domenica 20 novembre 2022

Leuternia. Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice


Anche il castello, come l’intera città, era in subbuglio. 

Quando i suoi abitanti furono svegliati dal fetore esalato dalla grotta, ebbero l’impressione che ne trasudassero tutte le pareti, che salisse dalle fondamenta e si spargesse all’esterno come il fumo di una carbonaia fuoriesce dal cumulo di terra sotto il quale si compie la lenta combustione della legna.

Presto, prima che i signori si svegliassero, la servitù aveva acceso il fuoco nei camini e collocato torce aromatiche in tutte le stanze onde coprire o almeno attenuare i miasmi nauseabondi di cui tutto sembrava impregnato. Solo a quel punto il gentiluomo di camera del conte si apprestò a svegliarlo per annunciargli la tremenda verità. Lo trovò già sveglio, inconsapevole ma molto adirato per ciò che pensava potesse essere una qualche disfunzione delle cucine o, ancor peggio, un’inopinata recrudescenza della rivolta popolare, già sedata, che avesse combusto intorno al castello, per isolarlo e asfissiarlo, tutto lo sterco del feudo e riversato sulle sue mura carratizze[1] di liquami di fogna per disorientare e annichilire i difensori del maniero. Pensò, il conte, anche ad una terza ipotesi, forse la prima in ordine di gravità: che fosse l’effetto di una qualche stregoneria comandata a suo danno dai fratelli Giganti, suoi alleati nella repressione della rivolta popolare, ma infidi come serpenti e pronti, di questo ne aveva una folle paura, ad ucciderlo a tradimento per conquistare il dominio sul feudo.

Su questa riflessione argomentò a lungo nella sua mente confusa, quel giorno e nei giorni a venire, addivenendo ad una conclusione definitiva alla quale dedicò molte energie e molto tempo per realizzare le condizioni favorevoli a condurla con successo e senza rischi imprevisti.

«No, signore, niente di tutto questo. All’esterno del castello sembra tutto tranquillo, le guardie non hanno notato alcunché di anomalo», lo informò il gentiluomo di camera mentre lo aiutava a vestirsi.

«E allora a cosa è dovuta questa puzza e la tua presenza qui in camera?», ruggì il conte, adirato e ancora più confuso di prima.

«Sembra promanare dagli stessi muri del castello, dalle sue fondamenta…», rispose il gentiluomo senza poter dare ulteriori spiegazioni.

«Comunica al comandante della guarnigione d’inviare un drappello di guardie in ricognizione fuori dal castello per controllare e acquisire informazioni», ordinò il conte che intanto si apprestava ad uscire dalla camera.

Mentre il gentiluomo si adoprava per trasmettere l’ordine, il conte lo raggiunse con un secondo comando:

«Informa anche i miei consiglieri di raggiungermi senza indugio nel gabinetto di governo per assumere le decisioni del caso».

Nelle more dell’attesa, il chiarore appena accennato che annuncia l’alba, quando il buio si attenua ed è possibile intravedere l’ambiente circostante nella tinta uniforme di un tenue, soffuso, tremolante grigio bluastro, rivelò l’origine del problema nel fiume di poltiglia fangosa fuoriuscito dalla grotta.

Quella visione, sempre più nitida col passare del tempo, radicò nella testa del conte il sospetto incrollabile che fosse opera dei suoi nemici.

“Ma come hanno potuto farlo? E con quali mezzi? Utilizzando quali sostanze?”, pensava il conte nella sua ossessione del tradimento, attanagliato dalla paura di essere avvelenato. L’ossessione lo portò a concepire una risposta definitiva, appena abbozzata ma chiara, della quale non fece parola nell’incontro con i consiglieri accorsi a consigliarlo. Voleva, prim’ancora di ordire la tresca, informarne Cocidio e Sofia, i suoi figli prediletti, per averne il consiglio e il conforto tenuti più cari di ogni altro.

Di questo non parlò con i due consiglieri, li mise a parte solo del dubbio primario: che l’emergenza fosse stata causata dai nemici di sempre, raffigurati con sprezzo e un evidente timore nell’abietto popolo di Leuternia e nella spregevole stirpe dei Giganti. I consiglieri, non avendo specifiche informazioni, si arrabattarono a trovare argomenti che ne avvalorassero l’idea, ma quanto a trovare gli antidoti capaci di porvi rimedio era tutt’altra faccenda. In verità, i due pover’uomini, avevano timidamente cercato, nei limiti loro consentiti dal pessimo carattere del conte che non tollerava opinioni contrarie alle sue, di accreditare spiegazioni dettate dalle loro convinzioni più intime.

Il cappellano di corte: «Non può che essere opera del diavolo…», fu zittito con stizza dal conte che esplose senza ritegno in un: «Don Procopio, lasciamo perdere, questa teoria teniamola in serbo per il popolino ignorante…».

Il medico di corte che qualcosa doveva pur saperne, azzardò un: «Deve trattarsi di un fenomeno naturale, di tipo vulcanico…» e si apprestava ad avviare una spiegazione condita di riferimenti storici e scientifici. Fu zittito sgarbatamente anche lui e richiamato al silenzio tombale perché non trapelasse alcunché di siffatta realtà.

Dovete sapere miei pregiati lettori che il conte Teo Patruno era un tipo ignorante, violento, irascibile, crudele e vendicativo. Non vi sembri eccessiva l’ampia sequenza di pessime predisposizioni interiori attribuite al conte Patruno, peraltro non attenuate da altre di segno contrario. Egli s’era macchiato del più orrendo dei delitti, aveva oltraggiato l’intelletto e la ragione del padre con una potente pozione venefica che lo aveva sprofondato in una condizione di totale incoscienza e incapacità. Lo aveva fatto per sete di potere, non per desiderio di giustizia e di umanità, né avrebbe esitato ad uccidere il figlio o la figlia se essi fossero stati d’ostacolo ai suoi progetti e interessi. Nei confronti degli abitanti del feudo nutriva un sentimento d’indifferenza, degradato in disprezzo e odio di fronte alle legittime resistenze, spesso brutalmente represse, a sopportare aggravi di gabelle e di corvè, disconoscimento di diritti feudali secolari e una lunga serie di altri soprusi immotivati e contrari allo jus communis e agli stessi statuti del feudo. E quando non ricorreva alla forza o al sopruso, li irretiva con promesse e blandizie per svilirne la forza d’animo e fiaccarne i propositi. Ma anche su questo avrò modo di ritornare più avanti quando racconterò il seguito di questa giornata indimenticabile.

 Con l’avanzare dell’alba e del turbamento, gli abitanti del castello, pervasi dall’ansia e dalla paura, si assieparono sugli spalti sospesi sul mare. Presto fu chiaro che nessuna minaccia esterna accerchiava il castello: non fuochi né liquami di sorta ne erano causa, che andava cercata nelle viscere stesse del proprio riparo arroccato sull’ardua scogliera. Che fare?

Il conte passeggiava nel cammino di ronda con a lato i due figli e ad essi chiedeva consiglio. Fu Sofia a suggerire il da farsi per averne almeno contezza, una prima certezza da cui partire per procedere oltre con ipotesi e spiegazioni.  

«Padre, ordinate a due servi fedeli, con la consegna del più ferreo riserbo, di scendere giù nella grotta per individuare l’origine del fenomeno», consigliò la figlia sapiente.

Ed il figlio suggerì con velenosa ed astuta perfidia:

«Padre, sarà utile incanalare i sospetti di cotanta sciagura e le paure del popolo, già provato da anni di stenti e frustrato per l’esito della recente rivolta, sui nostri nemici di sempre e al momento alleati: i fratelli Giganti».

Il conte fece immediato tesoro di quegli opportuni suggerimenti. Senza indugio ordinò di chiamare i due servi fedeli e li istruì per recarsi fin nelle profondità del castello e attraverso il cunicolo che portava al livello del mare osservarne lo stato per riferirne a lui solo senza farne parola con altri, né prima né dopo.

I due servi si apprestarono ad assolvere il compito. Raggiunsero i sotterranei, di lì scesero ancora al livello delle segrete dove, dietro una porta di spesso legno di quercia ed una grata di spesso ferro inchiavardata nella roccia, si apriva lo stretto cunicolo nel quale era stata intagliata la scala che, al livello del mare, si affacciava su una sorta di piccola darsena. Qui si celava, in uno stretto cunicolo adiacente, la piccola imbarcazione da utilizzare in caso di precipitose emergenze. Verso l’interno si apriva, infine, uno stretto camminamento, lungo più di cento passi, che conduceva a una seconda camera del diametro di circa otto passi, un’altezza di quattro e una profondità di almeno sei sotto il livello dell’acqua.

Da quel punto in avanti la grotta era percorribile soltanto a guado o a nuoto in condizioni di estrema precarietà, con passaggi che avrebbero richiesto immersioni subacquee e una fonte di luce al tempo non disponibile.

Al centro della volta della seconda caverna si apriva un condotto verticale comunicante, come si seppe alcuni decenni dopo, con il pavimento di una delle segrete sovrastanti. Quale ne sarà stata la funzione? La fantasia e l’acume di chi ne aveva constatato la presenza non tardò a costruire un racconto di sangue e di crudeltà (era solo il frutto di un’immaginazione audace?) che ricalcava il cinico comportamento della regina Giovanna.

Si racconta, infatti, che la suddetta sovrana ogni notte fosse solita copulare instancabilmente con uomini diversi: popolani e nobili, servi e soldati, senza distinzione di ceto, uniti soltanto nell’insaziabile sua lussuria, e che, al termine di ogni sessione, al pari di una mantide religiosa, si liberasse dei suoi occasionali amanti sprofondandoli, per l’apertura di una botola manovrata da un apposito marchingegno, nei sotterranei del palazzo dov’ella consumava il rito sacrificale.

Allo stesso modo, il conte Patruno si dice che liquidasse i suoi oppositori. Diverso ne era solo il motivo. Se a muovere l’impulso omicida della regina Giovanna erano la lussuria e la lascivia, moventi del feudatario di Leuternia erano l’irrefrenabile sete di potere e la paura di perderlo che in ogni critica e opposizione gli faceva ravvisare un pericolo mortale da eliminare.

Rinchiusi nelle segrete del palazzo comitale, logorati dalla fame e dalle torture, gli oppositori del conte finivano irrimediabilmente per passare attraverso la botola, orrido pasto degli oscuri abitatori della caverna marina, sulla cui presenza si tramandavano le allucinate, immaginifiche fantasie sollecitate dai bestiari che ne mostravano le orripilanti sembianze.

Al livello dei sotterranei il fetore esalante dal mare si era fatto più intenso ed era accompagnato da sbuffi di fumo filtrati attraverso la porta chiusa sul cunicolo. I due furono presi da una certa apprensione, tergiversarono prima di continuare e quando si decisero ad aprire la porta l’apprensione si trasformò in sgomento. Dalla bocca del cunicolo uscivano a brevi intervalli soffi di calore e vapori che resero ben presto l’aria quasi irrespirabile e aumentarono la temperatura di molti gradi. Lo sgomento dei servi si trasmutò repentinamente in paura, tanto da indurli a ritornare sui propri passi se non fosse stato per il timore della severa punizione del conte. Si fecero coraggio, coprirono bocca e naso con la camicia per non respirare i vapori venefici esalanti dal fondo della grotta e si avventurarono all’interno del cunicolo, percorsero la scivolosa, ripida scala d’ingresso, perlustrarono con circospezione la grotta a malapena rischiarata dal fuoco della torcia. La piccola darsena era quieta, la barca ormeggiata al suo posto; si notava, come in altre occasioni un flusso d’acqua proveniente dall’interno, l’unica differenza rispetto alle visite precedenti era la limacciosità di quel flusso. Superata la darsena e imboccato il cunicolo che conduceva nella seconda camera, i due esploratori, avvolti in vapori più intensi, avvertirono una specie di ribollio, come quello prodotto dalla calce viva immersa nell’acqua per ottenere, dopo un lungo sobbollimento accompagnato da un violento rilascio di calore, il materiale utilizzabile come legante nella preparazione della malta.

Ai due messi sembrò che da lì nascesse il tristo evento e subito, solerti, ritornarono indietro per riferire la scoperta al conte.

Questi e i suoi figli all’apprendimento della notizia furono posseduti da una profonda inquietudine. Quali ne fossero le ragioni non era dato sapere, per il momento posso solo riferire di un orribile segreto che il conte si porterà nella tomba e anche i suoi figli; un segreto venuto a galla molti decenni dopo, in occasione dei lavori di ristrutturazione del castello, quando il potere del conte era ormai decaduto, sostituito da altri potenti.

Non intendo che l’origine della pestilenziale esalazione fosse da attribuire alla causa supposta dal conte, né che essa coincidesse con la credenza popolare diffusasi nelle settimane immediatamente successive; per chiarire il mistero sarebbe stato sufficiente far visitare la grotta a qualche alchimista o anche a un letterato residenti nel feudo o in quelli vicini per averne conferma. Non fu fatto, e neanche le voci isolate che sommessamente predicavano il vero furono ascoltate, sopravanzate dall’interessata verità propinata dal conte e da quella altrettanto improbabile costruita dalla fantasia popolare.

 Il conte e i suoi figli, seppure turbati, non lasciarono trapelare alcunché e subito si misero all’opera per trovare un capro espiatorio e rassicurare le inquietudini del popolo, convinto che fosse il castigo divino ad aver originato la nuova pestilenza.

«Ci sono tre opzioni possibili per spiegare il fenomeno di fronte al popolo», esordì Cocidio quando i tre, rimasti soli, si furono ritirati nel gabinetto del conte.

«Escluderei quella naturale, non ci sarebbe di nessun aiuto», chiarì subito, senza mezzi termini, Sofia.

«Quali sono, dunque, le altre due?», chiese il conte.

«La prima, quella che privilegio, consiglia di attribuirne la colpa alla famiglia Giganti», annunciò Cocidio, impulsivo e irriflessivo.

«Però non possiamo annunciarlo, pena l’immediata riapertura delle ostilità. Sarebbe pericoloso e sconveniente», aggiunse Sofia, di gran lunga più saggia e controllata del fratello, che sapeva guardare lontano e prevedere con buona esattezza i pro e i contro di una scelta.

«Quindi rimane la terza?», chiese ancora il conte.

«Non è detto», continuò Sofia e si apprestò a chiarire in termini ampi e completi la sua strategia complessiva.

Essa si articolava in due fasi: la prima, per prendere tempo, prevedeva l’emanazione di un editto per dichiarare lo stato di pericolo e assecondare quella che pensava sarebbe stata la versione popolare del misterioso evento. 

Mi appresto a chiarire, per evitare inutili equivoci, che, nonostante le previsioni della famiglia comitale, la maggioranza del popolo non l’accettò nella versione divulgata dall’editto; essa, pur attribuendola all’opera del demonio, l’arricchì di una premessa in continuità con le vicende della rivolta anti signorile di cui ho già accennato. Di tale versione per il momento non aggiungerò altro; essa sarà ripresa più avanti, quando sarà stata annunciata la versione del conte e proclamati gli editti attualmente allo studio.

La seconda fase elaborata dalla mente strategica di Sofia si rivelò più rischiosa e incerta della prima, ma costituiva anche l’occasione insperata che avrebbe risolto la contesa con i fratelli Giganti, eliminandone definitivamente anche la stirpe.

La riunione di famiglia si concluse con l’accordo sulla strategia pensata dalla giovane rampolla che insieme al fratello fu incaricata dal padre di elaborare il piano segreto per raggiungere l’obiettivo nel più breve tempo possibile.



[1] La “carratizza” era una botticella sistemata su un carretto, utilizzata per la raccolta dei liquami contenuti nei pitali.


 


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