giovedì 20 ottobre 2022

L E U T E R N I A Cronica di una Gigantomachia del nostro tempo infelice

Capitolo primo 

A Leuternia si manifesta il fenomeno delle esalazioni sulfuree.

 

De intra alla crutta ‘ssia, comu de nnu fummicaru, nnu pinnacchiu de fumu ca ‘rrivava fino alla muraja de lu casteddhru e poi u jentu de tramuntana cu ‘nna marciotula lu sparpajava e lu facia sparire.

La storia di Leuternia nell’ultimo quarto del XIV secolo fu segnata da un fenomeno a prima vista inspiegabile. Poi compresi che inspiegabile non era. C’è voluta un’intera vita per trovarne il bandolo, ma alla fine la verità è venuta a galla e fu essa a segnare il mio destino. Emerse lentamente proprio come quello strato lattiginoso che un bel giorno cominciò a fuoriuscire dalla grotta, poco più di una fenditura nella roccia dell’ardua scogliera sottostante la residenza del conte, a picco sul mare. Non erano soltanto il colore biancastro e la consistenza filamentosa a sorprenderci, quanto il fetore nauseabondo, come un concentrato di uova marce lasciate a lungo a macerare in una giara. Non a caso il sito di quella fonte, denominato grotta Ferrata, fu ribattezzato, con immediato e inevitabile accostamento, con il nome di Fetida, in assonanza con l’atavico nome dialettale di Feddrhica, fessura,simboleggiante lo stretto squarcio verticale della scogliera che ne scherma l’interno cavernoso e profondo, scavato dalla pazienza di un fiume carsico che vi scarica l’acqua piovana raccolta nelle viscere della feconda terra di Leuternia.
Mai nessuno, a memoria d’uomo, aveva osservato un fenomeno siffatto; gli annali del paese non ne parlavano: quindi doveva essere opera del diavolo che appestava l’acqua e l’aria della lordura di cui consiste il paesaggio infernale. Forse il Signore nostro Gesù Cristo ci aveva abbandonati alla mercé degli eventi e ci puniva per i nostri peccati. 
Lo scrivo perché tali furono i pensieri degli abitanti di Leuternia di fronte a quella sventura e tale anche il pensiero del Conte, signore del luogo. Senonché i pensieri formulati dal popolo e dal suo reggitore, seppure concordanti nella lettera, discordavano nella sostanza ed evidenziavano un forte contrasto d’interessi e di valutazioni.
Il pensiero del popolo riteneva la punizione divina giustificata dalla propria incapacità di approfittare del conflitto per il controllo del feudo tra la famiglia del conte Patruno e i fratelli Giganti, suoi lontani parenti con pretese di rivendicazioni dinastiche a suo danno, conflitto che aveva trasformato il feudo in un campo di battaglia con conseguenze disastrose per le già precarie condizioni di vita del popolo. La famiglia comitale dal suo canto la riconduceva al comportamento infedele di una parte del popolo che aveva osato ribellarsi al potere legittimo e avanzato rivendicazioni ritenute inammissibili. Interpretazioni diverse ed ambedue vere, ma anche ambedue false, frutto della superstizione e dell’ignoranza, piuttosto che della realtà dei fatti accaduti nel corso di quella cruenta contesa. La superstizione e l’ignoranza stavano tutte dalla parte del popolo che non conoscendo i fatti si rifugiava nella consolazione della religione dalla quale si attendeva conforto e aiuto per sopportare il castigo e nella penitenza rendersi degno del perdono con la cessazione del flagello inflittogli. Il potere comitale, causa prima della presunta origine del fenomeno, avendola favorita e determinata, si affidava alla superstizione con il consapevole intento di raggirare la buonafede dei sudditi, per ricondurli sulla strada dell’ubbidienza e della sottomissione al legittimo sovrano sostenuto dall’investitura della Divina Provvidenza.
 
La nauseabonda macchia biancastra formatasi all’imboccatura della grotta, col passare del tempo si allargò, si spinse al largo e di lato, curvata verso ovest dalla corrente di tramontana, poi finalmente, diluita dal pigro scorrere delle onde di superficie, si stabilizzò nella forma e nelle dimensioni che di lì in poi hanno caratterizzato perennemente quel tratto di mare. L’aria circostante la grotta era in permanenza gravata da un pungente e nauseabondo miasma che la brezza disperdeva con le sue folate purificatrici sul resto della cittadina e dei suoi immediati dintorni.
Era il 20 di febbraio, un mattino accidioso e lutulento, insolitamente freddo, senza sole; il cielo con il suo carico di nuvole illiriche minacciava neve, un evento insolito, improbabile alle nostre latitudini.
 
Il 20 di febbraio come il giorno della morte di Tancredi conte di Lecce e re di Sicilia benefattore della nostra terra che a distanza di secoli ancora rimpiange la sua forte mano capace di tener la briglia corta ai feudatari, con sollievo per le condizioni dei sudditi che tanto ne beneficiarono e n’ebbero in dote preziose opere d’arte e di culto che ancora ai nostri tempi si ergono maestose a ricordarne la grandezza.
 
Il mare sotto costa era increspato da refoli di tramontana che spiravano capricciosi da dietro il promontorio della Mastefina. Al largo le onde spinte da un vento teso e costante si inseguivano lanciando in avanti bianchi pennacchi di spuma dalla breve esistenza, effimeri fiocchi di neve, presto sopraffatti dall’incedere incessante del vento che li disperdeva e dal rigurgito avvolgente delle onde. Dall’interno della grotta, alla sommità della stretta entrata, quasi fosse il camino di una carbonaia, un persistente sbuffo di fumo s’innalzava come un pennacchio fino a lambire i contrafforti del castello per poi arricciarsi, piegarsi a destra e a manca, scompigliato dal vento, prima di ricadere, impalpabile, sulla terra ferma e sulle acque, insozzandole della sua graveolenza.
A non disperdersi era quel fetore acre di uova marce che ristagnava a mezzaria impregnando di sé cose, animali e persone. Le persone si difendevano coprendo naso e bocca con bende e fasce legate intorno alla testa o si munivano di erbe aromatiche, foglie di alloro e rami di cipresso, menta, basilico o prezzemolo a cui erano attribuiti poteri esorcistici o semplicemente purificanti. Gli animali fiutavano l’aria, ergevano incerti la testa e si accucciavano quieti in attesa, di cosa non so, ma i loro occhi sembravano implorare un rimedio, un sollievo che li sgravasse da quell’invisibile oltraggio. Per le piante e le cose non c’era difesa di sorta e s’immalinconivano in un estremo, impossibile tentativo di sottrarsi al tormento.
 
Sul lungomare di Leuternia, una lunga balconata affacciata sull’alta falesia granitica, alla destra del castello, verso la zona del porto, si erano radunate centinaia di persone, e altre continuavano ad aggiungersene richiamate dall’inquietante novità sulfurea. Nella città era tutto un rincorrersi di voci, di richiami, di commenti; era una corsa affannosa alla ricerca di uno spazio libero lungo il parapetto che si affacciava sullo strapiombo roccioso, posto d’osservazione privilegiato per valutare con l’incredula vista la causa di ciò che l’olfatto già conosceva.
La ressa intorno al parapetto, la cui altezza non superava i quattro palmi[1], metteva in pericolo la sicurezza degli astanti incautamente sporti e sgomitanti, e si rischiò davvero la tragedia (ben minore di quella che si voleva osservare) a causa delle numerose liti per la conquista dei punti di osservazione più favorevoli. Non erano infrequenti, d’altronde, le cadute accidentali (e soprattutto quelle causate), data l’altezza dello strapiombo, e l’inevitabile impatto con gli scogli sottostanti che non lasciavano scampo; ed era cosa nota in città e nel circondario che molti delitti fossero stati consumati in quel modo, specialmente nelle notti di tempesta, quando il rumore sordo del mare copriva le grida e i cavalloni tremendi di scirocco spazzavano la scogliera dilavandone ogni traccia, dilaniando i poveri corpi ai quali la sorte non avrebbe accordato alcuna sepoltura.
Le strade che dall’interno scendevano verso il mare, come torrenti in piena, scaricavano flussi ininterrotti di persone nei giardini, nelle piazze adiacenti il lungomare e soprattutto nella spianata antistante il castello dove di solito si celebravano le ricorrenze pubbliche e le giostre tra i migliori cavalieri di Terra d’Otranto; altri le risalivano animati dalla sincera volontà di ritornare alle occupazioni consuete, consapevoli tuttavia dell’inconsistenza di quei buoni propositi. I più coraggiosi, al grido di “Al porto, al porto”, progettavano spedizioni in barca per sincerarsi di persona della consistenza di quello scolo puzzolente, percolante dalle fondamenta del castello.
C’era la folla delle grandi occasioni: borghesi e galantuomini, benestanti e straccioni; artigiani, bottegai e manovali che avevano interrotto il lavoro per accorrere verso l’irresistibile richiamo dell’imprevisto. C’erano donne strappate alle faccende domestiche, donne del mercato e bambini e ragazzi, una folla rumorosa di ragazzi tra i quali mi annovero insieme ai miei amici, pronti all’avventura e alla scoperta, ignari del pericolo che paventavano i grandi, eccitati e timorosi allo stesso tempo. I balconi e le finestre dei palazzi affacciati sul lungomare erano anch’essi affollati, sembravano bocche di arnie intorno alle quali i curiosi come api facevano ressa e si spostavano, entravano e uscivano mossi dal bisogno impellente di vedere, come se quella macchia biancastra di mare fosse il fiore dal quale suggere il nettare della conoscenza.
Non c’era allegria sui volti delle persone, c’erano preoccupazione e ansia; le poche frasi scambiate nei concitati momenti della scoperta rivelavano il bisogno di essere rassicurati, di sapere che sarebbe stato un fenomeno passeggero, qualcosa che la ragione avrebbe potuto spiegare e l’intelletto comprendere.
Non c’erano certezze neanche nelle ipotesi azzardate dai sapientoni di turno; ognuna era preceduta o seguita da frasi di cautela, ma l’inclinazione al pessimismo era comunque palese, tant’è che non era raro incontrare gente inginocchiata per strada con le braccia levate al cielo che salmodiava preghiere invocando il perdono di Dio; altri, come flagellanti, si battevano il petto impetrando la misericordia divina mentre rivolti agli astanti li incitavano ad unirsi nella preghiera e in un’improvvisata processione si indirizzavano verso la chiesa matrice per cantare le laudi e pentirsi dei propri peccati, perché, ne erano certi, erano stati l’alterigia degli abitanti di Leuternia e il loro smisurato orgoglio ad attirare sulla città quella grave sciagura che si sarebbe rivelata peggiore della peste.
«Ricordate le sette coppe dell’ira di Dio», si sentiva urlare: «Il secondo angelo versò la sua coppa nel mare; esso divenne sangue simile a quello di un morto, e ogni essere vivente che si trovava nel mare morì. Poi il terzo angelo versò la sua coppa nei fiumi e nelle sorgenti; e le acque diventarono sangue»[2].  
Fosse stato sangue, il mare si sarebbe tinto di rosso e nell’abbacinante riflesso del sole avrebbe offeso la vista, irritato le pupille, costretto gli uomini ad abbassare gli sguardi o a guardar di sottecchi come quando si assiste a una scena ripugnante che offende la comune sensibilità e causa empiti d’istintiva repulsione; invece era una sostanza biancastra, fluorescente, grumosa, a tratti gorgogliante, come in ebollizione, talché sprigionava una rada nebbiolina veleggiante a circa un palmo sul pelo dell’acqua, stranamente liscia e quasi immobile nonostante le scorrerie della tramontana che fuor da quella macchia l’increspava con le sue incursioni rapsodiche. Al di sotto della superficie lattescente s’intuivano movimenti lenti, sinuosi, che attraversavano l’intera area nelle più diverse direzioni senza mai rivelarsi oltre il suo perimetro. Quei movimenti attirarono la spasmodica attenzione dell’attonita calca che ne trasse funesti presagi, abbinati alla presenza di mostruosi animali marini serpentiformi: la Pistrice, si disse, che ingoiò Giona, o il Leviatano che “Fa bollire l'abisso come una caldaia, del mare fa come un vaso di unguenti[3].
I rintocchi a martello delle campane della chiesa matrice allarmarono ancora di più la popolazione; ad essi seguirono, di lì a poco, i rintocchi a distesa di tutte le campane delle chiese e delle confraternite cittadine che convocavano i fedeli alla preghiera comune. In chiesa ci andarono soprattutto le donne e gli anziani, gli uomini restarono a vigilare lungo il parapetto del lungomare, a cercare le informazioni che ne spiegassero l’arcano. I ragazzi, sfuggiti al controllo di genitori e maestri di bottega, si erano defilati lontano dagli sguardi degli adulti e progettavano fantasiose incursioni nella grotta alla scoperta del drago che vomitava le sozzure inquinanti l’aria ed il mare. Poi fu il silenzio. Un silenzio tremolante e sospeso, un attendere carico di aspettative inespresse ed inesprimibili, perché nessuno sapeva cosa chiedere e cosa aspettarsi. E fu naturale gettarsi nelle braccia della preghiera per chiedere la benevolenza divina.
Il silenzio fu interrotto dalla voce dei chierici: era ancora un parlare sommesso, incerto e perplesso, che divenne un inevitabile invito alla penitenza, si trasformò in un accorato grido collettivo di salvazione per riversarsi fuori dalle porte delle chiese come il rumore sordo del mare in tempesta o del vento impetuoso che mugghia nelle strade e nei campi alberati.
Allora la città fu tutto un susseguirsi di Salmi: Miserére mei, Deus, secundúm magnam misericórdiam tuam (Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia)[4]; di canti penitenziali e Te Deum: Salvum fac pópulum tuum, Dómine (Salva il tuo popolo, Signore)[5]; amplificati dall’inquietante calma scesa sulla città, nei vicoli deserti, dall’assenza dei rumori abituali che accompagnano le attività delle botteghe artigiane, dall’assente vociare delle donne nei mercati e nelle botteghe, dai giochi dei bambini, dalle liti delle comari. Quelli che ancora si attardavano per le strade, e tutti gli altri rimasti sul lungomare, in mezzo a quel vuoto si sentirono costretti a parlare a bassa voce e a togliersi il copricapo in segno di devozione e di rispettosa partecipazione alla preghiera collettiva.

[1] Il palmo misura l’equivalente di circa 26 cm.

[2] Apocalisse 16: 3-4

[3] Libro di Giobbe, 41: 23

[4] Salmo 50 Miserere, 3-4

[5] Te Deum

 

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