Capitolo primo
A Leuternia si manifesta il fenomeno delle esalazioni sulfuree.
De intra alla
crutta ‘ssia, comu de nnu fummicaru, nnu pinnacchiu de fumu ca ‘rrivava fino alla
muraja de lu casteddhru e poi u jentu de tramuntana cu ‘nna marciotula lu
sparpajava e lu facia sparire.
La
storia di Leuternia nell’ultimo quarto del XIV secolo fu segnata da un fenomeno
a prima vista inspiegabile. Poi compresi che inspiegabile non era. C’è voluta
un’intera vita per trovarne il bandolo, ma alla fine la verità è venuta a galla
e fu essa a segnare il mio destino. Emerse
lentamente proprio come quello strato lattiginoso che un bel giorno cominciò a
fuoriuscire dalla grotta, poco più di una fenditura nella roccia dell’ardua
scogliera sottostante la residenza del conte, a picco sul mare. Non erano
soltanto il colore biancastro e la consistenza filamentosa a sorprenderci,
quanto il fetore nauseabondo, come un concentrato di uova marce lasciate a lungo
a macerare in una giara. Non a caso il sito di quella fonte, denominato grotta
Ferrata, fu ribattezzato, con immediato e inevitabile accostamento, con il nome
di Fetida, in assonanza con l’atavico nome dialettale di Feddrhica, fessura,simboleggiante lo stretto squarcio verticale della
scogliera che ne scherma l’interno cavernoso e profondo, scavato dalla pazienza
di un fiume carsico che vi scarica l’acqua piovana raccolta nelle viscere della
feconda terra di Leuternia.
Mai
nessuno, a memoria d’uomo, aveva osservato un fenomeno siffatto; gli annali del
paese non ne parlavano: quindi doveva essere opera del diavolo che appestava l’acqua
e l’aria della lordura di cui consiste il paesaggio infernale. Forse il Signore
nostro Gesù Cristo ci aveva abbandonati alla mercé degli eventi e ci puniva per
i nostri peccati.
Lo scrivo
perché tali furono i pensieri degli abitanti di Leuternia di fronte a quella
sventura e tale anche il pensiero del Conte, signore del luogo. Senonché i
pensieri formulati dal popolo e dal suo reggitore, seppure concordanti nella lettera,
discordavano nella sostanza ed evidenziavano un forte contrasto d’interessi e
di valutazioni.
Il pensiero
del popolo riteneva la punizione divina giustificata dalla propria incapacità
di approfittare del conflitto per il controllo del feudo tra la famiglia del
conte Patruno e i fratelli Giganti, suoi lontani parenti con pretese di
rivendicazioni dinastiche a suo danno, conflitto che aveva trasformato il feudo
in un campo di battaglia con conseguenze disastrose per le già precarie
condizioni di vita del popolo. La famiglia comitale dal suo canto la
riconduceva al comportamento infedele di una parte del popolo che aveva osato
ribellarsi al potere legittimo e avanzato rivendicazioni ritenute inammissibili.
Interpretazioni diverse ed ambedue vere, ma anche ambedue false, frutto della
superstizione e dell’ignoranza, piuttosto che della realtà dei fatti accaduti
nel corso di quella cruenta contesa. La superstizione e l’ignoranza stavano
tutte dalla parte del popolo che non conoscendo i fatti si rifugiava nella
consolazione della religione dalla quale si attendeva conforto e aiuto per
sopportare il castigo e nella penitenza rendersi degno del perdono con la
cessazione del flagello inflittogli. Il potere comitale, causa prima della
presunta origine del fenomeno, avendola favorita e determinata, si affidava
alla superstizione con il consapevole intento di raggirare la buonafede dei
sudditi, per ricondurli sulla strada dell’ubbidienza e della sottomissione al legittimo
sovrano sostenuto dall’investitura della Divina Provvidenza.
La
nauseabonda macchia biancastra formatasi all’imboccatura della grotta, col
passare del tempo si allargò, si spinse al largo e di lato, curvata verso ovest
dalla corrente di tramontana, poi finalmente, diluita dal pigro scorrere delle
onde di superficie, si stabilizzò nella forma e nelle dimensioni che di lì in
poi hanno caratterizzato perennemente quel tratto di mare. L’aria circostante
la grotta era in permanenza gravata da un pungente e nauseabondo miasma che la
brezza disperdeva con le sue folate purificatrici sul resto della cittadina e
dei suoi immediati dintorni.
Era
il 20 di febbraio, un mattino accidioso e lutulento, insolitamente freddo,
senza sole; il cielo con il suo carico di nuvole illiriche minacciava neve, un
evento insolito, improbabile alle nostre latitudini.
Il 20 di febbraio come il giorno della
morte di Tancredi conte di Lecce e re di Sicilia benefattore della nostra terra
che a distanza di secoli ancora rimpiange la sua forte mano capace di tener la
briglia corta ai feudatari, con sollievo per le condizioni dei sudditi che
tanto ne beneficiarono e n’ebbero in dote preziose opere d’arte e di culto che
ancora ai nostri tempi si ergono maestose a ricordarne la grandezza.
Il
mare sotto costa era increspato da refoli di tramontana che spiravano
capricciosi da dietro il promontorio della Mastefina. Al largo le onde spinte
da un vento teso e costante si inseguivano lanciando in avanti bianchi
pennacchi di spuma dalla breve esistenza, effimeri fiocchi di neve, presto
sopraffatti dall’incedere incessante del vento che li disperdeva e dal
rigurgito avvolgente delle onde. Dall’interno della grotta, alla sommità
della stretta entrata, quasi fosse il camino di una carbonaia, un persistente
sbuffo di fumo s’innalzava come un pennacchio fino a lambire i contrafforti del
castello per poi arricciarsi, piegarsi a destra e a manca, scompigliato dal
vento, prima di ricadere, impalpabile, sulla terra ferma e sulle acque,
insozzandole della sua graveolenza.
A
non disperdersi era quel fetore acre di uova marce che ristagnava a mezzaria
impregnando di sé cose, animali e persone. Le persone si difendevano coprendo
naso e bocca con bende e fasce legate intorno alla testa o si munivano di erbe
aromatiche, foglie di alloro e rami di cipresso, menta, basilico o prezzemolo a
cui erano attribuiti poteri esorcistici o semplicemente purificanti. Gli
animali fiutavano l’aria, ergevano incerti la testa e si accucciavano quieti in
attesa, di cosa non so, ma i loro occhi sembravano implorare un rimedio, un
sollievo che li sgravasse da quell’invisibile oltraggio. Per le piante e le
cose non c’era difesa di sorta e s’immalinconivano in un estremo, impossibile
tentativo di sottrarsi al tormento.
Sul
lungomare di Leuternia, una lunga balconata affacciata sull’alta falesia
granitica, alla destra del castello, verso la zona del porto, si erano radunate
centinaia di persone, e altre continuavano ad aggiungersene richiamate
dall’inquietante novità sulfurea. Nella città era tutto un rincorrersi di voci,
di richiami, di commenti; era una corsa affannosa alla ricerca di uno spazio
libero lungo il parapetto che si affacciava sullo strapiombo roccioso, posto
d’osservazione privilegiato per valutare con l’incredula vista la causa di ciò
che l’olfatto già conosceva.
La
ressa intorno al parapetto, la cui altezza non superava i quattro palmi[1], metteva in
pericolo la sicurezza degli astanti incautamente sporti e sgomitanti, e si
rischiò davvero la tragedia (ben minore di quella che si voleva osservare) a
causa delle numerose liti per la conquista dei punti di osservazione più favorevoli.
Non erano infrequenti, d’altronde, le cadute accidentali (e soprattutto quelle
causate), data l’altezza dello strapiombo, e l’inevitabile impatto con gli
scogli sottostanti che non lasciavano scampo; ed era cosa nota in città e nel
circondario che molti delitti fossero stati consumati in quel modo,
specialmente nelle notti di tempesta, quando il rumore sordo del mare copriva
le grida e i cavalloni tremendi di scirocco spazzavano la scogliera dilavandone
ogni traccia, dilaniando i poveri corpi ai quali la sorte non avrebbe accordato
alcuna sepoltura.
Le
strade che dall’interno scendevano verso il mare, come torrenti in piena,
scaricavano flussi ininterrotti di persone nei giardini, nelle piazze adiacenti
il lungomare e soprattutto nella spianata antistante il castello dove di solito
si celebravano le ricorrenze pubbliche e le giostre tra i migliori cavalieri di
Terra d’Otranto; altri le risalivano animati dalla sincera volontà di ritornare
alle occupazioni consuete, consapevoli tuttavia dell’inconsistenza di quei
buoni propositi. I più coraggiosi, al grido di “Al porto, al porto”,
progettavano spedizioni in barca per sincerarsi di persona della consistenza di
quello scolo puzzolente, percolante dalle fondamenta del castello.
C’era
la folla delle grandi occasioni: borghesi e galantuomini, benestanti e
straccioni; artigiani, bottegai e manovali che avevano interrotto il lavoro per
accorrere verso l’irresistibile richiamo dell’imprevisto. C’erano donne
strappate alle faccende domestiche, donne del mercato e bambini e ragazzi, una
folla rumorosa di ragazzi tra i quali mi annovero insieme ai miei amici, pronti
all’avventura e alla scoperta, ignari del pericolo che paventavano i grandi,
eccitati e timorosi allo stesso tempo. I balconi e le finestre dei palazzi affacciati
sul lungomare erano anch’essi affollati, sembravano bocche di arnie intorno
alle quali i curiosi come api facevano ressa e si spostavano, entravano e
uscivano mossi dal bisogno impellente di vedere, come se quella macchia
biancastra di mare fosse il fiore dal quale suggere il nettare della
conoscenza.
Non
c’era allegria sui volti delle persone, c’erano preoccupazione e ansia; le
poche frasi scambiate nei concitati momenti della scoperta rivelavano il
bisogno di essere rassicurati, di sapere che sarebbe stato un fenomeno
passeggero, qualcosa che la ragione avrebbe potuto spiegare e l’intelletto
comprendere.
Non
c’erano certezze neanche nelle ipotesi azzardate dai sapientoni di turno; ognuna
era preceduta o seguita da frasi di cautela, ma l’inclinazione al pessimismo
era comunque palese, tant’è che non era raro incontrare gente inginocchiata per
strada con le braccia levate al cielo che salmodiava preghiere invocando il
perdono di Dio; altri, come flagellanti, si battevano il petto impetrando la
misericordia divina mentre rivolti agli astanti li incitavano ad unirsi nella
preghiera e in un’improvvisata processione si indirizzavano verso la chiesa
matrice per cantare le laudi e pentirsi dei propri peccati, perché, ne erano
certi, erano stati l’alterigia degli abitanti di Leuternia e il loro smisurato
orgoglio ad attirare sulla città quella grave sciagura che si sarebbe rivelata
peggiore della peste.
«Ricordate le sette coppe dell’ira di Dio»,
si sentiva urlare: «Il secondo angelo
versò la sua coppa nel mare; esso divenne sangue simile a quello di un morto, e
ogni essere vivente che si trovava nel mare morì. Poi il terzo angelo versò la
sua coppa nei fiumi e nelle sorgenti; e le acque diventarono sangue»[2].
Fosse
stato sangue, il mare si sarebbe tinto di rosso e nell’abbacinante riflesso del
sole avrebbe offeso la vista, irritato le pupille, costretto gli uomini ad
abbassare gli sguardi o a guardar di sottecchi come quando si assiste a una
scena ripugnante che offende la comune sensibilità e causa empiti d’istintiva
repulsione; invece era una sostanza biancastra, fluorescente, grumosa, a tratti
gorgogliante, come in ebollizione, talché sprigionava una rada nebbiolina veleggiante
a circa un palmo sul pelo dell’acqua, stranamente liscia e quasi immobile
nonostante le scorrerie della tramontana che fuor da quella macchia
l’increspava con le sue incursioni rapsodiche. Al di sotto della superficie
lattescente s’intuivano movimenti lenti, sinuosi, che attraversavano l’intera
area nelle più diverse direzioni senza mai rivelarsi oltre il suo perimetro.
Quei movimenti attirarono la spasmodica attenzione dell’attonita calca che ne
trasse funesti presagi, abbinati alla presenza di mostruosi animali marini
serpentiformi: la Pistrice, si disse, che ingoiò Giona, o il Leviatano che “Fa bollire l'abisso come una caldaia, del
mare fa come un vaso di unguenti”[3].
I
rintocchi a martello delle campane della chiesa matrice allarmarono ancora di
più la popolazione; ad essi seguirono, di lì a poco, i rintocchi a distesa di
tutte le campane delle chiese e delle confraternite cittadine che convocavano i
fedeli alla preghiera comune. In chiesa ci andarono soprattutto le donne e gli
anziani, gli uomini restarono a vigilare lungo il parapetto del lungomare, a
cercare le informazioni che ne spiegassero l’arcano. I ragazzi, sfuggiti al
controllo di genitori e maestri di bottega, si erano defilati lontano dagli
sguardi degli adulti e progettavano fantasiose incursioni nella grotta alla
scoperta del drago che vomitava le sozzure inquinanti l’aria ed il mare. Poi
fu il silenzio. Un silenzio tremolante e sospeso, un attendere carico di
aspettative inespresse ed inesprimibili, perché nessuno sapeva cosa chiedere e
cosa aspettarsi. E fu naturale gettarsi nelle braccia della preghiera per
chiedere la benevolenza divina.
Il
silenzio fu interrotto dalla voce dei chierici: era ancora un parlare sommesso,
incerto e perplesso, che divenne un inevitabile invito alla penitenza, si
trasformò in un accorato grido collettivo di salvazione per riversarsi fuori
dalle porte delle chiese come il rumore sordo del mare in tempesta o del vento
impetuoso che mugghia nelle strade e nei campi alberati.
Allora
la città fu tutto un susseguirsi di Salmi: Miserére mei, Deus, secundúm magnam misericórdiam tuam (Pietà di me, o Dio, secondo la tua
misericordia)[4]; di canti penitenziali e Te Deum: Salvum fac pópulum tuum, Dómine (Salva il tuo popolo, Signore)[5]; amplificati dall’inquietante calma scesa sulla città,
nei vicoli deserti, dall’assenza dei rumori abituali che accompagnano le
attività delle botteghe artigiane, dall’assente vociare delle donne nei mercati
e nelle botteghe, dai giochi dei bambini, dalle liti delle comari. Quelli che
ancora si attardavano per le strade, e tutti gli altri rimasti sul lungomare, in
mezzo a quel vuoto si sentirono costretti a parlare a bassa voce e a togliersi
il copricapo in segno di devozione e di rispettosa partecipazione alla
preghiera collettiva.
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