giovedì 10 novembre 2022

 Leuternia

Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

 Capitolo terzo

Me chiamu Cisariu e su l’unicu fiju masculu de Damianu Polifemu ca, nu certu pe’ sua propria voluntate ma percè lu tinia strittu u desiteriu de la veritate et de la justitia, cappau a mmienzu a fatti cchiù cranni de iddhru e cumplicati de ‘ncommitare.

All’epoca dei fatti ero un ragazzino di appena sette anni. Da quel giorno molte burrasche hanno sferzato le scogliere di Leuternia e molte disgrazie hanno prostrato la sua popolazione. Io intanto sono diventato un uomo maturo, ho trascorso molti anni lontano dal luogo in cui sono nato e forse, ma non ne sono del tutto certo, ho maturato quel distacco necessario a intraprendere la ricostruzione di questa triste vicenda che mi ha cambiato la vita. 

Il mio nome è Cisario, sono l’unico figlio maschio di Damiano Polifemo il quale, non per sua volontà, ma perché posseduto dal demone della verità e della giustizia, fu al centro di eventi ben superiori alle sue forze e alle sue capacità di controllo e influenza.

Damiano Polifemo era, dunque, mio padre veneratissimo.

Non sono sicuro di aver coltivato questo sentimento fin dalla più tenera età, oppure se furono il tempo successivo e l’evolversi degli eventi a ispirarlo, rendendomi il padre così caro e venerato. Di una cosa però sono certo: che il ruolo da lui avuto in questa storia lo ha reso, ai miei occhi e a quelli dei nostri contemporanei, degno degli onori che gli sono stati tributati, seppure postumi, per i servigi resi alla dignità e alla libertà del popolo di Leuternia e, non vi sembri eccesso d’ardore di un figlio compiaciuto, dell’umanità tutta.

Il nome di famiglia che portiamo indica un uomo molto conosciuto, uno che parla volentieri, che con la parola fa conoscere le sue idee. Per nostra somma disgrazia i più lo identificano con il ciclope monocolo descritto da Omero nell’Odissea, così astutamente beffato da Ulisse, o al più, in termini alquanto caricaturali, come un gran chiacchierone. Mio padre rispondeva degnamente alla prima interpretazione, era un uomo che parlava alla gente, ed era convincente. Non parlava di cose futili, però, e sapeva anche tacere e soprattutto sapeva ascoltare le ragioni e le idee degli altri, qualità non comuni che gli garantivano la stima e la fiducia di molte persone. Non di tutte, perché egli era nemico giurato dei farisei, delle persone vacue e immorali che non tengono in alcuna considerazione il bene collettivo, né il rispetto degli uomini e delle cose.

Ad onta del nome non era un uomo di statura imponente. Era alto meno di cinque piedi[1], però di robusta complessione e ben eretto nel portamento che lo differenziava dalla moltitudine ingobbita dalle ristrettezze e dall’assuefazione al giogo della servitù. Egli era uno spirito libero, ma di questa sua specifica qualità avrò modo di parlarne con dovizia di accenti più in là, quando la vicenda narrata si sarà definita nei suoi aspetti salienti.

Il prenome lo appella Damiano e mai fu altrettanto appropriato come nel suo caso. Egli è stato un “uomo del popolo” di nome e di fatto: se a ragione delle modeste origini può essere incluso nella categoria dei popolani, la sua vita e le scelte compiute lo hanno elevato al rango più nobile che a tale espressione si è soliti attribuire, cioè il riconoscimento di essere stato un uomo che ha agito nell’interesse del popolo, che si è battuto con tutte le sue forze per il bene della sua gente contro le vessazioni della nobiltà e dei governanti.

E in fondo la storia raccontata in questa “Cronica” proprio di ciò parla, della lotta di un popolo tiranneggiato e oppresso dalla superbia e dall’avidità dei suoi illegittimi governanti.

Ma prima di tornare a seguire il corso degli eventi di quella fatidica giornata, mi sia concesso di ricordare ciò che fu l’inizio di essa per me, ed il modo avventuroso con cui mi accostai a quella tragedia che per la mia famiglia fu l’inizio di un esilio durato molti lustri, vissuto nel ricordo di un padre conosciuto nel racconto amorevole e nel tenero rimpianto di una sposa ancora giovane che avrebbe meritato di vivere una vita piena al fianco del suo amato.

 Quel giorno, come mia madre e le mie sorelle, ero stato svegliato all’alba dal trambusto proveniente dalla strada e dall’immondo puzzo esalato dalla grotta. Mio padre non c’era, era in viaggio per compiere un’importante missione presso l’abbazia di Grottaferrata per conto del monaco “cartofilace” responsabile della ricchissima biblioteca di Casole. Questa fu la pietosa bugia raccontata da mia madre a me e alle mie due sorelle per occultare una realtà ben più triste e pericolosa. 

Ben presto in casa insieme alla puzza e al trambusto filtrò l’eclatante notizia del giorno portata dalle vicine di casa e dalla servitù intimorita dalle misteriose cause del fenomeno. Per me fu un irresistibile motivo d’attrazione e non mi sottrassi al desiderio di unirmi agli altri ragazzi che come me smaniavano (ne ero sicuro) dalla voglia di correre per strada e andare alla scoperta di quell’ignoto arcano. Mia madre mi aveva vietato di uscire di casa e aveva raccomandato alla servitù di sorvegliarmi. Ubbidiente la rassicurai e finsi di dedicarmi al mio passatempo preferito, tra scherzi e domande impertinenti alle donne di casa che stazionavano in cucina. In realtà pensavo a ben altro e non mi fu difficile sottrarmi alla vigilanza domestica, molto lasca per la verità nell’agitazione del momento.

Per strada incontrai subito il mio amico Delio e con esso, lungo un percorso poco frequentato, ci dirigemmo verso il lungomare. Le precauzioni per non essere scoperti e riportati a casa si rivelarono ben presto del tutto inutili. L’intera città era in fermento, capannelli di persone si formavano a ogni crocicchio, discutevano, si scambiavano impressioni e informazioni, pregavano o imprecavano o si lamentavano per la malasorte che prima li aveva esposti ai rischi della peste, poi ai pericoli della contesa dinastica, infine a una nuova pestilenza di origine ignota.

Il veloce affresco appena abbozzato non corrisponde alle impressioni raccolte dalla mente eccitata di due ragazzini quali eravamo io e Delio, a cui per strada se n’era aggiunto un terzo di nome Ilario di un anno più grande di noi: erano le impressioni che mi furono riportate molti anni dopo da chi ne era stato attore e testimone adulto e cosciente. Noi raccoglievamo sensazioni del tutto differenti. Ciò che osservavamo lungo il percorso della nostra disubbidienza era eccitante, ci dava la sensazione di partecipare a una festa, a un carnevale senza maschere e senza saltimbanchi, a una fiera senza bancarelle, ma eravamo certi che qualcosa avremmo trovato nella piazza del castello, forse i preparativi di una giostra cavalleresca.

 Ciò che trovammo in piazza fu una folla di persone disorientate, ammassate sul lungomare, in stupita contemplazione della scia biancastra ondeggiante sulla superficie del mare. La giostra cavalleresca non c’era (pensai che non ci fosse solo perché i tornei si giocavano nel pomeriggio) e si sgonfiò anche la nostra eccitazione.

«Avete visto? La puzza esce da lì, è quella sostanza grassa che galleggia sul mare», disse Ilario che era riuscito a intrufolarsi tra i corpi addossati al parapetto del lungomare.

Io e Delio, schermati dalla muraglia di folla non riuscivamo a vedere un bel niente. Fummo costretti ad allontanarci.

«Andiamo all’altro capo della piazza», gridai verso Ilario, convinto che lì ci sarebbe stata più calma ed avremmo potuto godere di una vista più panoramica.

All’estremità occidentale della piazza la linea di costa fa una svolta ad angolo retto, punta verso sud per una lunghezza di oltre cento passi, poi ritorna ad allungarsi a ovest degradando in direzione del porto. Ci fermammo nel tratto che guardava il castello. Avevamo guadagnato una vista eccellente sulla bocca della grotta e potemmo osservare quel magico spettacolo con la meraviglia gioiosa dei ragazzi ignari che eravamo.

A differenza degli adulti che paventavano il peggio e lo consideravano un castigo di Dio, a noi ragazzi la stranezza di quella scoperta non metteva paura, né ci interrogava sulle cause e sugli effetti; ci incuriosiva, questo era il nostro stato d’animo prevalente, e nella naturale incoscienza dell’età ci spingeva a fantasticare, a progettare improbabili sortite di esplorazione della grotta.

Il primo a parlare fu ancora Ilario che nel seguirci aveva arruolato un bel numero di altri ragazzi.

«Nella grotta c’è un enorme drago che vomita fuoco e veleni». Forse lo disse per spaventare i ragazzi più piccoli. Un po’ m’impressionò, ma non volli darlo a vedere; sorrisi sarcastico e feci un’osservazione impertinente. Mi fu utile l’allenamento quotidiano con le donne di casa, importunate con domande di ogni genere per soddisfare la mia curiosità inesausta. Dissi: «Come può un drago entrare nella grotta se l’apertura è così stretta?».

Ilario non rispose subito, mentre gli altri ragazzi, rincuorati, mi davano ragione. Dopo un po’ si riprese: 

«È un drago marino, no!», chiarì, alfine, assumendo l’atteggiamento presuntuoso di chi la sa più lunga degli altri.

«Io non ci credo, e non credo neanche ai draghi». Parlò così un ragazzo che non conoscevo, si chiamava Matteo, aveva la stessa età di Ilario ma era più alto e robusto e sembrava, con la sua uscita, di volerci mettere alla prova.

A quel punto si aprì una discussione teologica, perché qualcuno portò come prova dell’esistenza dei draghi i dipinti custoditi in alcune chiese dove erano rappresentati angeli e cavalieri nell’atto di uccidere mostruose figure alate che eruttavano fuoco e fumo dalle enormi narici e dalla bocca vomitavano liquidi verdastri o giallastri puzzolenti come quella poltiglia galleggiante sul nostro mare all’imboccatura della grotta. Molti avevano visto quelle immagini spaventose che ci avevano fatto fare brutti sogni. Ne avevo viste anch’io, ma non ero così sicuro che fossero rappresentazioni realistiche. Me lo aveva spiegato mio padre ed io gli credevo, anche se non ci avevo capito granché e continuavano a farmi ugualmente paura. Nell’incertezza non dissi niente, né a favore né contro. Chi, invece, sicuro di sé continuò a negare l’esistenza dei draghi fu Matteo.

«Allora da che cosa dipende questo fenomeno così puzzolente?», lo apostrofò con veemenza Ilario.

«Questo non posso saperlo, però se avete coraggio potete seguirmi per andare a scoprirlo», disse Matteo.

Tra le fila della nostra brigata serpeggiò un fremito d’incertezza, alcuni si ritirarono accampando scuse di vario tipo, gli altri, tra i quali io, Delio e Ilario, decisero di accettare la sfida.

 Arrivare all’imboccatura della grotta non era impresa facile, accedervi era cosa del tutto impossibile, anche se allora non ne avevamo contezza. L’ingresso della grotta, simmetricamente sottostante alle fondamenta del castello che la sovrastava, era chiuso da una grata di ferro a maglie tanto strette da impedirne l’attraversamento da parte di un uomo. Essa si ergeva per tutta l’altezza dell’imboccatura, ne seguiva i contorni e sprofondava nell’acqua fino a raggiungere il basso fondale, non più profondo di quattro, cinque braccia[2]. I pesci ci potevano passare, ma per un drago, alato o meno, sarebbe stato oltremodo difficoltoso.

I conti di Leuternia, ma questo lo appresi più tardi, avevano ostruito l’ingresso per impedirne l’accesso a nemici e sicari, giacché dalla grotta, attraverso un cunicolo scavato nella roccia granitica, era possibile raggiungere i sotterranei del castello e risalire in superficie per cogliere di sorpresa gli abitanti e arrecare loro qualsiasi tipo di offesa o di danno. La grata poteva, in ogni caso, essere aperta da un congegno manovrabile dall’interno onde garantire un’agevole via di fuga ai residenti in caso di irruzioni proditorie per via di terra. Una piccola imbarcazione ormeggiata all’interno della grotta ne avrebbe quindi favorito il trasferimento verso un luogo sicuro lungo la costa e da lì per via di terra verso altre dimore.

Ma poiché tutto ciò ancora non lo sapevamo, i nostri pensieri di ragazzi avventurosi si concentrarono sui possibili itinerari di accesso alla grotta. Come ci fu presto chiaro ci erano date due sole possibilità.

La prima, più agevole ma al contempo meno praticabile, era quella via mare. Per percorrerla avevamo bisogno di una barca e, a parte la capacità di governarla, l’ostacolo più arduo era dato dalla difficoltà di reperirla.

Guidati da Matteo partimmo, inquadrati come un piccolo drappello di soldati, alla volta del porto dove secondo il nostro condottiero, tale si era investito con quella audace proposta, egli sapeva come fare per procurarcene una senza essere scoperti e dissuasi dal nostro intento. La spedizione, come sottovoce aveva previsto il mio amico Delio, non ebbe successo.

Fu Ilario a proporre l’alternativa dell’avvicinamento via terra lungo un impervio percorso tra gli scogli a picco sul mare. Ci inoltrammo sul sentiero di accesso alla piscaria[3] sottostante la parte di costa ad angolo retto compresa tra la piazza del castello e la via di Phanós da cui noi ragazzi avevamo osservato il vomito del drago. L’impresa si rivelò più ardua del previsto. Dopo aver percorso tutto il sentiero della piscaria, arrivati a meno di cinquanta braccia dalla grotta, ci trovammo dinanzi a un’alta parete di roccia a picco sul mare e a perpendicolo sotto le mura del castello e il parapetto delimitante il lungomare. Che fare? Non essendoci alcuna possibilità di proseguire fummo costretti a constatare la seconda sconfitta, devo dire con un certo sollievo da parte di tutti. Il ritorno fu una fuga precipitosa, una ritirata disordinata a causa delle grida provenienti dall’alto che ci intimavano di tornare indietro e minacciavano conseguenze gravi. A gridare le minacce erano le guardie del Conte che ci avevano avvistati dagli spalti del castello e già correvano verso di noi per impartirci la punizione minacciata. Per nostra fortuna fummo più veloci di loro, ritornammo sulla via di Phanós e riuscimmo a disperderci nei vicoli della città bassa dove alle guardie sarebbe stato impossibile rintracciarci. Io e Delio facemmo mestamente ritorno verso casa, mentre in città, come narrerò nei prossimi tre capitoli, si erano succeduti eventi che diedero una svolta alla mia vita e ai destini del feudo.


[1] Il piede a Leuternia corrispondeva a 0,3349 cm.

[2] Un braccio è pari a 54 cm. e a circa 2 palmi.

[3] La “piscaria” era un seno di mare atto alla pesca, chiuso da una rete manovrata da terra con un congegno carrucolare che collegava i due lati dell’insenatura.

 

 

 

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