Medardo Greco si era svegliato ancor prima dell’alba, infastidito dal tanfo pungente che aveva conquistato la città. Egli non era solito svegliarsi a quell’ora, né si sarebbe levato dal letto prima che la servitù avesse provveduto ad accendere il fuoco nel camino e a dislocare i bracieri
nelle stanze, onde smorzare il freddo umido dell’inverno. Per la bisogna si coprì col lungo tabarro e s’apprestò a chiamare la servitù per avere contezza di quel ripugnante fetore. La prima supposizione lo portò ad attribuirlo a un corpo in decomposizione abbandonato in qualche anfratto della casa. Pensò a un’impresa gattesca e lì per lì maledisse la bestia dispettosa, poi si ricredette pensando al grande servigio della sua presenza che teneva indenne la casa dai topi e da altri animali, e allora tornò a benedirla. Sentendolo girare per casa il gatto gli si avvicinò. Era inquieto, miagolava in un modo strano, si appiattiva per terra come volesse balzare addosso a qualcosa che Medardo non riusciva a vedere. Se non fosse stato l’uomo scettico e razionale che era, avrebbe potuto pensare a qualche entità misteriosa o al diavolo stesso, dacché la puzza che inondava la casa era puzza di zolfo. Fosse stato il diavolo, anche a voler pensare che si fosse preso la briga di visitare proprio la sua casa, e non ne aveva motivo, si sarebbe in qualche modo palesato con un’allettante proposta finalizzata ad acquistarne l’anima, avrebbe dato segni inconfondibili di sé, come si vocifera sia accaduto a un tale Otello De Bellis, carrettiere.
L’uomo, a causa di disavventure di cui non si capacitava, che lo avevano mandato in rovina e ne avevano minato finanche la salute, si lamentava di continuo della sua condizione, bestemmiava Dio incolpandolo delle sue disgrazie e arrivò perfino a dire che per risollevarsi era disposto a vendere l’anima al diavolo. Presto fatto: l’immondo signore degli inferi non si fece pregare due volte e in qualche modo gli si palesò. Nessuno seppe come, però fu casualmente visto, in una notte di novilunio, buia e tempestosa, seduto in mezzo ad un quadrivio in aperta campagna, gesticolante e sussurrante parole incomprensibili. Sembrava a colloquio con qualcuno, o forse era solo ubriaco o fuor di senno. Chi lo vide n’ebbe paura, lo credette posseduto da qualche spirito maligno e se ne allontanò in tutta fretta dopo essersi segnato per stornare da sé l’eventuale minaccia ultraterrena. Qualche tempo dopo, il carrettiere, tornato in salute, si trasferì in un’altra città dove condusse un’allegra vita di agi disponendo di ingenti risorse di cui nessuno osò domandargli la provenienza.
Per Medardo non ci furono segni di sorta. O forse era quello il segno di un possibile approccio? Ad ogni buon conto, come fa ogni buon cristiano in presenza dell’idea del diavolo, Medardo si segnò, fece tre volte il segno della croce e sottovoce ingiunse:
«Vade retro satana / Nunquam suade mihi vana / Sunt mala quae libas / Ipse venena bibas»
(retrocedi, Satana, non tentare mai di persuadermi, sono cose vane, le cose che offri sono cattive, bevi tu stesso i veleni)[1].
La puzza non andò via. Segno che non era opera di Satana, pensò. “Allora sarà opera dell’uomo”, si disse, considerato che non credeva neanche ad un’altra delle entità misteriose raccontate dalla tradizione locale: lo scazzamurreddhru, il folletto dispettoso che si installa in una casa e ne tormenta gli abitanti, uomini e animali, con scherzi di ogni tipo, di cui molti a Leuternia dicono di averne avuto diretta esperienza (non lui); ma in alcuni casi li ricompensa per l’ospitalità con doni e acchiature[2] che ne impinguano il patrimonio.
“Se è opera di uomini in carne e ossa ci sarà qualche segno tangibile”, aggiunse sempre tra sé e sé, e con buona lena si mise alla ricerca di qualche traccia.
«Medardo, cos’è questa puzza?», lo interrogò sua moglie con la voce strascicata di chi è ancora incerta tra il sonno e il risveglio. «Dormi, forse viene da fuori, ora esco con un servo ad accertarmene».
Uscì di casa con circospezione e appena fuori fu sopraffatto da un’ondata di aria malsana ancora più penetrante di quella filtrata all’interno. Il buio era intenso, appena rischiarato dalla tremolante luce delle stelle del freddo cielo invernale.
“Cos’è quest’immondo fetore?”, tornò a chiedersi.
Nella piazzetta prospiciente l’abitazione c’era fermento. Ombre inquiete si muovevano nell’oscurità ancora compatta.
Considerò che non era salutare aggirarsi per le strade di notte, mentre un fremito freddo gli saliva lungo la schiena: un’ombra sembrava dirigersi verso di lui. Chi era? Aveva deciso di rientrare in casa, quando l’ombra in arrivo parlò:
«Mastro Medardo, sentite anche voi quel ch’io sento? Sembra che siano state aperte le sentine dell’inferno!»
Riconobbe la voce e ne fu subito rassicurato. Era un suo buon vicino di casa, di nome Francesco, un esperto velaio che aveva bottega nei pressi del porto; con esso scambiò qualche impressione prima di rientrare in casa per rassicurare la moglie.
Elvira aspettava in cucina, aveva fatto bruciare qualche grano d’incenso per purificare l’ambiente. Stretta nel suo scialle invernale aveva comandato a una serva di accendere il fuoco per scaldare la stanza e con il suo potere disinfestante scacciare le ombre e gli spiriti maligni presenti.
«Hai scoperto qualcosa?» chiese al marito appena questi richiuse la porta.
«Fuori è ancora più intenso, nella contrada sono tutti tormentati dallo stesso problema. Non appena ci sarà un po’ di chiaro con Francesco Grimaldi e gli altri pensiamo di andare in piazza castello per raccogliere qualche informazione».
Il sole non era ancora spuntato dietro le montagne innevate dell’Albania, di là
dal mare Adriatico che fronteggia Leuternia, quando gli uomini cominciarono a
scendere verso il castello. Il tragitto era breve, meno di quattrocento passi[3] in leggera
discesa lungo il pendio della serra che digrada ondeggiando verso il mare.
«In vita mia non ho mai visto nulla del genere», disse Francesco affiancandosi a Medardo.
«Neanch’io ne vidi, ma vi sono di quelli che l’hanno visto e pure ne hanno scritto, e dicono che sia cosa dell’Inferno. Sta verso Cuma ed esala fetori che sanno di zolfo, proprio come questo che noi sentiamo adesso. Gli antichi sostenevano che l’atra spelonca da cui fuoriusciva quella peste era la porta dell’Averno», rispose Medardo.
«È vero, i frati del convento dicono che l’odore di zolfo accompagna il diavolo, ma in questo caso sul feudo di Leuternia è sceso un intero esercito infernale…».
«Forse il conte ha venduto l’anima a Satana per risolvere una volta per tutte le sue questioni con la stirpe dei Giganti che lo insidia», concluse Medardo con una battuta faceta.
I quattrocento passi, chiacchierando con questo e con quello, erano stati percorsi quasi del tutto e già s’intravedeva lo spiazzo antistante il castello e l’ampio balcone che si affaccia sul mare. Sul lato opposto della piazza era ubicata l’ampia bottega dove Medardo Greco esercitava la sua attività di speziale e preparava medicinali, cosmetici e profumi, unguenti, pozioni, impiastri, pillole, inchiostri, impiegando erbe officinali, spezie, galle e minerali di vario tipo. Entrando in piazza vi rivolse uno sguardo e pensò che forse quel giorno avrebbe trascurato il lavoro.
Lungo il tragitto avevano incontrato un’animazione insolita per quell’ora antelucana, gruppi di persone diretti verso la stessa meta disputavano animatamente sull’origine della perdurante cappa solforosa, infine fermarono il loro passo a poche decine di pertiche[4] dalle mura di ponente del castello eretto su una solida base di roccia granitica che ne rendeva difficile l’accesso. Sulle terrazze che guardavano a mare s’intravedeva un certo movimento, gente che andava avanti e indietro, indaffarata o forse preoccupata; la loro attenzione era attirata spasmodicamente dall’imboccatura della grotta sottostante e fu lì che anche loro, come tutti gli astanti, rivolsero il loro sguardo.
«Sembra davvero la porta di servizio dell’Inferno», disse Francesco mentre osservava con intensa meraviglia l’inatteso spettacolo.
«Eppure non può essere un fatto soprannaturale, ci dev’essere una spiegazione ed essa risiede di certo nel castello», aggiunse Medardo indicandolo, mentre sopraggiungeva Giovanni Rizzo, un eminente cittadino di Leuternia.
Giovanni Rizzo era un apprezzato notaro, conosciuto in Leuternia e nei feudi limitrofi per la ragguardevole cultura affinata in anni di apprendistato presso lo studio dell’abbazia di San Nicola a Casole, uno dei centri culturali tra i più importanti d’Europa e del mondo bizantino. Egli nel periferico e decaduto feudo di Leuternia, a causa della complessa e precaria situazione politica, aveva scarse occasioni di esercitare con profitto e soddisfazione la professione ed era ridotto a barcamenarsi tra la meccanica arte dello scritturale, soprattutto per conto di mercanti e piccoli proprietari, o prestandosi come paciere nelle piccole beghe di paese e nei rapporti tra piccoli proprietari terrieri, mezzadri, coloni e braccianti. Il signor notaro pertanto disponeva di molto tempo libero che impiegava profittevolmente nello studio dei classici greci e latini, oltre a dilettarsi nella composizione di opere in versi e in prosa da rappresentare in occasione delle festività religiose e popolari.
«Sarà l’effetto di qualche esperimento alchemico condotto nei sotterranei del castello».
Il notaro si presentò così, in modo scanzonato, al cospetto della compagnia di Medardo. E aggiunse, rivolto allo speziale:
«Tu dovresti saperne qualcosa visto che sei uso a trafficare con polveri e acidi».
«Gli alchimisti del conte Patruno avranno esagerato con lo zolfo e risparmiato sul mercurio sofico[5]», rispose lo speziale, con i medesimi accenti arguti dell’amico.
«Sarà per via della filosofia che non è molto praticata a palazzo».
«Lì si disputa con il ferro».
«O con i veleni», concluse il notaro, che intanto aveva preso a braccetto Medardo e si era allontanato dal resto della compagnia perché sollecitato da un’altra urgenza.
Arrivati a questo punto è utile sapere che lo Stato di Leuternia nei precedenti due anni, oltre alla contesa dinastica di cui ho accennato nel primo capitolo, fu anche sconvolto da una serie di tumulti popolari sfociati in un temerario tentativo di istituire un regime popolare di autogoverno sotto la protezione e la guida dell’abbazia di San Nicola a Casole che già disponeva di numerose terre e di casali[6] in tutto il feudo e in altri territori confinanti.
A favore del tentativo autonomistico si era schierato l’intero ceto mercantile e delle professioni, stremato, come i contadini e i braccianti, dalla politica fiscale vessatoria del conte, della sua famiglia e dei suoi gabellieri, la cui avidità aveva ridotto in rovina numerose attività in altri tempi più floride e redditizie.
Il notaro Rizzo e Medardo Greco si erano adoperati per il buon esito dell’iniziativa. Il notaro interponendo i suoi buoni uffici per postulare l’interesse dei monaci di Casole e garantire adeguate e sollecite pressioni presso la corte napoletana; il Greco assicurandole, nei locali della sua spezieria, centrali e frequentatissimi, un efficiente e rapido servizio informativo, ramificato su tutto il territorio della contea ed esteso ben oltre i suoi confini, in maniera da mantenere frequenti e aggiornati contatti con i rappresentanti dei numerosi casali disseminati sull’ampio territorio.
Anima della cospirazione e suo capo riconosciuto era stato Damiano Polifemo, mio padre veneratissimo, a cui questo lavoro è dedicato. Di esso, della sua vita e dei miei ricordi che lo riguardano parlerò più tardi, per ora ritorniamo a seguire i due cospiratori, amici fraterni di Damiano che a braccetto si erano staccati dalla compagnia per scambiarsi impressioni e informazioni su di lui e sulla china accidentata imboccata dagli eventi.
«Hai avuto notizie di Damiano?» chiese il notaro appena furono sufficientemente lontani da orecchie indiscrete.
«Da quando lui e Ignazio sono stati catturati se ne sono perse le tracce. Occhi amici sembra che li abbiano visti tradurre di notte all’interno del castello».
«Però era notte, e di notte tutti i gatti sono neri. Se riuscissimo ad avere notizie certe, potremmo organizzare una sortita per liberarli».
«Pensi che sia ancora possibile?»
«Se lo è stato in passato potrebbe esserlo anche adesso».
«In quella fausta occasione abbiamo inaspettatamente beneficiato della presenza di Alcide all’interno del castello, e soprattutto del suo legame fraterno con Ignazio. Oggi le condizioni non sono così favorevoli».
«Alcide è ancora libero e fino a quando lo sarà c’è ancora un barlume di speranza».
Il notaro era fiducioso, o almeno così voleva apparire e cercava di convincere l’amico che ci fossero ancora reali possibilità di ravvivare la protesta popolare e costringere il conte alla fuga.
Lo speziale era scoraggiato ed espresse i suoi dubbi senza mascherare la sfiducia che lo aveva pervaso dopo il successo della repressione signorile. Sottovoce e a testa bassa, quasi per rappresentare plasticamente l’essenza della sua convinzione, disse: «Quali spiragli possono ancora aprirsi se il patto scellerato tra il Conte e i suoi feroci antagonisti, i fratelli Giganti, ha rafforzato il potere comitale?»
«Su, animo, caro amico», si affrettò ad argomentare il notaro, «Sono certo che il patto non reggerà a lungo. I rancorosi contrasti tra i due rami della dinastia sono troppo profondi, li spingerà alla resa dei conti e alla comune rovina».
«Credi che continueranno a litigare?», chiese Medardo.
«Ne sono certo. Anzi, a proposito: Alcino e Porfirio Giganti
sono sempre acquartierati nei feudi loro assegnati?».
«In verità, dopo la cattura di Damiano non abbiamo più avuto notizie. Credo di sì. Se sono partiti non so, ma credo che abbiano tutto l’interesse a consolidare la loro posizione in loco».
Mentre i due continuavano a scambiarsi opinioni sul come e sul quando degli sviluppi dell’intricata vicenda dinastica e delle residue possibilità d’interferire con essa, li avvicinò Francesco Grimaldi per informali che tra la folla in preoccupata attesa circolava la proposta d’inviare una delegazione al castello in cerca di informazioni e di rassicurazioni.
La folla degli increduli cittadini era intanto aumentata a dismisura e già si sentivano le invocazioni e gli scongiuri, le preghiere e le imprecazioni per esorcizzare il pericolo che ognuno vedeva fuoriuscire dalle viscere del castello. Il sentire della folla lì accorsa si divideva in due contrapposte correnti di opinione, ambedue rivolgevano il loro sguardo al castello: l’una per invocarne protezione, l’altra per imputarne la responsabilità; ambedue premevano per salire al castello.
La delegazione, di cui facevano parte Medardo Greco e Giovanni Rizzo insieme ad altri dieci tra i maggiorenti della città, fu spinta quasi di peso sulla ripida erta, ma arrivati alla meta trovarono chiuso il pesante portone d’ingresso e un minaccioso spiegamento di uomini in armi che ne impedivano persino l’accostamento.
[5] Lo zolfo e il mercurio, insieme a sale,
polvere di ferro e di rame, sono alcuni degli ingredienti usati dagli
alchimisti per ottenere la famosa pietra filosofale.
[6] Il casale salentino (di origine medievale)
tende a configurarsi come un piccolo villaggio rurale aperto. Può contare fino
a 100 o più fuochi (famiglie) ed è quasi sempre dotato di servizi collettivi
quali chiesa, botteghe artigiane e commerciali e, in alcuni casi, anche di una
torre di avvistamento.
[5] Lo zolfo e il mercurio, insieme a sale, polvere di ferro e di rame, sono alcuni degli ingredienti usati dagli alchimisti per ottenere la famosa pietra filosofale.
[6] Il casale salentino (di origine medievale) tende a configurarsi come un piccolo villaggio rurale aperto. Può contare fino a 100 o più fuochi (famiglie) ed è quasi sempre dotato di servizi collettivi quali chiesa, botteghe artigiane e commerciali e, in alcuni casi, anche di una torre di avvistamento.
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