. Dopo molti tentativi, per evitare lo scardinamento di qualche ingresso e acquietare la determinata rabbia della folla, il prevosto diede l’autorizzazione accompagnata dalla sua benedizione e incaricò un canonico della collegiata di dirigere le preghiere e il cerimoniale della processione.

La processione per le vie cittadine e le soste sul lungomare al cospetto della fonte lutulenta non furono solo l’esercizio di un rito religioso, furono anche, o soprattutto, una manifestazione di dissenso verso il potere comitale, a favore dei cittadini arrestati e del ripristino degli usi civici e dei diritti di autogoverno delle Universitas civium[1] usurpati dal potere signorile. Dal centro dell’impressionante aggregato umano al seguito della statua, tra una preghiera e l’altra, tra un’invocazione e l’altra, si udivano assordanti richieste del tipo: «Via i Patruno da Leuternia», «Liberiamo Leuternia dalla tirannia dei conti Patruno»; fino alla più determinata e cruenta: «A morte Teo Patruno», sempre seguite da entusiastiche grida di approvazione. La processione si spinse fin sotto le mura del castello e fu lì che la protesta si fece più assordante e continua.

C’era nel popolo di Leuternia, in città e nei casali, nelle masserie e nei piccoli villaggi rurali, un sincero sentimento di libertà che non era ancora riuscito a trovare il suo sbocco, ma anelava a liberarsi dal gravoso servaggio a cui era sottoposto dalla cupidigia del principe e della sua corte. La precedente repressione ne aveva frenato lo slancio, decapitato la guida del movimento di protesta, però non tutto era ancora perduto e il fetido evento di quel fatidico giorno avrebbe potuto dargli nuovo slancio e nuovo vigore. Vedremo.

 Dopo aver assistito alla proclamazione dell’editto –  il notaro Rizzo in testa – la delegazione ritornò sui suoi passi fino alle porte del castello. Attese poco in questo secondo frangente, il tempo necessario al conte di comprendere che sarebbe stato più utile ascoltarla che ignorarla e nell’attesa indispettire gli animi loro e dei manifestanti.

L’ingresso nel castello fu guidato da un cerimoniale pomposo. Gli uomini della delegazione furono introdotti nel cortile interno annunciati dallo squillo delle trombe e dal rullio dei tamburi della guardia d’onore del conte al comando del suo aiutante di campo; furono quindi accompagnati – la guardia d’onore che faceva ala al loro passaggio – fino al salone delle udienze dove l’intera corte era schierata, in piedi, lungo le pareti laterali, le dame alternate ai cavalieri e questi e quelle, con gesti che volevano far sembrare eleganti, si coprivano naso e bocca con fazzoletti intrisi di profumo. Il conte se ne stava assiso in trono, attorniato, su scranni meno imponenti, dalla moglie Lucina a destra e dai figli a sinistra. Il ciambellano aveva annunciato ufficialmente la delegazione prima di farla accedere al salone, quindi la introdusse al cospetto del conte. Questi si aspettava l’omaggio con inchini e genuflessioni di sottomissione, invece i dieci popolani se ne rimasero in piedi, il cappello in testa, come d’altronde i cortigiani assiepati lungo le pareti laterali. Teo Patruno constatando che la messinscena non aveva prodotto alcun effetto, ne fu turbato e indispettito ad un tempo, quindi, rivolgendosi alla corte, con un tono di voce che voleva essere autorevole ed affabile, che invece riuscì a tradire tutto il suo disappunto e si rivelò bassamente derisorio, pronunciò queste parole:

«Diletti amici e miei fidati ausiliari, questi buoni uomini del popolo si sono presentati al nostro cospetto per rivolgerci non so quale genere di supplica. È giusto, nel momento del pericolo, appellarsi alla fonte del potere per averne protezione, ma se di questo si tratta, abbiamo già provveduto con il bando proclamato sulla pubblica piazza. Se non si tratta di questo, siamo aperti alle loro richieste, come in ogni altra occasione, nonostante in questi ultimi tempi disordinati abbiamo molti e fondati motivi per dolerci del comportamento irriconoscente del nostro popolo».

Ciò detto tacque, mentre con un plateale gesto della mano invitava la delegazione ad esporre la supplica.

Parlò il notaro, il quale, come i miei lettori sanno, non solo era il più eloquente dell’intera compagnia, soprattutto perché era universalmente riconosciuto, dentro e fuori i confini del feudo, per la sua acclarata esperienza nelle questioni giuridiche.

Il notaro si guardò intorno, abbracciò con uno sguardo panoramico l’intero salone, quindi, rivolto al conte così si espresse:

«Signor conte, due quistioni siamo stati incaricati di suggerire alla sua attenzione. La prima, è vero, è stata oggetto di una fugace osservazione in una sorta di preambolo del bando; però, mi sia consentito di essere franco, la polluzione fetida che fuoriesce dalla grotta vi è catalogata come un fenomeno soprannaturale, apocalittico. Esso è quindi la prima piaga di Leuternia che il Signore ci invia per ravvederci? Ma dov’è il Mosè che agita il bastone per trasformare l’acqua del mare in sangue?  Dov’è il Faraone ostinato che non lascia andare gli ebrei nel deserto per servire il loro Dio? Dove sono i corpi dei bambini uccisi il cui sangue ha imputridito le acque del mare e fatto morire i pesci che lo abitano? Qualcuno ha ipotizzato, con fuorviante immaginazione, che potrebbe essere il sangue dei cittadini rinchiusi nelle segrete di questo palazzo a provocare l’atroce pestilenza».

Un fremito percorse la sala, il conte e i suoi figli si irrigidirono in un ghigno di rabbia repressa, subito colto dagli uomini della delegazione tra i quali serpeggiò un senso di preoccupazione in quanto, di fronte a tanta audacia, la reazione del conte poteva strabordare oltre i limiti del lecito. Non accadde niente e dopo una breve, eloquente pausa, l’oratore continuò la sua perorazione con le seguenti parole:

«Se così non è, come noi pensiamo, perché è lecito ritenere, ce lo insegna la scienza della natura di cui può dare testimonianza il galantuomo qui presente, lo speziale Medardo Greco, che si tratti di un semplice, seppur fastidioso fenomeno naturale di cui si potrebbe dare, recandosi sul posto e analizzandone le acque, ampia e definitiva prova. Se così non è, si diceva, che i cittadini imprigionati siano fatti ritornare in seno alle loro famiglie, perché non si sono macchiati di alcun reato. Essi hanno chiesto, e con questo vengo alla seconda quistione, che siano ripristinati, com’è sancito negli antichi statuti del feudo, gli usi civici e i diritti di autogoverno delle universitas civium, le stesse rivendicazioni che il popolo ha scandito portando in processione la statua di san Rocco. Questo chiede il popolo, signor conte, e per questo si appella alla vostra magnanimità e alla vostra lungimiranza, perché non ci può essere benessere né pace negli Stati in cui il popolo soffre etc. etc.».

Al termine della lunga perorazione, un silenzio carico di tensione calò nella sala affollata, stemperato appena dal crepitio del fuoco acceso nell’ampio camino; durò un tempo lunghissimo, tale fu inteso da tutti i presenti che s’interrogavano sulla reazione del conte, probabilmente non più del tempo di una meditazione invocata dal celebrante durante una messa, interrotto dal conte, a quel punto visibilmente alterato e incerto, che pronunciò parole astiose e minacce verso la stessa delegazione popolare.

«Potrei arrestarvi per oltraggio alla maestà dello Stato – disse – perché le insinuazioni contenute nelle vostre parole sono lesive della mia onorabilità e del mio potere. Conosco ed onoro il principio della sacralità degli ambasciatori, ma guai a chi non onora i legittimi detentori del potere e a chi osa metterne in discussione i comandi».

 Al termine del poco rassicurante eloquio, con sdegno ed evidente noncuranza si riservò di far conoscere le sue determinazioni nelle forme e con i mezzi che avrebbe ritenuto adeguati.



[1] L’Universitas civium o Universitas loci era un ente di autogoverno con poteri decisionali su molte materie d’interesse collettivo, quali: giustizia, tributi, statuti ecc.


 

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